Opera prima Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 23 Oct 2024 14:33:11 +0000 it-IT hourly 1 Venezia 81: “Anywhere Anytime” e i ladri di biciclette oggi https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/venezia-81-anywhere-anytime-e-i-ladri-di-biciclette-oggi/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/venezia-81-anywhere-anytime-e-i-ladri-di-biciclette-oggi/#respond Thu, 05 Sep 2024 12:37:01 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19315 Issa è un senegalese sans papier. Quando se ne accorge l’uomo che gli dà lavoro come scaricatore al mercato, lo licenzia: troppo alto il rischio dei controlli. Da qui una bici acquistata con fatica, il lavoro di rider e il furto che stravolgerà ulteriormente la vita del ragazzo in una Torino che a modo suo […]

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Issa è un senegalese sans papier. Quando se ne accorge l’uomo che gli dà lavoro come scaricatore al mercato, lo licenzia: troppo alto il rischio dei controlli. Da qui una bici acquistata con fatica, il lavoro di rider e il furto che stravolgerà ulteriormente la vita del ragazzo in una Torino che a modo suo cerca di fare qualcosa per gli invisibili come lui, ma non è mai abbastanza. Anywhere Anytime, opera prima di Milad Tangshir, omaggia il passato di Ladri di biciclette con il presente della consegna a domicilio e prende in prestito da quei grandi sceneggiatori del Novecento (Vittorio De Sica, Cesare Zavattini, Suso Cecchi D’Amico) il congegno narrativo della bici rubata.

Il suo film pedala sull’asfalto degli invisibili, parla di lotta per la sopravvivenza e integrazione dei nuovi vinti, quindi di sfortuna e sfumature che possono far crollare un’esistenza come un castello di carte. Con l’attenzione a un realismo urbano germogliato esteticamente sul solco moderno dei fratelli Dardenne, pesca dalla strada le sue facce e i suoi cromosomi narrativi, in senso pieno. Il regista è un iraniano con un salto nel nostro paese simile a quello di Ferzan Ozpetek. Fino all’arrivo in Italia, nel 2011, aveva inciso tre album con una rock band in Iran, poi qui da noi gli studi di cinema, i primi cortometraggi premiati e la collaborazione con Daniele Gaglianone, che ha scritto la sceneggiatura insieme a lui e a Giaime Alonge. Il loro script è asciutto, scevro di pietismi e contempla l’importanza della relazioni tra le persone. Che sia amicizia, flirt, lavoro, volontariato, incontri fortuiti con brave persone o incontri con brutti ceffi, il trio di autori ci presenta un affresco molto realistico della Torino di oggi attraverso lo sguardo di un ragazzo straniero.

Tangshir ha preso dalla strada gran parte del cast. Dei non-attori, un po’ come Garrone per Io capitano. Ibrahima Sambou è il protagonista, il ragazzo che cerca solo di cavarsela. La sua limpidezza nella nostra Italia così contraddittoria ha l’asprezza di una realtà che Sambou per primo ha visto con i suoi occhi ben prima di qualsiasi set.

A prescindere dal classico percorso dell’eroe costruito per l’intrattenimento narrativo, il film apre uno squarcio su una realtà difficile, pur senza mettere lo spettatore troppo  disagio, facendogli assaggiare senza rischio quelle situazioni a tenaglia da una poltrona vellutata rinfrescata da aria condizionata. E anche senza caricare sensi di colpa sul pubblico, questo cinema mostra il mondo di oggi e le sue nuove storture subite da speranza e buona fede operosa. Il filo rosso di queste tematiche parte da lontano, cinematograficamente da De Sica passando per le crune di tanti autori e tante epoche. Dai Petri ai Loach, ai più recenti Vicari, Riondino e Garrone. Fino alla bella sorpresa Tangshir. Proprio a questo punto, nell’incontro tra realtà e narrazione, il cinema diventa strumento necessario di coscienza civile. Anywhere Anytime si avvale oltretutto di una colonna sonora fatta di rumbe jazz che ci immergono in ritmi sincopati e imprevedibili come la vita in strada. È stato presentato a Venezia per la Settimana della Critica, l’unico italiano in concorso, e uscirà al cinema l’11 settembre.

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Venezia 81 Orizzonti: “Diciannove” tra rivoluzione e comfort zone https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/venezia-81-orizzonti-diciannove-tra-rivoluzione-e-comfort-zone/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/venezia-81-orizzonti-diciannove-tra-rivoluzione-e-comfort-zone/#respond Mon, 02 Sep 2024 13:04:28 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19269 Diciannove anni, Leonardo ha le idee ancora poco chiare sul futuro. Studia lettere, ma dalla Sicilia a Londra e poi Siena sembra si areni tra i suoi libri d’epoca, un rapporto difficile con le aspettative materne, con i professori e le sessioni d’esame. In più la vita da fuorisede gli gira intorno come una trottola […]

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Diciannove anni, Leonardo ha le idee ancora poco chiare sul futuro. Studia lettere, ma dalla Sicilia a Londra e poi Siena sembra si areni tra i suoi libri d’epoca, un rapporto difficile con le aspettative materne, con i professori e le sessioni d’esame. In più la vita da fuorisede gli gira intorno come una trottola che lui schiva nella sua camera in affitto, comfort zone dove si rintana insieme alle sue pulsioni.

Diciannove è il lungometraggio d’esordio alla regia di Giovanni Tortorici, talento del 1996 scoperto da Luca Guadagnino, che lo ha prodotto insieme a Malcolm Pagani tra Italia e Inghilterra. Scheggia di coming of age e motore di una diaspora generazionale, indispone e fa tenerezza questo ragazzotto educato e saccente che perde treni e cova aspirazioni ancora incerte, così sicuro di sé riguardo alla letteratura tanto da mettersi frontalmente contro i docenti, ma allo stesso tempo perso in mondi che assaggia sfuggente dai baci di ragazze conosciute in disco. Si percepisce da ogni fotogramma il senso di spaesamento di quell’anno precedente i venti, che si scontra con le inflessibilità professorali e i problemi d’incomunicabilità. E Manfredi Marini veste il personaggio donando a questo film la giusta forza fragile di quell’età.

È in concorso nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia 81 Diciannove. La sceneggiatura saltella capricciosa e provocatoria insieme alle indecisioni e gli svarioni di Leonardo. A volte le sue vicissitudini ricordano certe atmosfere da Nouvelle Vague, forse meta agognata nella chiusura irrisolta, in certe andature narrative montate a schiaffo. Una svogliatezza formale che può esser letta in vari modi.

Le inquadrature di Tortorici sembrano incantarsi su dettagli di cielo, vicoli e contrade. Come un continuo prender e perder tempo che rappresenta in piena soggettiva quel numero dell’anima. Tempi apparentemente morti che danno respiro alla formazione del protagonista. Poi sprazzi ironici, incontri che impennano su discorsi surreali alla Tutti giù per terra di Davide Ferrario. Gli scontri intellettuali sulle sue visioni letterarie, il rifiuto rivoluzionario di ammirare certi grandi lo fanno apparire comunque un pulcino mordace in un mondo millenario come Siena che mastica da sempre storia e persone. Sta qui la tenerezza per questo personaggio così fresco e acerbo che ci presenta Tortorici. Ma abbiamo anche tante, troppe sospensioni sui vari piani narrativi, mai realmente chiusi e spesso inseriti senza nessi. Insomma, si pasticcia un po’. Come nella vita scombussolata di un diciannovenne, del resto.

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Amen, tre sorelle adolescenti in un dramma sensuale e bucolico https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/amen-tre-sorelle-adolescenti-in-un-dramma-sensuale-e-bucolico/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/amen-tre-sorelle-adolescenti-in-un-dramma-sensuale-e-bucolico/#respond Fri, 28 Jun 2024 13:22:32 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19187 Romano vissuto anche fra Londra, Parigi, Madrid e la Romania, Andrea Baroni ha scommesso tutto sulla sua passione per il cinema. Tra i suoi primi corti annovera una commedia agrodolce, 9 su 10. Adesso è alla sua opera prima, Amen, che dopo il Premio Interfedi al Torino Film Festival 2023 è ora in sala con […]

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Romano vissuto anche fra Londra, Parigi, Madrid e la Romania, Andrea Baroni ha scommesso tutto sulla sua passione per il cinema. Tra i suoi primi corti annovera una commedia agrodolce, 9 su 10. Adesso è alla sua opera prima, Amen, che dopo il Premio Interfedi al Torino Film Festival 2023 è ora in sala con Fandango.

Tre sorelle adolescenti, isolate in una campagna quasi senza tempo, devono sottostare alle imposizioni religiose e moraliste di padre e nonna nonostante la scoperta dell’altro sesso. Baroni ha esplorato il tema del limite attraverso un dramma bucolico e sensuale scritto, prodotto e girato in soli 45 giorni a zero budget. Un linguaggio estetico raffinato e materico che ha come protagoniste le tre sorelle – Grace Ambrose, Francesca Carrain e Valentina Filippeschi – e annovera nel suo cast anche Luigi Di Fiore e Silvia D’Amico.

Nel tuo film esplori il concetto di limite. Qual è la tua visione di limite, tra il film e la realtà di oggi?
È la domanda che mi ha portato a scrivere Amen. La mia attuale idea di limite appartiene al mio far parte di una società occidentale, europea e molto bianca. E questo lo vivo come un limite assoluto, in questo momento, perché so che esiste un altro mondo che forse, prima della globalizzazione, mi avrebbe raccontato cose molto diverse da quelle che vivo qui. Penso che il mio limite ora sia non ragionare su cosa ci sia oltre il limite, oltre il confine. Una cosa necessaria che invece ho esplorato girando Amen.

Hai chiuso i tuoi personaggi in un recinto emotivo muovendoli fra spiritualità, peccato e senso di colpa.
L’imposizione religiosa mi è servita come mezzo per creare il tipo di società che impone leggi. La giornata delle ragazze, le figlie di Armando, è scansionata dall’attività religiosa. Così in questa gabbia fatta di confessioni, preghiere mattutine, catechismo e lavoro nei campi ho potuto far crescere il senso di colpa fortemente presente nella dottrina cattolica. Credo sia una molla molto importante della nostra società, siamo mossi più spesso dal senso di colpa che da una volontà positiva. E ho voluto applicare questa dinamica ai miei personaggi.

Amen ha avuto una genesi record di 45 giorni. Quali sono state le difficoltà che hai dovuto risolvere intorno a te? Come hai portato le attrici in questa storia?
Intanto ho dimenticato tutti i miei desiderata, le inquadrature che avrei voluto fare, i problemi e i miei limiti aiutando troupe e attori ad ambientarsi in un contesto estremamente difficile. Il primo obiettivo era quello che gli attori creassero una sorta di famiglia. Abbiamo vissuto il set come una comune, ma non mi bastava, così ho voluto seguire le simpatie e antipatie che si creavano fuori dal set assecondandole. Quello che vedete è in parte frutto di questa genesi distorta.

Quindi hai tenuto a distanza sul set gli attori che avevano personaggi in conflitto? Un po’ come si fa con i villain?
In realtà no, non c’è stato bisogno di farlo. C’era già una sorta di distanza tra le tre ragazze che interpretano le sorelle e loro padre. Ho solo dovuto accendere la miccia tra gli attori e ha funzionato per ottenere la giusta tensione. Anche per tutta la troupe è stato molto difficile ambientarsi in una situazione produttivamente ostica. Da regista che affronta la sua opera prima e vuole girare sette inquadrature a scena, ho dovuto ridimensionarmi e capire come funzionava il mondo. Questo ha portato tutti a una grande elasticità per arrivare a finire Amen.

AmenHai anche lavorato molto con la luce naturale, soprattutto in esterni.
Fra le nostre reference fotografiche c’era un horror, Midsommar, perché intendevo raccontare qualcosa di orrorifico alla luce del sole. Non volevo notturni – non potevamo neanche permetterceli – ma scene negative e diurne. Altro esempio di gioco con il limite imposto. Con il direttore della fotografia abbiamo pensato di ottenere questo effetto in maniera direi molto artigianale, con una serie di specchi che riflettevano i raggi del sole creando effetti di luce che santificassero i personaggi. Per esempio, all’inizio il personaggio di Grace Ambrose, Sara, è nell’uliveto e, per un gioco di specchi che riflettevano la luce solare, ha dietro di sé una specie di aureola.

Anche questo è dire delle cose senza usare parole ma immagini. E di parole ce ne sono poche, spesso anche citazioni molto precise delle Sacre Scritture.
Nella prima parte del film le citazioni sono necessarie per creare il contesto che poi mi dà la possibilità di curvare. La parte di catechesi e preghiera nasconde e allo stesso tempo suggerisce che le mie tre ragazze stanno decidendo o meno di oltrepassare quel limite. Dicono una cosa, ma attraverso le immagini ne fanno altre. Sogno di fare film muti, quasi senza dialoghi, ma qui ho usato la parola per mentire. Ciò che secondo me, l’essere umano fa spesso.

In questo paradigma, la menzogna potrebbe essere lo strumento per superare i limiti?

La parola genera la bugia, quindi mente. Il problema della comunicazione e dell’incomunicabilità è alla base dei personaggi che penso e scrivo. Non a caso sono un fan sfegatato dei fratelli Coen, che raccontano spesso questi temi. Attraverso la parola si può modificare la realtà, riuscire a coprire ciò che realmente pensiamo. I miei personaggi fanno proprio questo, tranne una delle sorelle, molto dritta, pura.

Amen potrebbe definirsi un coming of age, ma è soprattutto un film di sorellanza e resistenza. Come hai gestito nella tua scrittura questo aspetto?
Ho seguito la linea dettata da ogni personaggio. Intercettare la pulsione del singolo mi ha aiutato. Ester, ad esempio, la secondogenita interpretata da Francesca Carrain, è una provocatrice nata che forse dovrebbe fuggire lontano. Ma non lo fa, perché come anche noi nelle nostre vite, abbiamo dei legami tossici da cui fatichiamo a liberarci. Vorremmo fuggire, dovremmo. Eppure non lo facciamo. C’è una specie di ricatto del sangue e della terra, perciò le tre sorelle non tradiscono realmente la loro origine. Quando successivamente ho visto Kynodontas di Yorgos Lanthimos, dove la situazione di chiusura è simile, ho capito quanto il microcosmo familiare potesse essere allegoria.

Quali sono i tuoi film del cuore? Il tuo cinema di riferimento e quello al quale aspiri?

Quello a cui aspiro lo sto ancora capendo. Da adolescente avevo un’adorazione per Nanni Moretti, ma non sarei mai in grado di lavorare come lui. Vado pazzo per Werner Herzog, Fitzcarraldo è uno dei film della mia infanzia. Ma ci sono anche Michael Haneke e Yasujirō Ozu. Poi sono diventato onnivoro, fino all’horror, che potrebbe contaminare pesantemente il mio prossimo lavoro; mi piacciono gli autori estremamente tragici. Però negli ultimi anni rivedo spesso anche LaLaLand, per il tema centrale dell’ambizione su cui Damien Chazelle aveva già lavorato in Whiplash. In ogni caso, quando scrivo e giro si cancella tutto per lavorare sulla sensazione che si genera in quel momento magico.

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Animali randagi, insolito road movie abruzzese con Ferrara e Lattanzi https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/animali-randagi-insolito-road-movie-abruzzese-con-ferrara-e-lattanzi/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/animali-randagi-insolito-road-movie-abruzzese-con-ferrara-e-lattanzi/#respond Wed, 26 Jun 2024 12:33:37 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19166 L’esordio al lungometraggio di finzione è arrivato per Maria Tilli con il road movie non convenzionale Animali randagi, in uscita nelle sale domani. Interpretano due giovani ambulanzieri di provincia Giacomo Ferrara e Andrea Lattanzi, che vivacchiano tra noia e blande avventure. Fino a una trasferta per trasportare verso la Serbia un malato incurabile insieme a […]

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L’esordio al lungometraggio di finzione è arrivato per Maria Tilli con il road movie non convenzionale Animali randagi, in uscita nelle sale domani. Interpretano due giovani ambulanzieri di provincia Giacomo Ferrara e Andrea Lattanzi, che vivacchiano tra noia e blande avventure. Fino a una trasferta per trasportare verso la Serbia un malato incurabile insieme a sua figlia, Ivan Franek e Agnese Claisse. Scandagliare la vita interiore di quattro personaggi dalle vite randagie è il punto centrale per questa regista abruzzese che ha iniziato a farsi notare tra il documentario Sembravano applausi, su Marcello Fonte e Matteo Garrone, e Illuminata, docufiction su Laura Biagiotti.

Con il cast di Animali randagi vai dall’Abruzzo alla Serbia. Giacomo Ferrara riprende il suo dialetto di origine, fai parlare così anche Andrea Lattanzi: i loro personaggi sono giovani che galleggiano in provincia.

È stata una bella sorpresa lavorare con Giacomo, non sapevo fosse così mio vicino di casa. Entrambi viviamo a Roma da tanto tempo, ma torniamo spesso in Abruzzo e il film è stato anche un viaggio insieme per riscoprire le nostre origini. Ha capito appieno il suo personaggio, Toni, un giovane “che galleggia”, come dici tu. Il nostro era uno sguardo solidale, mai giudicante. Anche Andrea, che è romano, ha esperienza con la provincia perché ci ha vissuto i primi anni della sua vita. Poi come attore si porta naturalmente dietro una sorta di disperazione mista a un carattere un po’ più instabile, e il mix artistico con Ferrara si è rivelato vincente.

Invece con Ivan Franek e Agnese Claisse hai creato una relazione padre/figlia complessa da più punti di vista…

Far conoscere Agnese e Ivan è stata una fortunata casualità perché mi hanno confessato che venivano da esperienze simili ai loro personaggi. Lei ha avuto un padre vicino al personaggio di Ivan, e lui un giorno mi ha confidato «io con una delle mie figlie ho un rapporto così». Come ha detto Ivan la sera della premiazione all’Adriatic Film Festival, quando si sono conosciuti in una farmacia facendo un tampone non sapevano di essere reciprocamente gli attori del mio film, ma Ivan pensò subito: “Questa secondo me sarà mia figlia nel film”. Avevano una forte affinità che li ha resi affiatatissimi, mettendo tanto delle loro esperienze reali nel film.

Animali randagi
Agnese Claisse in “Animali randagi”.

Il tema della morte assistita viene solo sfiorato dalla sceneggiatura che avete scritto in tre.

Si, per due motivi. Uno è che non volevo fare un film sociale, ma parlare di una singola storia perché le battaglie politiche possono essere poco efficaci se non si parte da una motivazione personale, esistenziale, e da cui nasce, poi, l’esigenza di avere una legge. Il secondo motivo per cui non sono andata proprio “dritta” sul tema è perché molti film sull’eutanasia parlano di persone con una vita impossibile agli occhi dello spettatore: bloccate sul letto senza nessuna possibilità di salvezza e senza più indipendenza. Io invece volevo un personaggio che prendesse la sua decisione con piena autonomia, in modo da risultare più forte e impattante. Ho voluto raccontare la morte assistita dal punto di vista di un uomo che sa che sta morendo. La paura della morte già appartiene normalmente a tutti noi, figuriamoci quando ti dicono che morirai fra tre mesi. Non possiamo negare il diritto a scegliere una morte non solo più dignitosa, ma più dolce. Non si tratta solo di dignità, ma di umanità.

La tua attenzione a livello drammaturgico è molto concentrata sulle quattro anime in ambulanza…

Infatti questa è soprattutto una storia di relazioni. È qualcosa di cui amavo parlare già nei documentari. In Sembravano applausi c’era la relazione tra Marcello e Matteo Garrone, mentre ne La gente resta si parlava del rapporto tra tre fratelli. Il 98% della nostra vita è fatto di relazioni, incontrarsi, lasciarsi. Qui interagiscono quattro personaggi molto diversi. Il personaggio di Lattanzi è un po’ incosciente all’inizio, Giacomo invece è più puritano, si sente ingannato, si chiede se stiano portando un uomo a morire. Poi c’è la figlia che si chiede cosa fare e dove stare: la decisione cruciale sarà la sua.

Nel tuo cinema a volte ci sono piccole allegorie, contrasti tra quotidiano e momenti pulp come il dito mozzato in Animali randagi mentre gli ambulanzieri bevono il caffè. O nel tuo corto Tutte le cose sono piene di lei, dove la faraona servita a tavola viene prima catturata e uccisa. Tutto quasi senza filtro, ironicamente reale.

Sicuramente ha molto a che fare con la mia infanzia. Sono cresciuta in aperta campagna e il rapporto con la morte era naturale, molto diverso da quello che oggi vedo negli altri da adulta. La prima volta che sono andata a un funerale mia nonna mi ha presa in braccio perché da sola non arrivavo alla bara per salutare il morto. Non c’era niente di tetro, solo una persona che era viva e poi a un certo punto era morta. Fa parte della cultura contadina, ancora fortissima nella provincia. Per questo non ho voluto raccontare una provincia industriale, ma la provincia di campagna, che ha tutto un altro punto di vista sull’esistenza.

Qual è il tuo cinema preferito e quello che vorresti fare?

Il primo cinema a cui penso è quello di Cassavetes, Una moglie è uno dei miei film preferiti: per me un film potrebbe anche non parlare di niente, facendomi vedere solo come i personaggi interagiscono tra loro. Quand’ero ragazzina mi piacevano tanto i film di Malick perché il rapporto dei suoi personaggi con la natura mi ricordava qualcosa del mio mondo. Ci sono molto affezionata anche se non vorrei fare quel tipo di cinema. È difficile da dire “mi voglio ispirare a”, e soprattutto pericoloso perché poi è un attimo dal copiare. Amo Andrea Arnold, tanto cinema crudo, di stomaco. E non amo il cinema intellettuale.

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Troppo azzurro, il nostro Woody Allen millenial https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/troppo-azzurro-la-dolce-tossicita-di-un-woody-allen-millenial/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/troppo-azzurro-la-dolce-tossicita-di-un-woody-allen-millenial/#respond Fri, 10 May 2024 12:48:31 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19136 Da tutto il 2023 a oggi sono uscite alcune opere prime che messe insieme iniziano a comporre un significativo mosaico di sogni, paure, speranze e delusioni dei giovani dagli under 20 fino a quelli più in prossimità dei 30, gli Z e i millenials. Se con Una sterminata domenica di Alain Parroni «credere in qualcosa […]

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Da tutto il 2023 a oggi sono uscite alcune opere prime che messe insieme iniziano a comporre un significativo mosaico di sogni, paure, speranze e delusioni dei giovani dagli under 20 fino a quelli più in prossimità dei 30, gli Z e i millenials. Se con Una sterminata domenica di Alain Parroni «credere in qualcosa è impegnativo» per un trio di ventenni intorno a graffiti e a una gravidanza, con Non credo in niente di Alessandro Marzullo il manifesto sulla disillusione potrebbe ritenersi compiuto fin dal titolo. Ma se con la tossica relazione di non-amore del suo Patagonia Simone Bozzelli ci ha infilati in un dramma dirompente quanto rassegnato nel suo finale, Pilar Fogliati e le sue quattro ragazze Romantiche ci hanno portati in una dimensione umoristica più leggera e spensierata dove le eroine hanno un atteggiamento tutto sommato costruttivo. Si potrebbero citare pure i road movie Noi anni luce di Tiziano Russo e Io e il secco di Gianluca Santoni, o i visionari Space Monkeys di Aldo Iuliano e Amanda di Carolina Cavalli, che però sono del 2022. La tessera più recente di questo mosaico del più nuovo cinema italiano è Troppo azzurro di Filippo Barbagallo.

Il venticinquenne Dario vive ancora accudito dai suoi genitori, circondato dagli amici ex-liceali di sempre e dietro al sogno di una ragazza “impossibile”. In un’estate romana di casa vuota e genitori in vacanza ne conoscerà un’altra di ragazza, e da lì si accavalleranno amori e occasioni. La confezione colorata, pop e stilisticamente ineccepibile rende questo primo lavoro di Barbagallo piacevole come una bibita fresca con retrogusto un po’ amaro. Storia umoristica di un ragazzo romano del centro, delle sue insicurezze esistenziali e delle sue molteplici scuse per tirarsi indietro, allungare la coperta del proprio quartiere bene per scacciare quell’ansietta, per riuscire a respirare in una sempiterna comfort zone, anche al costo di soffocare chi da fuori l’alimenta e chi lo vorrebbe accogliere nel proprio mondo.

Barbagallo nasce come sceneggiatore fresco di Centro Sperimentale di Cinematografia, un paio di film come assistente alla regia, Tito e gli alieni di Paola Randi e Ride di Valerio Mastandrea. Seppur figlio d’arte, il padre è il produttore Angelo Barbagallo, estraneo però a questo progetto, il giovane regista, e per la prima volta anche attore, mette su un piccolo pamphlet di nevrosi metropolitane giovanili.

Il suo Dario, con la sua dolce tossicità sembra a volte un piccolo Woody Allen millenial, la sua New York è Roma, e il suo Gershwin Pop X, che ha composto le musiche. Un’elettronica pop con suoni saltellanti da videogame alternati a momenti più contemplativi. Visivamente il regista forse smarmella un po’ rendendosi patinato, magari per ammiccare al pubblico giovane, ma in realtà quella solarità è proprio il lievito madre del suo sguardo. Poi ti splitta sullo schermo varie istantanee di corpi avvinghiati e discorsi teneri in un letto dopo un amplesso, o stringe il formato come Dolan in Mommy, adattando però il nostro schermo alla forma verticale di uno smartphone per la soggettiva di una chat. E non manca di alternare scenari di periferia alla contemplazione di ruderi o isole tirreniche. Tutto molto gratificante al nostro sguardo, certo, ma sotto sotto il disagio di una generazione dove i maschietti passano spesso per tontoloni e le ragazze ambiscono a svegliarli è un fil rouge.

Se non il papà, Barbagallo ha avuto un braccio destro d’eccezione, Gianni Di Gregorio, come supervisore artistico che lo ha plasmato in attore. Insomma, un po’ come Sergio Leone per il novello regista Carlo Verdone, o come Giovanni Veronesi per l’esordio di Pilar Fogliati dietro la macchina da presa. Sceglie un cast autoironico e funzionale alla sua scrittura, Barbagallo. Il padre appiccicoso lo interpreta proprio Mastandrea, le due contendenti di Dario hanno i visi e gli stupori di Martina Gatti e Alice Benvenuti, mentre l’inseparabile amico grillo parlante è Brando Pacitto. Questa scacchiera per «raccontare le sensazioni speciali che durano un attimo», ha dichiarato il regista. Ma se da una parte un’adolescenza prolungata si fa comodo rifugio dall’ansia verso «futuri che non si sono mai avverati», dall’altro ogni occasione si fa metafora del trampolino, quel buttarsi nella vita che prima o poi tutti dovranno affrontare. Come quelli citati all’inizio è un nuovo autore Barbagallo, ha da dire cose piuttosto interessanti in forma e sostanza, e per questo andrebbe tenuto d’occhio da chi si chiede dove stia andando il nuovo cinema italiano.

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Castelrotto, un film antico e nuovo stranamente affascinante https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/castelrotto-un-film-antico-e-nuovo-stranamente-affascinante/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/castelrotto-un-film-antico-e-nuovo-stranamente-affascinante/#respond Sun, 28 Apr 2024 13:30:49 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19100 Prima presentato al Torino Film Festival 2023, poi finalista dei Fabrique du Cinéma Awards tra i candidati per la Miglior Opera Prima Italiana, infine al centro di un giro d’Italia auto-organizzato, Castelrotto, il primo lungometraggio del poco più che quarantenne Damiano Giacomelli, è allo stesso tempo un raro esempio di indipendenza radicale e un pezzo […]

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Prima presentato al Torino Film Festival 2023, poi finalista dei Fabrique du Cinéma Awards tra i candidati per la Miglior Opera Prima Italiana, infine al centro di un giro d’Italia auto-organizzato, Castelrotto, il primo lungometraggio del poco più che quarantenne Damiano Giacomelli, è allo stesso tempo un raro esempio di indipendenza radicale e un pezzo di cinema italiano falsamente regionalistico, autenticamente diverso da tutto il resto. Un oggetto antico e nuovo stranamente affascinante.

Il suo autore totale – che ha scritto, diretto prodotto e distribuito – ha il physique du rôle e la storia dell’uomo di cinema d’altri tempi, un outsider caparbiamente e consapevolmente fiorito fuori dai soliti giri. Durante gli anni all’Università di Urbino Giacomelli scopre casualmente l’opzione cinematografica con l’incontro fatale con la sala di montaggio; così inizia la passione per il ritmo musicale delle immagini. Nel successivo periodo di studio e specializzazione a Roma scopre, coi primi lavori su commissione, il laboratorio della scrittura.

Riprende l’attività didattica con giovani e giovanissimi, dentro e fuori le scuole; da qui nasce Officine Mattoli, un laboratorio aperto che diventa fucina di nuovi artigiani cinematografici. Intorno si va raccogliendo intanto una piccola folla di talenti che si stabilizzeranno presto in gruppo di lavoro. In parallelo ricomincia l’attività di produzione cinematografica – che presto troverà la sua forma ufficiale sotto le insegne di Yuk! film – nella quale quel gruppo diventa protagonista. Così, nel giro di pochi anni, arrivano due corti – La strada vecchia e Spera Teresa – e un lungometraggio documentario – Noci sonanti – che tutti insieme costituiscono un po’ la massa critica necessaria per l’arrivo al primo lungometraggio a soggetto. Nei tre film si ritrovano anticipazioni, ricorrenze, contesti e registri che torneranno, sublimati e combinati, in Castelrotto: alcuni luoghi della provincia pulviscolare come dimensione esistenziale, il comico, il malinconico, il grottesco, il gergale e il dialettale usati come musica concreta, il plurale e il singolare come luoghi della vita di paese.

Castelrotto Tantucci
Denise Tantucci, nel cast di “Castelrotto”.

Il progetto di Castelrotto nasce a questo punto dall’intreccio e dalla sovrapposizione di due spinte: da una parte quella che muove Damiano Giacomelli verso nuove e più alte sfide in direzione di una maturazione e di una crescita, dall’altra la necessità di un’idea per trovare una forma cinematograficamente estrinseca. Dalla frequentazione assidua della cronaca locale, dalla rimasticazione delle dinamiche e delle forze che tendono l’ordito dei piccoli centri tra Fermo, Macerata, Tolentino, dalla versione del mondo, alternativa e differente, che da questi territori è prodotta, nasce un’idea che si manifesta – dice Giacomelli – prima di tutto come voce: Ottone, il protagonista del suo esordio, inizia a esistere nella testa del suo autore come voce ancora senza volto e senza corpo.

Alla fine del 2019 la voce è maturata in idea e l’idea in progetto: il film a venire ha già una sua forma produttivamente concreta e il suo protagonista, la sua voce portante, ha trovato un corpo, quello di Giorgio Colangeli. Un po’ per scelta e un po’ per necessità la macchina della produzione si mette in moto seguendo la via dell’indipendenza e intraprendendo l’avventura di fare un film senza la garanzia di accordi o alleanze.

Le riprese si svolgono durante l’ultima recrudescenza della pandemia di Covid,, concentrandosi soprattutto nel piccolo borgo di Ponzano di Fermo. Nonostante le difficoltà pratiche quotidiane, nonostante una sosta obbligata causa contagio, il film si presenta presto alla fase della post-produzione. «Mentre lo scrivevo ascoltavo sempre della musica»: tra le sue tante esperienze di agitatore culturale Giacomelli è anche direttore artistico del festival culturale Borgofuturo. Qui conosce Peppe Leone, autorevole musicista percussionista senza alcuna pregressa esperienza nella composizione per il cinema. A lui affida la costruzione di una colonna sonora anti-melodica e per niente nostalgica che contribuisce significativamente all’invenzione dell’anima frammentaria e sincopata di Castelrotto. Un contrappunto antinaturalistico e asincrono che spinge lo spettatore lontano da ogni possibile apparentamento con l’apologetica strapaesana.

Quel che arriva a Torino è un film di difficile definizione, né comico né tragico, che gioca con alcune forme dei generi cinematografici – il giallo e il crime movie su tutti, ma in una convincente simbiosi con altre citazioni frammentarie tra le quali forse perfino il western – senza mai lasciarsi irrigidire nel cimento; che evoca immaginari inconsueti pur parlando in modo concreto e rigoroso del tempo presente; che inizia sorvolando un orizzonte apparentemente surreale – né tondo né quadro, assai lontano dalle forme di visione e di racconto del cinema italiano contemporaneo – e che finisce atterrando in un altrettanto enigmatico panorama astratto, procedendo in realtà per tutto il tempo, secondo una coerenza perfetta, lungo una traiettoria che attraversa i corpi e le cose.

La voce che dà l’avvio al film è quella di Ottone, maestro in pensione che dalla finestra di casa sua domina la piazzetta del borgo di Castelrotto, dove una mattina non vede arrivare il camioncino del solito venditore ambulante ma quello dei “calabresi”, un padre e due figli arrivati nelle Marche per la ricostruzione del terremoto degli anni Novanta e poi rimasti in cerca di una vita migliore; da Ottone odiati e contrastati ciecamente per la convinzione, mai dimostrata, che abbiano indirettamente causato la morte della nipote.

Ottone – che inizia distinguendo tra storie e storielle, tra racconti che funzionano e racconti che non funzionano – è un narratore anacronistico e spaesato, giornalista amatoriale, e all’inizio del film si rimette alla sua vecchia macchina da scrivere per tentare di trovare un ordine nei misteriosi fatti intorno alla scomparsa del vecchio ambulante. Nella traiettoria che lo conduce attraverso una riconciliazione con il suo paese e con sé stesso, Ottone incontra la rabbia e l’odio […]

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Gloria! Quando una cantautrice prende la macchina da presa https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/gloria-quando-una-cantautrice-prende-la-macchina-da-presa/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/gloria-quando-una-cantautrice-prende-la-macchina-da-presa/#respond Mon, 15 Apr 2024 16:51:29 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19048 Il titolo sembra già di per sé una scommessa. Da una parte inteso come preghiera rivolta al cielo, come i canti che da secoli animano le messe cristiane. Ma anche una sorta di richiamo coercitivo a un’ipotetica ragazza che disobbedisce. Gloria! è l’opera prima di Margherita Vicario, già in concorso alla Berlinale. Già, con tanto […]

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Il titolo sembra già di per sé una scommessa. Da una parte inteso come preghiera rivolta al cielo, come i canti che da secoli animano le messe cristiane. Ma anche una sorta di richiamo coercitivo a un’ipotetica ragazza che disobbedisce. Gloria! è l’opera prima di Margherita Vicario, già in concorso alla Berlinale. Già, con tanto di punto esclamativo. Partita come attrice diplomata all’Accademia d’Arte Drammatica, una filmografia d’attrice di 8 lunghi, 4 corti e 12 partecipazioni in serie tv, nonché cantautrice di indie-pop con Universal, un album, due EP e diversi tour all’attivo, più 190 mila followers su Instagram, la Vicario punta alto per essere un’esordiente. Scrive e dirige una storia corale dove s’incrociano diversi piani narrativi, molte minuziose ricostruzioni sceniche e costumistiche del 1800 veneziano, ma ci parla soprattutto di musica e giovani artiste schiudendoci le porte su alcuni aspetti di un’epoca mai considerati dal mainstream.

Il connubio tra ragazze nobili e orfane, strano ma storicamente vero, aveva la possibilità di studiare musica negli Ospedali, ovvero strutture che le ospitavano finché non avessero preso marito, ma al tempo stesso ne soffocava ogni slancio creativo in un’atmosfera dove le donne erano semplicemente al servizio degli uomini. La regista parte dall’Ospedale della Pietà al tempo di Pio VII, il Papa che per alcuni mesi soggiornò in Veneto visitando alcune congregazioni, e ci mescola la vicenda fittizia di Teresa, cenerentola muta ma con un talento speciale e segreto: la composizione musicale. Insieme a un gruppo di ragazze violiniste si riunirà intorno a un pianoforte, un po’ come una Setta dei Poeti Estinti in stile Attimo fuggente, durante notti insonni e piene d’invenzioni musicali. Nasce da qui una magia di note che pervade di vitalità tutto il pastiche. Citazioni pittoriche e atmosfere che ricordano magicamente Music, il musical di Sia, e Into The Woods, quello Disney di Rob Marshall offrono un’impronta estetica più rivoluzionaria delle scarpe da ginnastica in Marie Antoniette della Coppola.

La Vicario orchestra febbrili sfide al piano che ricordano quella della Leggenda del pianista sull’oceano, con audace leggerezza plana dalla musica barocca al pop, passando per ritmi jazz e gospel. Se a metà novecento il rock’n’roll di Elvis faceva veniva bollato come “musica del diavolo”, immaginate cosa avrebbe mai potuto provare persone ottocentesche ad ascoltare jazz e pop dei giorni nostri. Praticamente più che un film in costume diventa una felice ucronia, dove cioè l’autrice stravolge il passato portando sonorità impensabili nel primissimo ottocento.

Si avvale di un cast assortito, dalle protagoniste Galatéa Bellugi e Carlotta Gamba, ai fanatici villain Paolo Rossi, nel ruolo del dispotico maestro di musica, e Natalino Balasso, retrogrado governatore, fino agli outsider Elio, che interpreta un affettuoso liutaio, e Vincenzo Crea, giovane dalla vita difficile per le proprie scelte sessuali.

Sottotemi sono tra gli altri la maternità negata, la forza della solidarietà femminile e il potere ecclesiale maschiocentrico. Questo racconto rivoluzionario e complesso per un’opera prima porta alcune piccole farraginosità per i più attenti, ma la Vicario dimostra di saper gestire il set come fosse quasi un musical da palcoscenico, e il cuore che ne traspare con chiarezza ha le carte per conquistare emotivamente alla visione. Infatti questa storia appassionante e originalissima, in forma e sostanza, al suo 5° giorno di sala si è piazzata quinta al box office. In più, dato interessante per addetti ai lavori e spettatori attenti a temi ambientali, questa di Tempesta è una produzione avvenuta in EcoMuvi, cioè il disciplinare europeo di sostenibilità ambientale certificato per una produzione cinematografica a basso impatto.

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Michele Riondino: “Palazzina Laf e la mia Taranto degli anni ’90” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/michele-riondino-palazzina-laf-e-la-mia-taranto-degli-anni-90/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/michele-riondino-palazzina-laf-e-la-mia-taranto-degli-anni-90/#respond Wed, 25 Oct 2023 13:18:03 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18770  Esordisce dietro la macchina da presa dopo 20 anni di carriera d’attore Michele Riondino. Con Palazzina Laf emerge tutto il suo impegno civile per il territorio della sua Taranto raccontandoci una storia poco nota su un vero caso di mobbing ante-litteram anni ’90, dove lavoratori specializzati dell’Ilva venivano confinati in un reparto fantasma, un limbo […]

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 Esordisce dietro la macchina da presa dopo 20 anni di carriera d’attore Michele Riondino. Con Palazzina Laf emerge tutto il suo impegno civile per il territorio della sua Taranto raccontandoci una storia poco nota su un vero caso di mobbing ante-litteram anni ’90, dove lavoratori specializzati dell’Ilva venivano confinati in un reparto fantasma, un limbo tra demansionamento e licenziamento, e su un operaio “promosso” con la mansione di spiare lì i suoi colleghi. In sala dal 30 novembre il film è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma, dove il regista ha condiviso con noi alcuni retroscena sul film.

Quest’anno hai compiuto vent’anni di carriera. Quella della regia era una tua vecchia idea o l’hai messa a fuoco col tempo?

Non avevo mai realmente pensato d’imboccare questa strada. Però è anche vero che in questi vent’anni sono poche le volte che mi sono ritrovato sul set e a viverlo soltanto da attore. Grammatica, fotografia e geometrie cinematografiche le ho sempre trovate stimolanti. Come mettermi al fianco dei professionisti che ho incontrato: operatori, macchinisti, DOP e tutti i tecnici che il cinema lo fanno con le proprie mani.

Sia per la vitalità del tema che per lo stile, Palazzina Laf mi fa pensare a Ken Loach e a Lina Wertmuller. A quali cineasti ti sei ispirato?

La mia passione è per il cinema degli anni ’70, quello più attivista. Sono legato ai film di Pietro Germi, Elio Petri, Mario Monicelli, Lina Wertmuller e tutto quel cinema che ci ha raccontato le storie di uomini e di lavoratori, me lo porto dietro anche da attore. In generale i miei titoli-guida sono La classe operaia, Todo modo, A ciascuno il suo, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Ma per questo film in specifico i miei riferimenti sono stati tre: I compagni di Mario Monicelli, La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri e Fantozzi di Luciano Salce.

A proposito di compagni, Elio Germano, Vanessa Scalera e Paolo Pierobon sono stati i tuoi compagni di viaggio. Come vi siete scelti?

La mia esigenza era quella di creare una compagnia d’attori teatrali: ho girato in cinque settimane, ma ne serviva almeno una di prove per lavorare con gli attori nel luogo della palazzina. Volevo avere la possibilità di creare un’unione di gruppo, sia perché era la mia prima esperienza da regista sia perché il teatro è il mio habitat naturale. Con Elio il primo approccio è stato quello verso un amico, un collega, un compagno che condivide con me idee e opinioni. Gli ho fatto semplicemente leggere la sceneggiatura, come a Daniele Vicari. Volevo sapere cosa ne pensassero. Con Elio non abbiamo mai parlato del suo personaggio, ma mi ha dato subito la sua disponibilità perché voleva far parte del film, la definizione del ruolo è venuta dopo. Per quanto riguarda invece Vanessa Scalera, il suo ruolo è stato scritto pensando proprio a lei: non era scontato partecipasse ma ha accettato subito, un vero regalo. Lo stesso con Paolo Pierobon. Alla nostra prima telefonata mi fa: “Ecco, mi vuoi far fare la parte del cattivo del nord, eh?”. E in effetti era così.

Le musiche del tuo film sono firmate da Theo Teardo e da Diodato con un pezzo originale. Hai dato loro particolari indicazioni sulle atmosfere sonore di cui avevi bisogno?

Theo si è occupato della colonna sonora, ma i due brani editi inseriti sono di Bloodhound Gang e Andrea Laszlo. Invece La mia terra di Diodato è una canzone originale. Di questo corredo musicale fanno parte anche tre marce funebri bandistiche che rappresentano la tradizione tarantina nelle processioni della Settimana Santa. La reference che avevo dato a Theo è Fantozzi: mi servivano musiche che potessero esasperare i paradossi ed evidenziare il grottesco della vicenda.

«Ma voi vi chiedete mai perché vicino alla più grande acciaieria d’Europa non ci sta manco una fabbrica di forchette? Mi sa che la ricchezza va tutta da un’altra parte. A noi ci resta solo la monnezza». La frase di uno dei personaggi sintetizza lo sfruttamento economico, l’impoverimento di un territorio e l’inquinamento selvaggio.

È la più importante del film, secondo me, e riassume esattamente il mio pensiero sulla questione tarantina. Il film racconta fatti successi tra l’97 e il ’98 ma ci sono diversi indizi che portano gli spettatori ai giorni nostri perché la Palazzina Laf è solo uno dei problemi relativi a Taranto. Il mio pensiero è quello di chi oggi combatte per far emergere la verità territoriale, la nostra verità che oggi non è ancora rappresentata e raccontata come si deve.

Da attore hai lavorato con registi come Martone, Vicari, Bellocchio, Risi, e Capitani. Poi dirigi Palazzina Laf. E fuori dai set sei impegnato con il Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti. Quanto è importante produrre cinema civile oggi?

Faccio parte dell’attivismo tarantino, organizzo il Primo Maggio e partecipo alle manifestazioni perché sono un cittadino che vota ed esprime il proprio parere. Ci ho messo sette anni a fare un film su Taranto per raccontare al meglio una storia che potesse rappresentare un punto di vista oggettivo, politico, ideologico se vogliamo, ma fondamentale per capire la questione tarantina per la quale mi sto spendendo da tanto tempo. Diciamo che sono un diesel che ha bisogno di tempo per avviarsi.

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Non credo in niente, la selvaggia opera prima di Alessandro Marzullo https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/non-credo-in-niente-la-selvaggia-opera-prima-di-alessandro-marzullo/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/non-credo-in-niente-la-selvaggia-opera-prima-di-alessandro-marzullo/#respond Mon, 25 Sep 2023 12:44:31 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18730 Inizia con una citazione di Zygmunt Bauman Non credo in niente. È stato girato, ma anche scritto e prodotto nel giro di soli 8 mesi, che hanno visto sparpagliate al loro interno anche le 13 notti di set effettive. Il film di Alessandro Marzullo risulta anche da una sorta di assemblaggio espanso di due suoi […]

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Inizia con una citazione di Zygmunt Bauman Non credo in niente. È stato girato, ma anche scritto e prodotto nel giro di soli 8 mesi, che hanno visto sparpagliate al loro interno anche le 13 notti di set effettive. Il film di Alessandro Marzullo risulta anche da una sorta di assemblaggio espanso di due suoi cortometraggi precedenti, Quando il cielo è scuro e la sua Parte II. Ai protagonisti principali dei corti, Giuseppe Cristiano, Demetra Bellina, Mario Russo, Renata Malinconico e Jun Ichikawa si sono aggiunti Gabriel Montesi e Antonio Orlando per dar vita a uno degli esordi più graffianti e stralunati di questo giovane decennio, in sala dal 28 settembre.

L’opera prima di Marzullo mostra un impatto estetico quasi selvaggio, fatto di pellicola tirata e luce sporca. Scatta un’istantanea smaliziata su una serie di quasi trentenni che attraversano la notte romana. Una notte che sembra infinita perché composta da molte notti temporalmente sconnesse nel montaggio come in un videoclip. Una città deserta illuminata da colori acidi affétta questa coralità di personaggi con in comune solo un imminente cambio di programma nelle loro vite già abbastanza scombussolate di millenials. Il regista ci fa guardare alla sua generazione attraverso un puzzle di anime ampiamente rappresentative. Così al ricatto sguaiato del lavoro nero per una coppia di musicisti lavapiatti si affianca la noia solitaria di una hostess taciturna ma piena di altri talenti e parcheggiata in un hotel. Entriamo poi nelle confidenze sentimentali di un meccanico logorroico all’amico attorucolo che flirta tra letti e amplessi distribuiti come sigarette offerte.

Tutti loro prima o poi passeranno da un paninaro notturno caput Romae che dispensa massime metropolitane come ingredienti di panini improbabili. A Roma le paninoteche notturne su camper e tutti i loro addetti vengono chiamati “zozzoni”. Quasi fosse un concetto filosofico al neon, e addirittura superiore alla distinzione tra luoghi e persone.  Le filosofie farneticanti di uno “zozzone” di periferia fanno da fil rouge per le varie storie e i sogni che ognuna disvelerà. Ecco, i sogni stanno appesi al cavo di un microfono, o in un viaggio mai fatto, o tra le speranze riposte in un provino, ma a prescindere vanno a sbattere sull’accogliente furgone di quel paninaro notturno, e scendono giù insieme a una birra.

Con i suoi riferimenti a «Rossellini, Cassavetes e Kar Wai», Non credo in niente è imbevuto di uno stile sincopato, un po’ sconclusionato come la vita romana, e la narrazione non lineare gli dona il fascino notturno e sbandato dei sentimenti che percorre ognuno dei ragazzi, anzi, degli uomini e delle donne in ballo in questa città ingrata. Una Roma che se una volta faceva andare via Remo Remotti, oggi, nel 2023 i suoi giovani se li tiene stretti al seno freddo di asfalto in un’illusione fin troppo lucida e reiterata.

«Ci innamoriamo perché prendiamo le droghe sbagliate», dirà uno dei personaggi. La disillusione la leggiamo già chiaramente nel titolo, Non credo in niente è un piccolo manifesto di una generazione confusa tra speranza e rassegnazione. Una girandola di strade buie percorse da mille contraddizioni che il regista rappresenta efficacemente come nel caso di un freddo bacio a stampo per dirsi addio sovrapposto a immagini di lava che scorre lenta e ineluttabile.

Il cast è trasognato, pulsante, cool, pieno di vitalità e il soundtrack di Riccardo Amorese segna il pastiche ben oltre il semplice commento musicale. Allora la musica di un violino suonato in cucina e una canzone cantata in un locale possono diventare avamposti sul territorio lontano dei sogni in una metropoli che preme e luccica come pinze di acciaio rugginoso. E se il vero problema di questa generazione fosse soltanto ritrovare il sorriso nelle cose semplici? 

 

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Come pecore in mezzo ai lupi: anche in Italia l’action è donna https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/come-pecore-in-mezzo-ai-lupi-anche-in-italia-laction-e-donna/ Fri, 28 Jul 2023 10:11:10 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18631 Finalmente un’italiana con il bel vizio del cinema action: nel suo esordio Come pecore in mezzo ai lupi (in sala in questi giorni) Lyda Patitucci ha fatto studiare il serbo a Isabella Ragonese, poliziotta infiltrata in una pericolosa banda di slavi per sventare un grosso colpo. Caso tragico, come partner in crime si ritroverà il […]

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Finalmente un’italiana con il bel vizio del cinema action: nel suo esordio Come pecore in mezzo ai lupi (in sala in questi giorni) Lyda Patitucci ha fatto studiare il serbo a Isabella Ragonese, poliziotta infiltrata in una pericolosa banda di slavi per sventare un grosso colpo.

Caso tragico, come partner in crime si ritroverà il fratello squattrinato, e solo fingere di non conoscersi potrà salvarli. Lui è Andrea Arcangeli, che per la regista ferrarese è dimagrito dopo Romulus come un piccolo Christian Bale. E tra loro una talentuosa attrice bambina. Mentre Tommaso Ragno impersona il loro padre sfuggente e fanatico religioso.

«Non tutto nella vita va esplicitato e formalizzato» per Lyda, poiché i suoi personaggi si presentano asciugati in un passato stilizzato. Il suo obiettivo è farci precipitare nel «senso del pericolo, della minaccia costante. Nessuno è mai al sicuro». Vera, il personaggio di Ragonese, fugge dalle relazioni, dal fratello in primis e usa la chiusura per rompere i rapporti. «Vera risulta sempre nascosta e compressa. Cerco di usare elementi esterni a lei per raccontarla. Suoni, riflessi della sua personalità in altri personaggi specchio». Così ha girato un crime oscuro, pieno di proiettili, pugni, inseguimenti e doppiogiochisti.

In Veloce come il vento, Smetto quando voglio – Masterclass, Il primo re, Il campione eri la seconda unità alla regia. Come cambia il lavoro quando diventi tu la regista?

Tra seconda unità e la mia regia c’è un cuscinetto di transizione di due serie tv che ho diretto, Curon e Vostro Onore. Ma la seconda unità è molto tecnica poiché ti allinea alla visione dei registi. Girando in contemporanea con stunt, effetti e scene complesse. La differenza vera è che si lavora meno con gli attori. Assorbe una quantità di tempo e risorse davvero enorme nella preparazione, sul set e in postproduzione. Con Matteo Rovere in Veloce come il vento ho eseguito tutta la parte delle corse in auto: mentre Matteo girava tutto il resto io giravo le ricostruite nel circuito. Nel Primo re invece ho pianificato e orchestrato le battaglie. Matteo seguiva Remo e io il resto. Poi in Smetto quando voglio abbiamo lavorato molto sull’assalto al treno, sugli inseguimenti e gli incidenti. Lì ho fatto un lavoro molto preciso di pre-visualizzazione: mentre Sydney Sibilia sviluppava la commedia con gli attori, io gestivo gli stunt. Nel Campione c’era invece tutto un altro lavoro: il regista Leonardo De Agostini aveva fatto tutta la programmazione delle scene di calcio, mentre io ho seguito allenamenti e partite. Nel mio lavoro mi sono ritrovata a gestire piloti e stuntman, quindi per me tecnicamente non c’è differenza nel coreografare una battaglia o una partita di calcio. Unisco sul set le competenze sul cinema con quelle sulla materia, perché la seconda unità dev’essere malleabile in funzione al lavoro del regista. Sia su film che su serie, le buone collaborazioni tra registi sono molto virtuose e vantaggiose. In Curon ad esempio ho diretto gli ultimi tre episodi e Fabio Mollo i primi quattro. Lui è molto più intimista e lavora sulla recitazione e gli attori, io giravo tanto in acqua e in montagna.

Come pecore in mezzo ai lupi
Andrea Arcangeli e Carolina Michelangeli.

L’intreccio di action e drammaturgia per te è una delle cose più importanti.

Sono i film che mi piace vedere. Mi piace che succedano le cose, che la gente si muova, lotti. Amo mettere in condizioni estreme i miei personaggi per tirarne fuori aspetti interessanti. Sono storie che non mi appartengono, perciò m’incuriosiscono di più.

Come pecore ci sussurra che l’emotività di una donna forse è un difetto nel mondo dei maschi.

Questa è la chiave di Vera, la protagonista. Il suo punto di vista. Ma nella realtà l’emotività non è mai un difetto. Al contrario, il più aperto alle emozioni è Bruno, il fratello. E in questo è lui a dare la lezione più positiva, che nell’incontro con l’altro ci può essere una speranza.

Sei stata definita una Kathryn Bigelow italiana, ma quali sono le registe e i registi che segui di più?

È molto difficile rispondere perché la quantità di registi che amo è infinita. Sulla parte femminile oltre la Bigelow, che è stata l’unico modello per generazioni di donne che volevano fare questo lavoro e non ci sono riuscite, c’è Jane Campion, ma quando ero piccola impazzivo per il fatto che Pet Sematary – Cimitero vivente, fosse diretto da una donna. Quello della regia è un percorso molto particolare, difficile e poco incasellabile dove tutto ti dice “fai qualcos’altro”, quindi se ti distrai un attimo, anche per vivere semplicemente, smetti di seguirlo questo mestiere. Secondo me è così che molte donne non sono diventate registe. Purtroppo siamo in un mondo maschio-centrico. Per fortuna che ultimamente son venute fuori anche registe ascrivibili a modi di fare cinema più estremi, come Julia Ducournau, che è molto vicina a Cronenberg.

Nel tuo cast hai una piccola attrice, Carolina Michelangeli. Il suo personaggio, senza spoilerare, affronta dei traumi emotivi fortissimi. Come avete lavorato con lei?

Abbiamo fatto un cast molto lungo partendo da un bacino di centinaia di persone. Carolina aveva esperienza sul set per un film di Laura Bispuri, ma Andrea Arcangeli, che doveva fare suo padre, è stato molto disponibile affiancandomi nei provini per verificare l’intesa tra bambina e adulto. Pensa che sul set aveva 8 anni e mezzo, come Marta. Carolina ha perfetta consapevolezza della finzione cinematografica, è stata molto rigorosa nel calarsi giocando col suo ruolo anche perché è abituata alla disciplina dalla ginnastica artistica. Ha un tratto caratteriale simile al suo personaggio, ma al contrario di Marta la sua famiglia la segue senza mai forzarla. Cosa importantissima per i bambini attori. È piccina e in parte fragile, ma è anche molto tosta. Nei suoi piani d’ascolto, ad esempio, ha la capacità di far capire allo spettatore la scena come solo i bravi interpreti sanno fare.

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