L’esordio al lungometraggio di finzione è arrivato per Maria Tilli con il road movie non convenzionale Animali randagi, in uscita nelle sale domani. Interpretano due giovani ambulanzieri di provincia Giacomo Ferrara e Andrea Lattanzi, che vivacchiano tra noia e blande avventure. Fino a una trasferta per trasportare verso la Serbia un malato incurabile insieme a sua figlia, Ivan Franek e Agnese Claisse. Scandagliare la vita interiore di quattro personaggi dalle vite randagie è il punto centrale per questa regista abruzzese che ha iniziato a farsi notare tra il documentario Sembravano applausi, su Marcello Fonte e Matteo Garrone, e Illuminata, docufiction su Laura Biagiotti.
Con il cast di Animali randagi vai dall’Abruzzo alla Serbia. Giacomo Ferrara riprende il suo dialetto di origine, fai parlare così anche Andrea Lattanzi: i loro personaggi sono giovani che galleggiano in provincia.
È stata una bella sorpresa lavorare con Giacomo, non sapevo fosse così mio vicino di casa. Entrambi viviamo a Roma da tanto tempo, ma torniamo spesso in Abruzzo e il film è stato anche un viaggio insieme per riscoprire le nostre origini. Ha capito appieno il suo personaggio, Toni, un giovane “che galleggia”, come dici tu. Il nostro era uno sguardo solidale, mai giudicante. Anche Andrea, che è romano, ha esperienza con la provincia perché ci ha vissuto i primi anni della sua vita. Poi come attore si porta naturalmente dietro una sorta di disperazione mista a un carattere un po’ più instabile, e il mix artistico con Ferrara si è rivelato vincente.
Invece con Ivan Franek e Agnese Claisse hai creato una relazione padre/figlia complessa da più punti di vista…
Far conoscere Agnese e Ivan è stata una fortunata casualità perché mi hanno confessato che venivano da esperienze simili ai loro personaggi. Lei ha avuto un padre vicino al personaggio di Ivan, e lui un giorno mi ha confidato «io con una delle mie figlie ho un rapporto così». Come ha detto Ivan la sera della premiazione all’Adriatic Film Festival, quando si sono conosciuti in una farmacia facendo un tampone non sapevano di essere reciprocamente gli attori del mio film, ma Ivan pensò subito: “Questa secondo me sarà mia figlia nel film”. Avevano una forte affinità che li ha resi affiatatissimi, mettendo tanto delle loro esperienze reali nel film.
Il tema della morte assistita viene solo sfiorato dalla sceneggiatura che avete scritto in tre.
Si, per due motivi. Uno è che non volevo fare un film sociale, ma parlare di una singola storia perché le battaglie politiche possono essere poco efficaci se non si parte da una motivazione personale, esistenziale, e da cui nasce, poi, l’esigenza di avere una legge. Il secondo motivo per cui non sono andata proprio “dritta” sul tema è perché molti film sull’eutanasia parlano di persone con una vita impossibile agli occhi dello spettatore: bloccate sul letto senza nessuna possibilità di salvezza e senza più indipendenza. Io invece volevo un personaggio che prendesse la sua decisione con piena autonomia, in modo da risultare più forte e impattante. Ho voluto raccontare la morte assistita dal punto di vista di un uomo che sa che sta morendo. La paura della morte già appartiene normalmente a tutti noi, figuriamoci quando ti dicono che morirai fra tre mesi. Non possiamo negare il diritto a scegliere una morte non solo più dignitosa, ma più dolce. Non si tratta solo di dignità, ma di umanità.
La tua attenzione a livello drammaturgico è molto concentrata sulle quattro anime in ambulanza…
Infatti questa è soprattutto una storia di relazioni. È qualcosa di cui amavo parlare già nei documentari. In Sembravano applausi c’era la relazione tra Marcello e Matteo Garrone, mentre ne La gente resta si parlava del rapporto tra tre fratelli. Il 98% della nostra vita è fatto di relazioni, incontrarsi, lasciarsi. Qui interagiscono quattro personaggi molto diversi. Il personaggio di Lattanzi è un po’ incosciente all’inizio, Giacomo invece è più puritano, si sente ingannato, si chiede se stiano portando un uomo a morire. Poi c’è la figlia che si chiede cosa fare e dove stare: la decisione cruciale sarà la sua.
Nel tuo cinema a volte ci sono piccole allegorie, contrasti tra quotidiano e momenti pulp come il dito mozzato in Animali randagi mentre gli ambulanzieri bevono il caffè. O nel tuo corto Tutte le cose sono piene di lei, dove la faraona servita a tavola viene prima catturata e uccisa. Tutto quasi senza filtro, ironicamente reale.
Sicuramente ha molto a che fare con la mia infanzia. Sono cresciuta in aperta campagna e il rapporto con la morte era naturale, molto diverso da quello che oggi vedo negli altri da adulta. La prima volta che sono andata a un funerale mia nonna mi ha presa in braccio perché da sola non arrivavo alla bara per salutare il morto. Non c’era niente di tetro, solo una persona che era viva e poi a un certo punto era morta. Fa parte della cultura contadina, ancora fortissima nella provincia. Per questo non ho voluto raccontare una provincia industriale, ma la provincia di campagna, che ha tutto un altro punto di vista sull’esistenza.
Qual è il tuo cinema preferito e quello che vorresti fare?
Il primo cinema a cui penso è quello di Cassavetes, Una moglie è uno dei miei film preferiti: per me un film potrebbe anche non parlare di niente, facendomi vedere solo come i personaggi interagiscono tra loro. Quand’ero ragazzina mi piacevano tanto i film di Malick perché il rapporto dei suoi personaggi con la natura mi ricordava qualcosa del mio mondo. Ci sono molto affezionata anche se non vorrei fare quel tipo di cinema. È difficile da dire “mi voglio ispirare a”, e soprattutto pericoloso perché poi è un attimo dal copiare. Amo Andrea Arnold, tanto cinema crudo, di stomaco. E non amo il cinema intellettuale.
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