Giuseppe Avati, noto come Pupi: così lo chiama la madre e poi il mondo intero, con il diminutivo del nome di un violinista austriaco. Pupi Avati, forse più di chiunque altro, rappresenta la scalata di un uomo comune verso il cinema e di quanto la solidarietà – una mano tesa – faccia la differenza. Quella abissale però, alla Sliding doors.
Dall’ambiente del cinema, Avati ha dichiarato spesso di essersi sentito più compatito che apprezzato, un regista di storie familiari – come diceva la critica Emilia Costantini – cantore di Bologna, scelta per orgoglio provinciale (quando ancora Bologna poteva considerarsi così): una città a misura del suo mondo, per farsi bello davanti agli amici, rivalersi sulle ragazze che non l’avevano amato e forse neanche capito «Ancora oggi quando faccio i miei film, in qualche modo sono come delle cartoline e delle lettere d’amore che mando ai miei amici, alle ragazze che mi hanno rifiutato». Con spirito ribelle si inventa un mestiere che non ha mai fatto, per farlo nel proprio posto sicuro del mondo, quasi al solo scopo di dimostrare qualcosa agli altri.
In cinquant’anni di prolifico lavoro Avati si è confrontato con un caleidoscopio di generi: dal biografico con La cena per farli conoscere, all’horror La casa delle finestre che ridono, al cinico Regalo di Natale. A premiarlo è stato soprattutto il pubblico capace di riconoscersi nel realismo e nella semplicità del suo cinema dei piccoli sentimenti.
Avati, prima del cinema, credeva che il suo grande sogno fosse il jazz, si è esibito come clarinettista dilettante tra il ’59 e il ’62 con la Doctor Dixie Jazz Band, almeno fino a quando Lucio Dalla non è arrivato a rubargli la scena. Almodóvar raccontava degli anni al call center come i peggiori della sua vita, Avati lo fa dei quattro passati a fare il rappresentante della Findus surgelati. La visione di 8½ di Federico Fellini, cambia tutto, gli mostra che i film possono racconta la vita, non sono solo storie di inseguimenti e cowboy.
La storia di Pupi Avati è anche quella delle grandi donne che l’hanno circondato e che hanno creduto nel suo sogno, dalla madre vedova, Ines, che ha venduto casa per aprire una pensione e avvicinarsi al centro della città per sostenere i suoi sogni, a Laura Betti che l’ha introdotto nel giro degli artisti che gravitavano in piazza del Popolo, portandolo alle cene con Moravia, Bertolucci e Pasolini, con cui poi ha scritto Salò e le 120 giornate di Sodoma (1975).
Un alone di mistero circonda l’imprenditore che ha finanziato i suoi primi due film, un uomo incontrato al Bar Margherita che – come leggenda vuole – gli ha lasciato sedici assegni dal valore totale di 160 milioni di lire. L’opera prima di Pupi Avati è Balsamus, l’uomo di Satana (1968), la storia gotica e surreale di uno stregone. Balsamus (Bob Tonelli) – un chiaro riferimento al Conte di Cagliostro – è un ciarlatano, la gente si rivolge a lui credendolo capace di risolvere la sterilità, curare gli animali e creare elisir d’amore. Raccoglie attorno a sé una congrega di signore borghesi e, con la sua corte dei miracoli, vive in una grande dimora indossando abiti settecenteschi. Fisicamente incapace di amare la moglie, si suicida.
Ci sono già degli elementi tipici del cinema del regista bolognese: gli attori Gianni Cavina e Bob Tonelli, l’ambientazione bucolica e lo humor nero. In sala è un fiasco, un film approssimativo e atipico, pesante con qualche momento divertente e una colonna sonora disturbante, volutamente ossessiva. Si intuisce già la capacità di Avati di trarre il meglio dagli attori ed è apprezzabile il tentativo di catturarne i volti trasfigurati inseguendo suggestioni felliniane e pasoliniane.
Balsamus, l’uomo di Satana, resta una pellicola per cinefili appassionati e sognatori, amanti delle stramberie e dei misteri. Della sua opera prima, Avati dice: «essendo fortunatamente perduta, la possiamo considerare perfettamente riuscita, perché nessuno potrà mai vederla». Il film invece è talmente poco riuscito che Pupi si sente deriso dalla città intera, al bar lo prendono in giro e lui scappa a Roma. Quattro anni dopo, lo salva la generosità di Ugo Tognazzi. Se Avati è un uomo che ha fatto della sua umanità, delle debolezze portate addosso come medaglie, uno stile di narrazione e un accorciare le distanze con il pubblico, lo deve proprio a Tognazzi. L’attore, che ha recitato in due dei suoi film, si approcciava agli altri con una dichiarazione di debolezza, la prima cosa che raccontava di sé era un suo fallimento, anche molto personale e potevi essere autentico e rispondere con una tua debolezza, creando intimità e amicizia o restare spiazzato e perderlo.
Pupi Avati è un miracolo della provvidenza cinematografica, un sognatore che nella Bologna degli anni ’60 è passato dai bastoncini di pesce al cinema, dopotutto i sogni sono di chi li insegue fino alla fine (ne sa qualcosa Terry Gilliam). I film di chi si è arreso, dopotutto, non li ha visti nessuno.