Nel 2013 il corto La legge di Jennifer è candidato ai Nastri d’Argento e vince una borsa di studio agli Studios Universal di Hollywood. Un paio di anni dopo Bellissima si aggiudica il David di Donatello per il miglior cortometraggio. Ma la storia di Alessandro Capitani parte da Orbetello, città dalla quale proviene, passa per Bologna e poi per Roma. Nel suo lavoro s’ispira molto a Daniele Luchetti, il primo a portarlo sul set. Dal regista di Io sono Tempesta e Il portaborse ha imparato la relazione con l’attore, ma ama anche il cinema dei fratelli Coen e di Alexander Payne.
Com’è iniziato il percorso che ti ha portato alla regia?
Sei il primo a cui lo racconto. Non ero un grande cinefilo. Da piccolo andavo a vedere i cinepanettoni con mio padre e i film di Van Damme. Mi piaceva quell’epica dei tornei. Poi insieme ai miei amici si dovette scegliere l’università così, avendo mio fratello a Bologna per l’Accademia di Belle Arti, decidemmo di andare lì, ma iscrivendoci al DAMS. Ci sembrava facile e divertente, invece studiando cinema fin dalle monografie su Kubrick si aprì un mondo. Però dopo due anni di studio diventai impaziente. Volevo mettermi alla prova, così iniziai con i corti. E non mi sono più fermato. Poi mi hanno preso al Centro Sperimentale di Cinematografia e si fece tutto più serio, con coscienza.
Ed è arrivata anche la tivù, come regista e autore.
Il mio maestro è stato Daniele Luchetti, gli feci da assistente nel film La nostra vita; in seguito accettai una proposta da MTV per la trasmissione Calciatori giovani speranze e iniziò un nuovo percorso che mi ha portato a firmare alcune regie e programmi come autore. È un lavoro che permette di guadagnare, non tantissimo, ma ti fa vivere. Per me il cinema è per ricchi. Non bisogna avere soldi per farlo, ma per mantenersi quando non lo si fa.
Nel tuo film In viaggio con Adele trionfa il rosa. Dal pigiama a forma di coniglio e i post-it di Adele ai titoli di coda, passando per il suo vestito fucsia.
All’inizio giocavo con questo claim: Pink is the New Black. Poteva essere una frase da usare nella promozione, ma poi non l’abbiamo fatto. Per me il rosa è il simbolo della purezza, il colore della pelle di un bambino. In qualche modo il personaggio di Sara è così. Il colore rosa ne fa uscire tutta la tenerezza e l’amplifica.
La malattia mentale invece viene sfiorata, mai spiegata direttamente. Come l’avete cucita sul personaggio e in relazione ad Haber?
Volutamente non abbiamo specificato cosa avesse Adele nel film. Lei si definisce neurodiversa. Che vuol dire tutto ma anche niente. Il personaggio di Haber, Aldo, ha paura che sia contagiosa perché è ipocondriaco. In realtà ci siamo ispirati allo spettro autistico, tanto che nel film ci sono ragazzi con la sindrome di Asperger. Achille Missiroli interpreta il ruolo del fidanzato di Adele, e ha realmente la sindrome. Come la ragazza che canta nell’istituto. Il nostro è uno dei pochi film dove recitano ragazzi con l’Asperger. Con Sara abbiamo fatto un percorso attraverso questo mondo incontrando molti ragazzi, ma poi abbiamo deciso di sfumarlo in ripresa perché volevamo rispecchiare lo sguardo di Aldo. Quindi nessuna etichetta rassicurante né stereotipi. Sarebbe stato un errore. Lo spettatore doveva imparare ad amare Adele sul percorso di scoperta vissuto da Aldo. Così tutto è più leggero ma ti lascia immaginare. È qui che scopriamo la diversità di Adele.
Hai definito il tuo film un falso road movie. Perché?
Perché si chiacchiera tantissimo. Le scene in macchina sono talmente parlate che pur viaggiando con i personaggi attraverso la Puglia, ci sono pochi campi lunghissimi tipici del genere. Abbiamo anche dovuto ottimizzare il nostro tempo limitato per costruire il film e la sua storia girando in sole quattro settimane, ma ce l’abbiamo fatta.
Quanto avete provato con gli attori prima del set?
Con Sara abbiamo fatto degli incontri con dei ragazzi autistici e dei viaggi in Puglia con il dialect coach per acciuffare questo dialetto veramente strambo. Il foggiano è un insolito pugliese, poco conosciuto. Al suo mix aggiunge campano e molisano, nel complesso piuttosto difficile da preparare. Ma abbiamo avuto tempo per lavorarci: con Haber potevo andare a provare a casa sua in ogni momento. E con Sara ci siamo organizzati bene tra i suoi impegni. È stato un lavoro continuo e approfondito. Haber esce con una umanità che non siamo abituati a vedere: il suo arco narrativo è più cadenzato rispetto a quello di Sara, che invece esplode subito con Adele.
La provincia foggiana, così spoglia e piatta nei suoi panorami, sembra una scelta estetica funzionale a una teatralità di personaggi soli al mondo.
Il film all’inizio era ambientato in Salento. Quindi trulli, alberi, sole, natura. Tutto già visto. Invece io volevo dare un’altra visione, collocando questi personaggi in lande incredibili, spoglie. Lì trovi strade con chilometri di campi a destra e a sinistra. Un paesaggio così scenografico da valorizzare le anime dei due personaggi.
Dopo l’esordio al lungometraggio come prosegue il tuo cammino nel cinema?
Mi piacerebbe moltissimo collaborare di nuovo con Nicola Guaglianone. C’è un progetto di cui non dico nulla, spero si possa portare a termine perché è bellissimo, ma non posso parlarne perché è suo.