Pepsy Romanoff. Sopravvissuto al Supervissuto

Il Supervissuto
"Il Supervissuto", docuserie targata Netflix per la regia di Pepsy Romanoff. Prodotta da Solaris Media (Guglielmo e Azzurra Ariè) in collaborazione con Except (Maurizio Vassallo)

«Non puoi racchiudere la storia di Vasco in 5 episodi da 50 minuti». A parlare è colui che invece l’ha fatto: Pepsy Romanoff. Lo raggiungiamo dopo i fuochi d’artificio, dopo l’uscita della serie, le recensioni, gli applausi, le critiche. Così ci racconta dei tre anni di lavoro dietro questo progetto, a partire da quando ha messo in pausa la sua vita per trasferirsi a Bologna accanto a lui, «perché Vasco è il sole», dice. E il sole è assoluto, «ma è un attimo che ti bruci».

Peppe Romano è tante cose insieme (regista, art director, produttore), ma è soprattutto “il regista di Vasco”: un titolo esclusivo che nessuno, prima di lui, aveva conquistato fino in fondo nell’entourage del rocker. Una storia, la loro, che inizia con i primi videoclip fino ai visual e alla direzione artistica dei suoi live show, compresa la macchina dei record che Modena Park fu nel 2017. Va da sé che a questo punto nessuno avrebbe potuto raccontare Il Supervissuto se non lui. Il risultato è un’opera audiovisiva definitiva su Vasco Rossi, un documentario che è pure un’autobiografia, tra found footage, testimonianze e interviste inedite, e ripercorre le tappe di una vita surreale e chiacchieratissima calandosi nella storia del nostro Paese: le prime radio libere, Sanremo, la Rai, i club, il cantautorato degli anni Settanta-Ottanta e il rock italiano. Senza soddisfare il gossip e risolvere rebus, ma senza voler ignorare ad ogni costo i punti critici. «Alla fine, se ci pensi, io non sono solo un sopravvissuto: io sono un super-vissuto» dice Vasco nei primi minuti della serie. Ma come si sopravvive a un Supervissuto?

Partiamo dalla fine. Critiche, domande scomode, applausi: come è andata?

Pensa che sono arrivati a chiedermi se ho tradito mia moglie con Vasco Rossi [ride]. Ho risposto di sì, perché ho passato tantissimo tempo con lui e ci siamo raccontati davvero il sesso, la droga e il rock’n’roll. Ho letto molte recensioni, alcune sostengono che non abbiamo detto niente di inedito. Secondo me non è vero.

Ecco, secondo te cosa è stato detto di inedito?

Innanzi tutto ci sono tre personaggi inediti alla storia di Vasco Rossi per il pubblico: la moglie Laura Schmidt, il figlio Luca Rossi, e il manager nonché migliore amico storico Floriano Fini. Non avevano mai parlato così apertamente della sua vita, tutti insieme. È ovvio che non abbiamo scoperto l’acqua calda, ma si arriva a Vasco che racconta: «Io a un certo punto avevo venti, trenta grammi di cocaina in casa». Non è la prima cosa che riveli in un’intervista, no?

Vero. Per certi versi, però, anche questa è “la versione di Vasco”.

Questa è una sana verità. Ma quale autobiografia si comporterebbe diversamente? Anche nei testamenti finali, certe cose te le porti dall’altra parte del mondo. Io credo sia giusto che delle cose scottanti se le tenga Vasco, come fa ognuno di noi con i suoi segreti. È ovvio che lui mi ha raccontato delle cose scomode, e molte sono state valutate dai legali e tagliate fuori dalla serie. La verità? Forse sono più contento che qualcosa sia rimasta solo tra me e lui.

 

Sapere più di quanto è stato reso pubblico, decidere cosa tenere e cosa tagliare: tu quale criterio hai seguito?

Io non sono mai partito dal presupposto di fare un documentario d’inchiesta sulla vita di questo artista. Volevo mettere sul tavolo tutte le carte di questo grande puzzle.

E com’è possibile che nessuno avesse già realizzato un progetto del genere sulla più grande rockstar italiana?
Mancava un fattore fondamentale: il punto non era trovare la persona giusta, ma che Vasco arrivasse in un momento e in un tempo preciso della sua vita. Per lui gli anni del Covid sono stati un point break su cui costruire questo racconto, come la ginestra di Leopardi. Piantare un fiore sul Vesuvio.

L’idea di fare una docu-serie è nata in tempo di pandemia. Chi dei due l’ha proposta all’altro?

Né me lo ha chiesto né gliel’ho proposto. Durante la pandemia lui mi fa capire: «Mi sto annoiando, che ci vogliamo inventare?». Così lo raggiungo una settimana a Bologna per buttare giù qualche idea, per intrattenerci non potendo fare i concerti. Poi mi compro una delle tante biografie su di lui, e capisco che alcuni fatti non tornano. Così inizio a chiedergli: «Ma questa cosa come è andata? È vero quello che c’è scritto qua?». Ci siamo appassionati parlandone, abbiamo iniziato a registrare tutto col telefono, senza telecamere.

Sì, ma quand’è che vi siete detti davvero «stiamo realizzando questa cosa»?
Non ce lo siamo detti. Nell’aria c’era l’idea di Guglielmo Ariè [insieme ad Igor Artibani, tra gli autori di Supervissuto] di fare un documentario importante sulla sua vita. Sono passate due settimane, io e Vasco ci vedevamo ogni giorno dalle quattro alle sei per chiacchierare e registrare. Sono ripartito dal suo anno zero: «Come sei cresciuto? Cosa facevi? Che tipo eri?». E poi queste due settimane so’ diventate nove mesi. Ogni giorno mi dava appuntamento al giorno dopo, e alla fine ho telefonato a Milano: «Raga’, qui il fatto sta diventando serio, mi affitto una casa a Bologna». Sono andato lì il 3 novembre e sono tornato a casa il 10 giugno dell’anno dopo. Considerando tutta la gestazione del progetto, tra shooting, scrittura e registrazione, c’ho lavorato tre anni.

Settant’anni di vita e quasi cinquanta di carriera. Come hai fatto a calibrare i vari blocchi e scegliere a cosa dare più rilevanza?
Questa roba qua è stata molto difficile. Inizialmente avevo dato più spazio ai capisaldi che io ritenevo più importanti, con un imprinting più autoriale ed eccentrico. Ma è chiaro che chi paga vuole che racconti una storia anche come piace a loro. Ed è giusto, perché ci hanno lasciato una libertà totale su un progetto economicamente enorme. Solo Netflix poteva salire su questo carro, e te lo dico senza sviolinare. Però non puoi parlare per tre minuti di C’è chi dice no o Gli spari sopra e magari sacrificare di Gli angeli e Sally. Abbiamo dovuto fare un balance continuo per scendere a patti con i tempi dell’intrattenimento, forse mi sarei preso delle licenze registiche più ampie. A volte avrei sgonfiato tutto e tenuto solo un’immagine con una voce, oppure un minuto di visual e nient’altro.

Hai imparato qualcosa in più sul documentario da intrattenimento?

Ho imparato a calibrare la tensione e le aspettative. Questo modo di realizzare documentari è la bibbia di Netflix: lasciare uno spettatore attaccato e poi dargli una risposta più tardi. Ho imparato l’importanza del diritto d’autore – dei video, delle foto, dei bootleg – e come tutelarlo. Il documentario in sé ha un grande lavoro di elaborazione e costruzione editoriale per raggiungere un risultato.

Qual è la licenza registica di cui vai più fiero?
Sicuramente l’intro del primo episodio. Quello è un vocale originale che Vasco mandò a Tania Sachs per rispondere a una lettera che Cesare Cremonini gli dedicò su Vanity Fair, quando diventò direttore per un numero. Quando ascoltai quel vocale pensai che questo artista era stato capace in un tempo musicale, cioè in poco più di tre minuti, di fare il trailer della propria vita.

E poi c’è la sigla, che racchiude proprio l’essenza di Vasco.

Volevo che fosse graficamente un grande collage di una grande vita. A Bologna avevo una parete bianca con una cartina geografica, dei post-it e una linea rossa che mi portava da un luogo di Vasco all’altro, con accanto le date. Mi piaceva fare infografica cercando di far capire agli spettatori dove si trovavano storicamente, rispetto allo spazio-tempo di Vasco [nda: tutte le grafiche sono opera di Chunk Studio].

La sigla si chiude sull’immagine-icona: il palco, il pubblico dei record e il coro storico [olè olè olè Vasco Vasco]. Ovvero il luogo di culto, i fedeli e il rito. Perché hai scelto il punto di vista del palco anziché dei fan?

È un po’ un’autocitazione. Vasco è Vasco anche perché ha pensato – e si è ricordato – per tutta la vita di avere un pubblico davanti a sé: la camera ribaltata aveva più potenza. Quella è un’immagine davvero epica, che ho imparato a notare e costruire a Modena Park, l’evento degli eventi.

Ed è anche un punto di vista privilegiato: il tuo. Sul palco sempre accanto a Vasco, mai davanti.

Sai, alla fine la nostra è stata una grande storia d’amore. Parlo al passato perché è come se la serie rappresentasse il giorno del nostro matrimonio: noi mo’ ci siamo sposati, la festa l’abbiamo fatta, le fedi ce le siamo scambiate? Bene, ci possiamo pure lascia’, però ormai ci siamo sposati. È una cosa che non ci può togliere nessuno, comunque andrà. Lui ha dato a me ciò che io ho provato a restituire a lui. Non è una trovata di comunicazione: il vero regista di questo progetto è Vasco Rossi. Quale regista migliore di uno che è autore della sua vita come lui? Già trovare questo titolo, Il Supervissuto, è opera sua. Ha coniato un nuovo vocabolo.

Che rientra nel suo glossario: è l’ennesimo vocabolo di una “disciplina spericolata”. La sigla della serie è Gli sbagli che fai, scritta per l’occasione. Non avevi pensato di usare un brano cult?

Sì. Per me la sigla doveva essere un’altra: Lo show. Un pezzo magico, un rock cinematico, lo ascolti e vedi un film. Vattela a sentire.

Non dimenticarti con chi stai parlando.

[Ride] Hai ragione, scusa. Sai quando all’inizio dice: “Alzami un po’ la musica, alzami un po’ la mia voce”? Mi fa venire la pelle d’oca. Per me è anche il pezzo con cui dovrebbe aprire i concerti. Io e Vasco non siamo amici, siamo due professionisti che lavorano insieme: questo è sempre un valore aggiunto. Per questo Gli sbagli che fai me l’ha fatta ascoltare alla fine della serie, dopo aver visto tutto il girato. Era convinto che potesse essere la grande colonna sonora, e aveva ragione, perché è il raccontone di una vita all’insegna del casino. Mi commuovo se ci penso.

Possiamo dire che sei sopravvissuto al Supervissuto?

Io per ’sta serie sono andato dall’analista, sono stato male, mi sono allontanato da casa in tutti i sensi. È stato difficile. Aspetta, mi si rompe la voce se continuo a parlare. Dice l’analista che quando mi succede devo pensare a una cosa che mi fa ridere.

Cos’è che ti fa rompere la voce?

Il fatto che è stato difficile. A un certo punto arrivi anche a dirti: «Vaffanculo, non è che per raccontare questa storia devo andare al manicomio». Quando stai in quella bolla, dall’esterno non si può capire. Vasco è il sole: ti puoi scottare in un attimo se non ti proteggi.

Cosa temevi di più?
Di non reggere la pressione a livello lavorativo. I compromessi da fare con un colosso dell’intrattenimento come Netflix. Che il risultato non raggiungesse la qualità che volevo. Avevo paura di scoppiare prima della fine, perché in mezzo c’è stato il film del concerto al Circo Massimo, una tournée dopo il lockdown e l’ultimo tour. E oh, mica so’ io il Supervissuto [ride].