Jean-Paul Belmondo guida con la sigaretta in bocca, guarda verso la macchina da presa e si rivolge agli spettatori. Non era mai successo prima: in un istante Jean-Luc Godard rompe le regole del cinema.
Nel 1959 dirige il suo primo lungometraggio: À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro) con Jean-Paul Belmondo, Jean Seberg e Jean-Pierre Melville, il film diviene immediatamente simbolo della Nouvelle Vague francese. Tratto da un soggetto degli amici François Truffaut e Claude Chabrol, viene girato in sole quattro settimane e con un budget limitato. Godard utilizza la cinepresa a mano e vari strumenti di fortuna, come una sedia a rotelle per realizzare le carrellate. À bout de souffle richiama due milioni di spettatori e conquista l’Orso d’Argento al Festival di Berlino, ottenendo una distribuzione internazionale.
Sono tante le novità portate per la prima volta sullo schermo: l’introduzione dei jump-cut e quindi una nuova forma di montaggio, la sceneggiatura appena abbozzata (ma non inesistente, come leggenda vorrebbe), gli attori che si rivolgono direttamente al pubblico, gli sguardi in macchina e la recitazione improvvisata. Godard grida fortissimo al mondo la finzione del cinema, radicale e provocatorio, è uno dei cineasti più significativi del cinema francese e internazionale. L’impatto che ha avuto sul linguaggio cinematografico gli è valso l’Oscar alla carriera nel 2011.
Tutta la narrazione di À bout de souffle è costruita attorno alla figura di Michel Poiccard (Jean-Paul Belmondo), un giovane criminale in fuga dalla polizia che, giunto a Parigi, ha una relazione con un’aspirante giornalista di nome Patricia Franchini, (Jean Seberg) e tenta di convincerla a scappare insieme a lui in Italia. In una scena, Belmondo imita il divo americano Humphrey Bogart, guardandone il manifesto per strada. Michel però è decisamente meno romantico, un anti-eroe senza ideali, segue i suoi impulsi criminali ed è scorretto come lo sono spesso i personaggi di Godard.
Nel finale, drammatico e ironico insieme, l’allusione all’incomunicabilità tra i due amanti è esplicita, ed è un male dei tempi più che una difficoltà linguistica: ci guardiamo fissi negli occhi, e non serve a niente commenta sconsolata Patricia, avvertendo il vuoto assoluto che la lega a Michel. Sono questo insieme di citazioni letterarie e i riferimenti pittorici e cinematografici ai film noir degli anni ’50 a fare di Godard un’icona pop.
Idolo di Quentin Tarantino e Sofia Coppola, ispirazione di Martin Scorsese, citatissimo anche dalla moda e dalla pubblicità – Godard del suo cinema dice: quello che conta non è il messaggio, è lo sguardo e il cinema sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda ai nostri desideri. E i desideri di Godard sono rivoluzionari, androgini, lenti, riflessi negli specchi, concentrati sull’irrilevante – quello che si fa protagonista dei venti minuti di dialogo sul niente, in un albergo qualunque, tra due persone che si guardano negli occhi senza riuscire a vedersi.
Nel romanzo La metafisica dei tubi Amélie Nothomb scrive una cosa che avrebbe potuto dichiarare Godard stesso in un’intervista: Lo sguardo è una scelta. Chi guarda decide di soffermarsi su una determinata cosa e di escludere dunque all’attenzione il resto del proprio campo visivo. In questo senso lo sguardo, che è l’essenza della vita, è prima di tutto un rifiuto. Il cinema di Godard è stato uno sguardo nuovo sul mondo, un rifiuto di tutto quello che l’ha preceduto sul grande schermo.
In À bout de souffle gridava la sua rivoluzione da ogni imperfetta inquadratura, ma era come se sussurrasse. Da un certo punto in poi, persino l’iconico cineasta non è stato all’altezza di sé stesso, ma non è un’iperbole definire quello di Godard uno degli esordi più stupefacenti di sempre. Se anche À bout de souffle fosse stato il suo primo e ultimo film, avrebbe comunque fatto la storia del cinema.