Arbëria (pronuncia arbrìa) è una regione senza confini, fatta di piccoli paesi sparsi nel Sud Italia, una terra dell’anima nella quale si identificano le piccole popolazioni albanesi immigrate in Italia, gli arbëresh. La storia è quella di Aida (interpretata da Caterina Misasi), una donna di origine arbëresh che ritorna nel paese natale, un villaggio di montagna ai piedi del Pollino (Calabria), in seguito alla morte del padre. Messa di fronte ai suoi fantasmi e alle radici da cui ha sempre cercato di emanciparsi, imparerà molto su se stessa e su quello che ha provato a lasciarsi alle spalle. Ne abbiamo parlato con la regista, l’esordiente Francesca Oliveri che ha presentato il suo lavoro al Festival internazionale di Cinema Sguardi Altrove, svoltosi a Milano lo scorso giugno.
[questionIcon]Arbëria è il tuo primo lavoro lungo. Ci racconti delle tue esperienze formative e lavorative precedenti?
[answerIcon]Mi sono formata molto presto sui set come aiuto regista a Bologna, dove studiavo e nel frattempo lavoravo. Poi ho fatto uno stage con Daniele Segre e dopo quell’esperienza ho girato un cortometraggio, selezionato al Bellaria Film Festival. Dopo la laurea sono andata in Francia a lavorare e lì ho continuato principalmente come aiuto per documentari e serie televisive. Nella mia formazione di sceneggiatrice, invece, sono stata seguita da Doriana Leondeff e Valia Santella, presso la scuola di Marco Bellocchio.
[questionIcon]Come hai avuto l’idea di realizzare Arbëria?
[answerIcon]Sei anni fa, quando ho assistito per la prima volta a una Vallja, una danza circolare che avviene in occasione dei matrimoni e il lunedì di Pasqua. È un momento in cui le donne di questa comunità possono ritrovarsi per indossare i loro abiti tipici che altrimenti rimarrebbero nei musei e nelle case. Poi ho cominciato a fare una ricerca linguistica. Anche se mia nonna ha sempre parlato la lingua arbëresh, non avevo mai approfondito la sua cultura. E da lì sono andata avanti con le ricerche sui canti e le tradizioni di questa comunità.
[questionIcon]Produttivamente non deve essere stato semplice…
[answerIcon]Mi sono resa conto subito che avevo bisogno di un produttore sul territorio. Ho conosciuto la Open Fields Production di Fabrizio Nucci e Nicola Rovito con cui ho lavorato, inizialmente a distanza ‒ passavamo le giornate a parlare su Skype! Abbiamo deciso di presentare la prima stesura della sceneggiatura al bando Lu.Ca e da lì è partito tutto. Vincere quel bando ci ha permesso di presentarci ai comuni e agli sponsor. Ma si è trattato certamente di un lavoro complesso, anche perché i miei produttori hanno difeso con coraggio l’idea di girare un film in lingua arbëreshë.
[questionIcon]Nel film ci presenti Roma, città in cui vive la protagonista, come un luogo freddo, solitario, tutto all’insegna del bianco. Mentre nel paese natale, dove Aida ritrova se stessa, esplodono i colori, gli odori, il cibo, il canto. Quanto c’è di autobiografico nel percorso che compie la protagonista?
[answerIcon]Sicuramente c’è qualcosa di autobiografico, perché ho scritto questa storia mentre ero in Francia. Parigi non è una città come Roma, però l’idea di partenza era quella di raccontare la storia di una donna sradicata, con una doppia cultura e che vivesse all’estero. Poi, per ragioni produttive, abbiamo voluto girare a Roma e non all’estero. Abbiamo scelto di girare con due macchine: la RED per le parti in paese, per Roma invece abbiamo usato la Black Magic, che oltre al vantaggio di essere una macchina snella, restituiva un look più pubblicitario. Poi, per quanto riguarda la protagonista, mi sono ispirata a persone della mia famiglia, in particolare a una mia zia sarta di origine arbëresh che vive in Canada.
[questionIcon]A un certo punto del film Aida dice: «Ognuno di noi ha più di una casa nel sangue». Quali sono le tue “case” da un punto di vista cinematografico, i tuoi riferimenti?
[answerIcon]Sono una grande amante del cinema di Jane Campion. I ritratti delle sue donne sono unici, psicologicamente raffinati e visivamente potenti. La donna nei suoi film è instabile, ma forte come i paesaggi che lei filma; condivido pienamente questa associazione tra donna e natura e l’idea che siano un corpo unico. Mi piace molto la anche la scuola iraniana, con nomi come Abbas Kiarostami, un linguaggio che combina lo stile del documentario a quello della fiction. In Italia, a parte il maestro Marco Bellocchio, ammiro molto Michelangelo Frammartino e Leonardo di Costanzo.