La musica in Italia sta rinascendo. Ce ne siamo accorti e ne siamo anche piuttosto lieti. Tante nuove canzoni, nuovi tormentoni, nuove stelle da seguire. Il fatto è che quelle canzoni parlano sempre della stessa ragazza. Una ragazza bella, tutta fame e sorriso, tra il conservatorio e l’università e la bicicletta Atala. Siamo tutti innamorati di quella ragazza, certo, quella che riconosciamo nei video in soggettiva (o POV se a qualcuno gli è più chiaro e caro il concetto) e nelle descrizioni di denti bianchi e abitudini innocue. Però, in mezzo a questo mare di vino e romanticismo spicca il nome di Willie Peyote il cantante rapper più indie, o il cantante indie più rapper, di tutti. Spiccano le sue canzoni, che strabordano di concetti, di ragionamenti, di riflessioni, di insulti e di richiami.
Sul Palco di Villa Ada, che annuncia i suoi artisti con una voce registrata pregna di coscienza civica, sale un ragazzetto slanciato e la sua band, non un ragazzo da camicia e fiori, ma da camicia a fiori aperta davanti, una maglia bianca lisa, occhiali con montatura spessa e baffo arguto, arguto come le sue canzoni, lineari come i suoi calzoni skinny, come la sua dizione così piemontese, sabauda come la sua educazione. Fumo che opacizza l’aria, seghettata da frasi che si ripetono a cascata per un concerto che parte subito forte. Willie zompetta, ha l’aspetto di un Jovanotti d’annata, molta cattiveria in più, parte un funk e si intervalla con un blues, anticipa qualche sound alla Daft Punk e poi cede il passo al rock ed all’Hardcore.
Willie Peyote se la prende con tutti, e se qualche volta cede a una retorica superficiale, quantomeno ti lascia qualcosa da pensare. Non c’è il romanticismo da spensieratezza estiva, c’è un cinismo simpatico ed un mare di cose da dire, di pensieri da fare, congetture da smontare, è questo che ci attiva, non il coinvolgimento forzato ad una politica che sa di vecchio, l’opinion leader schierato in un sistema già morto, ma la disattivazione di certi schemi mentali, la logica che scarta la facciata, il pensiero che scavalca la barricata. Nelle sue canzoni c’è un percorso visibile, dalla rabbia giovanile che mastica battaglie e senso di rivalsa, dentro frasi e testi fin troppo schierati a bandiera alta, in un’evoluzione che porta fino a La sindrome di Tôret, il suo ultimo album, dove con Nietzschiana determinazione prende a martellate le verità, le convinzioni, chi ha troppe certezze, i gruppi, il singolo, la maggioranza e la ragione stessa.
E se un po’ di saccenteria stona con il concetto dell’album, la platea è piena a disquisire cantando di religione, di fama, di successo, di competenza e risultato, di brava gente, persone normali, di astensionismo ed alcolismo, perché si ritorna sempre alle origini, o almeno una vodka tanto, nonostante chi ti vuole bene e ti vuole sobrio al volante. Forse qualche ragazza o donne che sanno di posacenere, sesso esplicito, parolacce, messe in mezzo di gente del cazzo.
Willie Peyote sembra un hipster ma dice che se rappa è ancora hardcore, come Kamil Glik, il roccioso difensore che portava fiero i colori di Torino, come i vecchi santoni del rap che cita a nastro nelle vecchie canzoni, che canzona quando tira in ballo i nuovi filoni, mescola la sua storia di musicista del rap e paroliere del punk, e sul palco si vede tutto e noi ci divertiamo, seguendo la sua energia, anche chi non condivide certe linee di pensiero, ma convincere chi è già d’accordo è facile, scemo. Stuzzica tutti, gioca con i suoi riferimenti, le punture politiche, il sarcasmo da campo di calcio, il pubblico risponde e se c’è quello alla fine c’hai ragione tu, anche se la gente non è poi così tanta e anche se lo meriterebbe, ma in fondo si sa che non è che se vai forte sei bravo per forza, il più delle volte si tratta di turismi, e di gente che sale in cattedra, di un popolo di Alberto Angela, tutti con qualcosa da insegnare ma poi non si sa distinguere il bene dal male.
Willie Peyote è un bene, una benedizione, con il suo linguaggio forbito, la schiettezza aggressiva di uno preparato, un po’ incazzato, che se la prende con gli altri e di riflesso con se stesso, con le banche, con gli obiettori, con il pentapartito e con Adinolfi, con quelli che parlano a vanvera, con i social, con la televisione e i talent show, con chi ha sempre ragione, in un viaggio di sproloquio e pentimento, di incertezza, perché chi è troppo sicuro spaventa.
Il viaggio di Willie Peyote è lungo, dentro al cuore della musica, del linguaggio, della storia che si porta appresso, di una musica italiana abbandonata che ritorna, anche con lui (come con i Coma_Cose, tra gli altri), citata, cantata, riadattata, amata, da L’avvelenata di Guccini a Via con me di Paolo Conte, passando per Tenco e il maestro Gaber, in un viaggio che prosegue nel pensiero, nelle forme di intrattenimento e di tanto in tanto la voce di Giorgio Montanini che compare dall’amplificazione di Villa Ada, così come lo trovate tra le tracce dell’ultimo album, mixando canzoni a stand-up comedy, in una fusione artistica sullo stesso concept: la libertà di espressione ed i suoi paradossi. Nell’informalità di una notte estiva, nella leggerezza di un concerto all’ombra dei pini e nel riflesso di un laghetto a Roma Nord. Willie Peyote è questo, un baffo hipster, una rivoluzione proletaria, una verità negata, una canzone romantica e un difensore polacco. Willie Peyote è tanta roba.