Fortemente attratto da un cinema di genere capace di riflettere sui problemi della società, l’appena trentenne Hleb Papou firma la promettente opera prima Il legionario, in uscita il 24 febbraio nei cinema. Il film racconta senza retorica l’Italia multiculturale di oggi e la questione dell’emergenza abitativa romana, con un obiettivo ambizioso: rinnovare lo sguardo del cinema italiano sull’attualità.
Classe 1991, bielorusso naturalizzato italiano, Hleb Papou si è trasferito con la madre da Minsk a Lecco nel 2003, spostandosi poi a Roma per inseguire il sogno del cinema che coltivava fin da piccolo. Dopo gli studi al DAMS è entrato al corso di regia del Centro Sperimentale, dove ha realizzato come saggio di diploma il cortometraggio Il legionario, presentato nel 2017 alla Settimana della Critica del Festival di Venezia e da cui ha tratto l’omonimo esordio nel lungometraggio.
Mostrata in anteprima all’ultima edizione del Festival di Locarno (Pardo per il miglior regista emergente nella sezione Cineasti del presente), la versione lunga de Il legionario vede protagonista Daniel, un agente di origini africane del reparto mobile della Polizia costretto a sgomberare il palazzo occupato in cui è cresciuto e dove vivono la madre e il fratello. Osservando occupanti e poliziotti senza giudicarli, l’opera prima ha il merito di proporre uno spaccato della società italiana che raramente trova spazio sul grande schermo.
Da dove parte l’idea alla base prima del corto e poi del lungometraggio?
Tutto ha avuto origine da un’immagine che mi è venuta in mente diversi anni fa: quella di un poliziotto di colore, nato e cresciuto in Italia, che indossa la divisa da celerino. E in più, in generale, dalla volontà di smuovere un po’ le acque mostrando l’Italia di oggi in modo diverso dal solito, in maniera fresca e al passo con i tempi, senza seguire le mode del momento ed evitando il buonismo, il politicamente corretto. Non eravamo interessati all’ennesimo racconto della periferia romana disagiata e infatti lo stabile occupato al centro del film si trova in centro, nel quartiere Esquilino. È da qui che siamo partiti con Giuseppe Brigante ed Emanuele Mochi, i co-autori del soggetto e della sceneggiatura, per costruire le vicende che ruotano attorno a Daniel, uno dei sempre più numerosi italiani di nuova generazione, e alla sua famiglia.
Cosa vi ha spinto ad ampliare la storia del corto in un lungometraggio e come vi siete preparati alla fase di scrittura?
Già per il cortometraggio avevamo fatto molte ricerche sul campo. Abbiamo conosciuto un poliziotto della Celere, che ci ha introdotto nel mondo dei reparti mobili della Polizia, e frequentato per diverso tempo lo stabile occupato di Via di Santa Croce in Gerusalemme dove è ambientato il film, incontrando le persone che ci abitavano ben prima che se ne iniziasse a parlare così tanto sui giornali per la questione della luce staccata. Raccogliendo le storie di poliziotti ed occupanti, approfondendo i loro punti di vista, ci siamo resi conto che le cose da dire erano molte, mentre il tempo a nostra disposizione per raccontarle poco. Farne un lungometraggio è stato dunque un passaggio naturale. In generale, tanto per il corto quanto per il lungo, il modus operandi è stato lo stesso: approfondire la realtà che volevamo raccontare per poi restituirla al meglio delle nostre possibilità attraverso il linguaggio cinematografico. Senza assumere posizioni ideologiche o proporre soluzioni che non conosciamo.
Inserendo poi il tutto nel contesto di un cinema di genere…
Fin da piccolissimo sono sempre stato appassionato di film di genere. Quando ancora vivevo in Bielorussia, negli anni Novanta, sono cresciuto guardando film d’azione come Die Hard, Arma letale, Rambo o Robocop, che mi ricordo con i compagni di asilo giocavamo ad imitare facendo finta di spararci a vicenda. Più avanti poi ho iniziato ad apprezzare il cinema di genere impegnato, in grado di raccontare in maniera diretta, cruda e dinamica la società. Da questo punto di vista ad esempio ammiro molto i film di Denis Villeneuve, in particolare Sicario, e Jacques Audiard, soprattutto Il profeta. Una delle mie pellicole preferite in assoluto, che reputo un capolavoro, è Tropa de Elite del brasiliano José Padilha, vincitrice dell’Orso d’oro al Festival di Berlino nel 2008. Il cinema che parte dal racconto dell’attualità usando il genere per far riflettere sulla realtà che ci circonda mi affascina particolarmente. Tanto che mi muoverò in questa direzione anche in futuro.
C’è nel panorama italiano un regista che senti vicino a questa tua idea di cinema?
Mi piace molto lo studio di genere dietro la regia di Stefano Sollima, che mi sembra sia l’unico oggi in Italia a fare un cinema di qualità di questo tipo. Non a caso, è stato chiamato per la prima volta ad Hollywood proprio per dirigere il seguito di Sicario di Villeneuve, Soldado. Anche se questa strada in Italia oggi non è particolarmente battuta, è interessante notare come in passato, a partire dagli anni sessanta e fino ai primi anni ottanta, sia stata esplorata dal filone del poliziottesco, che a suo modo raccontava problemi sociali, crimine e corruzione attraverso una chiave di genere sempre attenta al grande pubblico.