Un piccolo film, anarchico, intelligente, pieno di vita, di sentimenti, di bestemmie ma soprattutto pieno di cinema. Questo è Il grande caldo, opera autenticamente collettiva, con “una divisione dei ruoli molto fumosa”, come mi racconta uno degli autori, Marcello Newman, che insieme a Dan Bensadoun, Daniele Tinti (oggi affermato stand-up comedian) e Luigi Caggiano (montatore di talento) firma la regia del film.
È un UFO cinematografico dalle molteplici suggestioni, apparentemente sgrammaticato ma con un linguaggio ibrido fra fiction e documentario, messa in scena e pedinamento, che prende forma man mano che si procede con la visione (fulminea: 55 minuti), girato con le reflex che a questo punto sono le super8 dell’era digitale, le macchine con cui si fa quel cinema viscerale che aiuta gli autori indipendenti a portare a termine le loro opere anche senza avere una lira, eroicamente. “Purché si faccia”, insomma. Vitelloni che si barcamenano fra San Lorenzo e piazza San Callisto, autarchici che provano a nobilitare la loro esistenza con ambizioni artistiche che sono troppo pigri (forse) per portare a termine, una ragazza francese che arriva a Roma per girare un cortometraggio (probabilmente un omaggio degli autori a Chloé Barreau, di cui si parlerà più avanti e, più in generale, un omaggio al cinema tout court).
Il grande caldo farà irruzione – è proprio il caso di dirlo – anche al festival di Venezia, anzi, durante il festival di Venezia: due proiezioni al BARdaDino, nei pressi dell’Arsenale, il primo settembre, alle 18.00 e alle 19.30.
Il film è stato girato nel 2013, ma la lavorazione è finita solo qualche mese fa, nove anni dopo. Perché una gestazione così lunga?
Newman: Ci sono varie versioni della storia. L’indolenza e la pigrizia, che sono poi due temi del film, hanno caratterizzato anche il processo produttivo. Il film racconta di un gruppo di ragazzi che non riescono nemmeno a girare un cortometraggio, noi forse eravamo un po’ più esperti ma non poi tanto di più. Se fossimo stati più organizzati o se avessimo avuto ambizioni maggiori, sarebbe uscito prima, certo, ma non era questo il nostro obiettivo. Noi volevamo fare semplicemente il film che ci rappresentasse di più, che ci raccontasse più fedelmente. Non avevamo idea di cosa potesse significare farlo uscire, renderlo pubblico, parole come promozione o distribuzione erano lontanissime da noi. Oggi non sento né che sia un film del passato, perché lo abbiamo rimontato completamente, né che sia un film del presente, perché il girato è sempre lo stesso, non cambia se lo conservi da qualche parte, e le intenzioni sono legate a quello che pensavamo all’epoca e a quel clima culturale.
Bensadoun: Abbiamo spesso pensato a Richard Linklater. Sono operazioni cinematografiche da un certo punto di vista abbastanza semplici, perché tutto quello che bisogna fare è aspettare, ed è molto potente vedere sugli attori il tempo che passa.
A proposito di riferimenti, anche se è abbastanza distante da Il grande caldo, anche Agostino Ferrente ha girato Le cose belle, uno dei suoi film migliori, facendo intercorrere molto tempo fra la prima e la seconda parte del film.
B: Abbiamo provato anche a scrivere qualcosa che intrecciava le immagini girate nel 2013 con qualche situazione di oggi, alcune cose ci convincevano pure abbastanza, ma alla fine abbiamo capito che ci stavamo complicando la vita e abbiamo pensato solo di rimontare le riprese che già avevamo.
Il film ha attraversato varie fasi di montaggio, il materiale evidentemente si prestava. Ma quindi se lo rimontaste fra dieci anni potrebbe cambiare ancora?
MN: Mi sembra evidente che questo film non arriverà mai alla sua forma finale, ma comunque ci auguriamo che nei prossimi dieci anni avremo un altro film al quale lavorare. Abbiamo già qualche idea, ma comunque Il grande caldo ci ha insegnato una metodologia, cioè come indagare il rapporto tra finzione e realtà, che ci potrebbe tornare utile se decidessimo di raccontare il momento che stiamo vivendo ora che siamo ragazzi di trent’anni. Sarebbe bello se attorno a noi ci fossero più film come Il grande caldo, cioè film fatti da gruppi di amici e nessun altro.
A proposito di crescita: visto adesso, dopo nove anni dalle riprese, nel film gioca un ruolo importante la nostalgia. Ho avuto l’impressione che voi girandolo già sapevate che avreste rivisto questo materiale anni dopo, trattandolo quasi come repertorio di voi stessi, un archivio della memoria.
B: Assolutamente sì. Io mi ero da poco trasferito a Roma, avevo vent’anni, ed ero già nostalgico del presente, cosa che a quell’età è comune a molti. Mi dicevo “questo che sto vivendo sparirà per sempre”, e in qualche modo grazie a Il grande caldo non è svanito nel nulla. Non saranno stati anni gloriosi, forse, ma preziosi sì.
M: Una fonte di ispirazione importante è stata Stardust Memories di Chloé Barreau, un documentario del 2008 con immagini girate nel 1999 quando la regista si era appena trasferita a Roma da Parigi. Un lavoro per me folgorante, sono riuscito anche a parlarne con la stessa Barreau. È come essere mossi da una specie di paura che un momento importante per te possa essere dimenticato. Il desiderio di conservare e immortalare alcuni momenti penso possa essere una esigenza di tutte le età. Forse questa nostalgia di cui parli è il sentimento di conservare qualcosa che tu in quel momento della tua vita ritieni possa essere speciale.
Quanto scarto c’è la sceneggiatura e le riprese? Quanto di quello che si vede nel film è scritto?
M: Il soggetto era sicuramente scritto. Anche la sceneggiatura c’era, al massimo abbiamo cambiato l’ordine di due o tre cose, e avevamo anche inserito un’altra linea narrativa che abbiamo tagliato prima ancora di iniziare le riprese. Quello che è interessante sono i dialoghi. In linea di massima, volevamo che fossero molto veritieri, ma in alcuni punti ci servivano effettivamente per per spiegare delle cose. Diciamo che circa per l’80 per cento il film è scritto e il resto è improvvisato.
La bestemmia è una provocazione o un modo di avvicinarsi alla verità? Sappiamo tutti che a Roma si parla così…
M: Direi entrambe le cose. La gente bestemmia, sempre, ma i ventenni universitari bestemmiano ancora di più. Gli universitari francesi che arrivano a Roma scoprono la bestemmia, se ne innamorano e bestemmiano venti volte di più. A dirla tutta, vedevamo pure una forma di ipocrisia nei film che raccontano questo tipo di umanità e però ripulivano i dialoghi dalle bestemmie. Visto che non siamo inseriti in un sistema produttivo industriale in cui qualcuno ci può dire cosa fare e non fare, visto che questo è un film che ci produciamo da soli e che è costato 850 euro, abbiamo usato queste condizioni a nostro vantaggio prendendoci determinate libertà.
Il grande caldo è super indipendente, per non dire anarchico. Quando avete cominciato le riprese avete immaginato un pubblico di riferimento?
B: Non lo abbiamo fatto pensando di parlare solo a noi stessi, ovviamente. In questa specificità del posto e nella onestà radicale di raccontare la nostra vita senza troppi filtri, abbiamo pensato che fosse qualcosa che potesse parlare a tutti.
M: Vorrei aggiungere che quando lo abbiamo girato, non ci siamo posti il problema: era un’epoca in cui noi producevamo dei lavori e poi capivamo come promuoverli, ma nessuno di noi era bravo a farlo. Non ragionavamo mai sul pubblico. Forse, appartenendo a un determinato ambiente creativo, tendevamo a fare le nostre cose solo per il nostro ambiente, immaginando come pubblico solo la gente con cui avevamo a che fare.
B: In ogni caso, ci piace l’idea che sia visibile in eventi particolari, in luoghi atipici, non proprio deputati alla proiezione cinematografica, un po’ come il tour di una band.