Uno stacanovista e un perfezionista, Damiano Damiani, in ogni suo film dimostra una cura certosina della recitazione dei suoi attori e una profonda analisi della psicologia dei personaggi. Il suo cinema da artistico si fa civile e denuncia la violenza, le ingiustizie e l’uso del potere a scopi personali.
Damiano Damiani è noto al grande pubblico per la trilogia psicologica Il rossetto, Il sicario e L’isola di Arturo (tratto dall’omonimo romanzo di Elsa Morante), ma ha girato anche spaghetti western come Quién sabe? (1967) e Un genio, due compari, un pollo (1975). Soprattutto, è uno dei più grandi esponenti dei filoni del giallo all’italiana e di quello d’impegno politico-civile, con la pellicola Il giorno della civetta (1968), tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia. Mentre per la televisione ha diretto due celebri sceneggiati: La piovra (1984), serie sulla mafia per eccellenza, e Il treno di Lenin (1990).
In realtà Damiani esordisce con un documentario La banda d’Affori (1947) si dedica alla sceneggiatura e ci mette ben quindici anni per tornare dietro la macchina da presa. A trentanove, gira Il rossetto (1961), una storia ispirata a un fatto vero di cronaca: una donna assiste all’omicidio di una prostituta e si innamora dell’assassino, che la sfrutta per sfuggire alla giustizia.
In un quartiere imborghesito della periferia romana, l’ingenua tredicenne Silvana (Laura Vivaldi), si innamora del vicino di casa trentenne, Gino (Pierre Brice). La ragazzina l’ha visto uscire dall’appartamento di una prostituta che è stata trovata uccisa, Silvana non lo rivela alla polizia – che arresta un garzone innocente – e sfrutta la cosa per avvicinarsi a Gino. L’uomo sta al gioco per tenerla buona, anche se è fidanzato con una ragazza ricca, che frequenta solo per interesse. Il commissario Fioresi (Pietro Germi), dopo qualche difficoltà, riesce a comprendere le dinamiche malsane che sono venute a crearsi e ad arrestare il colpevole.
La prima inquadratura è un iconico movimento di macchina all’indietro, dalla tv accesa al volto insanguinato della prostituta assassinata, i titoli di testa scorrono sulle foto di cronaca nera. Rosso è il sangue sulle mani di un assassino e rosso è il rossetto che macchia la reputazione di una tredicenne, nei perbenisti anni ’60. La credibilità di Silvana è messa in dubbio per un tocco di colore sulle labbra e tanto bastava per dubitare della parola di una tredicenne e a far mettere in dubbio tutto, il carnefice diventa vittima e le indagini quasi saltano all’aria, ma l’ispettore Fioresi capisce presto di star cadendo in un pregiudizio.
È quindi evidente che Damiani scelse quel caso proprio per mettere a nudo i piccoli grandi drammi umani della periferia, fatta di giovani arrivisti, giornalisti senza scrupoli, dei pregiudizi della gente e di donne fatte a pezzi.
Il rossetto è un finto-giallo, il colpevole è abbastanza prevedibile, ma la pellicola fornisce uno spaccato dell’Italia dell’epoca, ipocrita e perbenista e ne indaga i costumi e la sessualità negli anni ’60, ma soprattutto della sua degenerazione morale. L’opera prima di Damiani, riprende un po’ Un maledetto imbroglio e alcune suggestioni dai noir francesi e americani. Ottima la sceneggiatura asciutta di Zavattini e misurati gli attori, Pierre Brice e Laura Vivaldi, mentre Pietro Germi interpreta il commissario disilluso con quella vena ruvida che fa da specchio umano al disincanto piccolo borghese.
I risvolti ambigui e torbidi della storia non sono mai morbosi, nel cinema di Damiani, il suo stile di regia si mantiene asciutto e sicuro e sono pochissime le incoerenze e le approssimazioni, che non ledono un’opera stratificata e decisamente innovativa per l’epoca.
Pier Paolo Pasolini definì sia l’uomo che il cineasta come «un amaro moralista assetato di vecchia purezza» e così è il cinema del regista friulano: puro, forse polemico, ma autentico. Damiani era un regista capace di declinare la sua passione per la realtà quotidiana a partire da ciò che lo circondava e a incidere profondamente nelle coscienze, ma sempre con ironia e misura, in un raro equilibrio che il cinema moderno sembra aver dimenticato.