Astenersi materialisti, pragmatici e cinici. Perché l’esordio al cinema di Michele Vannucci, classe 1987, è una storia di sognatori, per sognatori, realizzata da sognatori.
Il più grande sogno è partito dalla Mostra del Cinema di Venezia, dove è stato presentato nella sezione Orizzonti, ha viaggiato in alcuni dei più importanti festival internazionali, per approdare nelle sale italiane all’inizio del 2017. È la storia di Mirko Frezza, appena uscito di prigione, e del suo visionario sogno di dare un futuro diverso a se stesso, alla sua famiglia e a tutto il suo quartiere. Lo sfondo è una Roma di degrado ma anche di umanità e speranza, dove la realtà e la finzione, attori professionisti e non, solida sceneggiatura e scene improvvisate, convivono in un’armonia imperfetta.
Michele, raccontaci la tua formazione. Come sei arrivato al tuo primo lungometraggio?
Io devo tutto al Centro Sperimentale: mia madre è farmacista e mio padre fa il fisico, io non avrei mai pensato di fare questo lavoro. Sono entrato al CSC a 22 anni, in tre anni ho potuto sperimentare, sbagliare, fare lavori che ancora oggi amo, fra cui il corto del diploma in regia, Nati per correre (2013), la storia di un padre e un figlio, ambientato nel mondo dei biker. Un giorno, durante i casting, si sono presentati Alessandro Borghi e Mirko Frezza. Ho intuito subito che in loro c’era qualcosa, e mi sono fidato. Uscito dal CSC, il corto è andato molto bene ai festival internazionali, mi chiedevano nuove storie che raccontassero questo mondo.
Dalle interviste a Mirko al film. Qual è stato il processo creativo?
Il film è la fine di un percorso di crescita che ho intrapreso insieme a Mirko e Alessandro, con cui fin dall’inizio sapevo di poter fare qualcosa di bello. Anche se è sempre pericoloso confondere la ricerca creativa con la ricerca umana, io volevo conoscere meglio Mirko, cercando di approfondire la sua psicologia e la sua esperienza di vita all’interno della mia. Così mi sono messo in ascolto: il corto Una storia normale (2015) nasce da 10 ore di interviste a Mirko ed è stata la prima esperienza che ho fatto con Giovanni Pompili della Kino produzioni, è stato in nuce ciò che poi è successo nel film. La sceneggiatrice, Anita Otto, ha visto in Mirko la storia di un uomo che è alla ricerca di un futuro diverso da costruirsi, e un modo per raccontare il tema della paternità come responsabilità civile e familiare. Il film è stato un processo di “lavaggio” della mia storia dentro la realtà di Mirko. Il rischio è che venga confuso con una cronaca della realtà: invece è la cronaca della mia vita dentro al mondo di Mirko, perché sono miei i temi che racconto. Siamo partiti dalle sue parole per inventarci una storia, poi questa storia l’abbiamo rimessa in discussione, fino a quando, arrivati sul set, Mirko ha potuto rivivere parte della sua vita in un mondo inventato da me. Il dialogo spesso era improvvisato perché c’era un tentativo di rimettere in scena i pezzi della sua vita.
Però avete lavorato molto alla sceneggiatura.
La sceneggiatura ha vinto il premio Solinas Experimenta, un premio dedicato a opere sperimentali, abbiamo curato la struttura narrativa nei minimi dettagli – in tutto sei stesure – affinché una storia molto particolare, quasi biografica, uscisse dalla cronaca. Il film è stato girato con un’estetica da documentario perché non c’era lavoro fotografico sugli attori ma solo un lavoro sempre e solo a favore della storia. Eravamo in 5 sul set, oltre a me c’erano ciakista, macchinista, direttore della fotografia, scenografo e sceneggiatrice. Una delle cose a cui tenevo era avere più persone davanti alla macchina che dietro: troupe leggera, luce naturale, persone che credevano nella storia e che mettevano a disposizione il loro talento, senza essere protagonisti.
L’amalgama di attori professionisti e non professionisti è molto efficace. Come sei riuscito a ottenerlo?
Perché c’erano persone che si sono messe in gioco. Per me è la direzione degli attori non è tanto dirgli “fai la battuta così”, “falla più triste o più felice”, “fai la smorfia”. Io ho solo cercato di mettere le persone nella condizioni migliori per fare accadere la scena. Milena (l’attrice protagonista) si è trasferita a casa di Mirko per due mesi, perché il mio obiettivo era quello di far conoscere le persone fra di loro meglio di come li conoscessi io, perché questo avrebbe fornito loro gli strumenti per fare le scene sul set, senza che io avessi il controllo. È così che si crea, non cercando di controllare l’immagine o la scena, ma cercando di stare dentro quel mondo e portarlo a sé. Io non sono nessuno per imporre una battuta a una persona. Ho solo cercato di portare la realtà dentro al set.