Nel 2018 Alfonso Cuarón ha vinto con Roma il Leone d’oro per il miglior film alla 75ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e quest’anno è in concorso agli Oscar per il miglior film in lingua straniera. Il regista messicano è uno dei cineasti più talentuosi della sua generazione e con Roma è tornato alle proprie radici per raccontare il Messico della sua infanzia, come aveva già fatto in Y tu mamá también e nella sua opera prima Sólo con tu pareja.
Figlio di una famiglia della classe media con nessuna connessione con l’ambiente artistico e dello spettacolo, a sette anni vede Ladri di biciclette di Vittorio De Sica (in sala dal 4 Febbraio in versione restaurata) e ne resta folgorato: il neorealismo italiano della Roma dei tardi anni Quaranta somiglia al Messico che lo circonda negli anni Settanta, il cinema si fa ponte e valica ogni confine di classe, razza o distanza geografica e permette al giovane Alfonso di riconoscersi profondamente in una storia all’apparenza così distante dalla sua. Per avvicinarsi a quel mondo, a soli dodici anni, inizia a svolgere dei lavoretti per un piccolo studio pubblicitario non troppo lontano da casa e decide di studiare cinema. Durante gli studi conosce molti dei colleghi e amici che lavoreranno con lui ai suoi primi film e inizia così a girare i primi corti, molti dei quali scritti insieme al fratello Carlos.
Tra gli anni ’40 e ’60 il cinema messicano vive un periodo d’oro, ma la middle-class smette di andare al cinema, la gente guarda la tv o i film stranieri, non il cinema messicano. Quando sale al potere il PRI (Partito Rivoluzionario Istituzionale), Alfonso Cuarón studia regia e il futuro che gli si prospetta davanti è quello di autore per spot governativi. È Capodanno quando decide di dire al fratello che dovrebbero scrivere la sceneggiatura di un film, Carlos ha già il titolo: Sólo con tu pareja (Uno per tutte). I colleghi affiliati al regime gli ripetono che a nessuno importa del cinema messicano, tanto meno ai messicani stessi e, quando fare film sembra sempre più un’utopia, per Cuarón diventa un sogno da realizzare, un imperativo.
Il suo obiettivo è dar vita a una commedia alla Blake Edwards o alla Ernst Lubitsch (idolatrato anche da Billy Wilder), ispirandosi alla screwball comedy americana. Il film prende in prestito la figura del Don Giovanni, scegliendo di proposito una narrazione in linea con il background socioculturale di un Paese avvelenato dalla mascolinità tossica, per scardinarne gli stereotipi. Quando i fratelli Cuarón decidono di affrontare attraverso una atipica commedia degli equivoci temi come il suicidio e la malattia, lo fanno soprattutto per scontrarsi contro la credenza che l’Aids sia solo un problema della comunità gay, per questo scelgono come protagonista un uomo eterosessuale.
La pellicola racconta la storia di un pubblicitario, Tomás (Daniel Giménez Cacho), un dongiovanni diviso tra due donne che abitano nel suo stesso edificio, ma è attratto dalla nuova vicina, Clarisa (Claudia Ramírez). La situazione cambia quando Silvia (Dobrina Cristeva), una delle amanti di Tomás, in preda alla gelosia, gli fa credere di aver contratto l’Aids, portando il ragazzo a tentare il suicidio.
Il film incontra numerose difficoltà produttive, l’Istituto Messicano del Cinema non disponeva dei fondi per finanziarlo e in più non concede la distribuzione pattuita. Non sorprende comunque il fatto che in Messico sia considerato un film cult e che sia riuscito a conquistare una cerchia di estimatori anche negli Stati Uniti. Dopotutto, la protagonista indiscussa della pellicola è proprio Città del Messico, quella autentica che i due fratelli conoscono da sempre, narrata senza nazionalismi o nostalgia, bellissima nelle sue contraddizioni brutali e mostrata in una palette di verdi che caratterizzerà le prime tre pellicole del regista messicano.
Diviso in capitoli introdotti da poesie, filastrocche e leggi fisiche, il film risulta fresco e innovativo per il cinema messicano dell’epoca, in più strizza l’occhio a un’audience giovanissima che può sentire per la prima volta al cinema il proprio slang, il chilango. Il film non è perfetto, alcune delle gag risultano ripetitive e poco originali, ma resta un’opera godibile e di certo un esordio superiore alla media, nonostante lo stile inconsueto che però fa presagire, senza tradimenti, l’indole eclettica di Alfonso Cuarón.