“Il problema è che abbiamo paura, basta guardarci.” Paura di un sacco di cose, anche paura che una voce modificata e rielaborata ci elenchi e ci esponga in maniera ineluttabile le nostre paure, mettendocele di fronte. La voce originale era di Fabio De Luigi, estratto di un film, passato un po’ sotto ombra, di Gabriele Salvatores, chiamato Happy Family, una commedia pirandelliana che canta l’amore per Milano (e per Wes Anderson). I Coma_Cose lo camuffano un po’ quel monologo, e ce lo ripropongono a metà concerto, videoclip con papera incappucciata compresa, nello stupefacente macrocosmo artistico che il duo lombardo ci regala ad ogni concerto. “Paura della folla, di fallire, paura di cadere, di rubare, di cantare… Paura della gente, paura degli altri.”
Il nuovo album, il loro primo vero album, visto che le altre tracce erano uscite scaglionate nei mesi, così come erano nate, quasi per caso. A distanza di quasi un anno esce fuori Hype Aura, che a seconda dell’accento ci riporta al tema principale e ci chiede “Hai paura?”, tutto sintetizzato nel pezzo Intro che apre il concerto (e chiude il disco), che anestetizza le ansie della vita e della serata, e ci dice che comunque vada l’inizio, alla fine saremo solo io e te, un modo per esorcizzare quella paura, e di non preoccuparsi, perché veramente, stasera, non ce n’è bisogno.
L’Atlantico di Roma ci accoglie di nuovo, dopo Franco126 e gli Ex-Otago, e accoglie anche i Coma_Cose, di lunedì, con un palazzetto meno pieno del preventivabile, ma caldo d’entusiasmo e partecipazione. La forza straripante di Fausto e Francesca cresce così come cresce la serata, un pezzo dopo l’altro, un balzello dopo l’altro. Li avevamo conosciuti al Lanificio quando i pezzi a disposizione si contavano sulle dita, adesso lo spettacolo prende corpo e forma, ed ha i tempi giusti che ci fanno arrivare fino alla fine in una catarsi di pura energia, ogni canzone sembra avere il suo posto e la sua giusta connotazione. Ed è la stessa sensazione che si ha con le strofe, i termini, i giochi di parole azzardati, la pioggia di riferimenti, citazioni, omaggi, punzecchiature, sogni e presagi. Ogni frase ha storia a sé, raccolta in una storia più grande, dal cuore milanese che arriva dritta alle gole di Roma, che cantano, saltano insieme alle luci intermittenti che fissano la folla, muovono le mani a tempo, quando dal palco calano le bombe, anzi le granate sui denti.
Dai microfoni esplodono fiumi di paragoni, metafore, doppi sensi, retaggio rap in salsa cantautoriale, tanto materiale fuso insieme come plastica, a dar forma imprevedibile ad un oggetto unico e multicolore. Da Bukowski a Majakovskji, da Dylan Dog a Dylan Bob, da Zack de la Rocha a Bruce Springsteen, da Jodorowsky a Jack Nicholson, dalle Pantere Nere a Garcia Marquez, fino ai Beach Boys, a Battisti, Mogol e Kanye West. Un universo di contaminazioni, di curiosità, di occhi spalancati sul mondo, una voracità di concetti, di concerti, di sperimentazioni, di punzecchiature, di strizzatine d’occhio. Il mondo dei Coma_Cose è colorato, è vivido, ha delle immagini bellissime che ci regalano come fossero normali, scontate, semplicissime. Le notti fredde come gli occhi degli husky, cuori che volano via dalla gabbia toracica, capelli così corti che quasi le si leggono i pensieri, strade che truccano gli occhi alla pianura, per sperare che, in fondo, questa giornata non sia grigia, come quando trovi la sabbia dell’anno prima in fondo alla valigia.
Hype Aura prosegue un percorso, un tracciato fatto di novità, di identità, di una riconoscibilità invidiabile, ciò che fanno i Coma_Cose è solo ed esclusivamente loro, piaccia o no; da capire, interpretare, tradurre, ma è marchiato a fuoco, dalla splendida voce femminile di Francesca, in arte California, e dall’aria più cupa di Fausto, con le sue carambole lessicali, che in mezzo a mille digressioni ed escursioni poetiche, arriva in Beach Boys distorti a togliersi un sassolino, esternando al mondo che ora che a girare finalmente inizia, ci dice vaffanculo, sì ma in amicizia.
Lo sfogo, anche questo a superare le mille paure del passato, di una gavetta che per lui è stata fin troppo lunga, e che poi ha trovato in un amore di boutique ed in una autenticità musicale il suo compimento. Perché c’è sempre la paura di mezzo, a frenarci, a controllarci, a migliorarci. Quanta paura di essere diversi, ma quanta noia ad essere perfetti.
Lo show tira dritto fino alla fine, con tutti i pezzi vecchi e nuovi perfettamente integrati, la dolcezza di Anima Lattina, la rabbia di Jugoslavia, le coscienze che fanno paura di Post-Concerto, la dieta di Nudo Integrale, fino alla fine di questa tappa, di un percorso che ci auguriamo abbia ancora molte destinazioni da raggiungere, un viaggio da fare ad occhi chiusi, per mano, e col respiro sospeso, d’altronde i ponti sono fatti per buttarsi, mica per metterci i lucchetti.
L’ultima canzone arriva, annunciata, come secondo bis, ed è Mancarsi, probabilmente la più bella che abbiano composto, quasi sicuramente la più sentita, la più emozionata ed emozionante, quella da cantare senza pensarci, a voce spianata, la canzone che parla di tutti e si confessa, che schifo avere vent’anni, che schifo avere rimpianti, quanto è difficile mancarsi, quanto è difficile dire “mi manchi”, una canzone che mette fine a tutti i preamboli, supera tutti i dubbi, le incertezze, gli sbagli, i drammi e le prese in giro e ci dice quanto sia bello, durante le vite di tutti, avere paura.
Le fotografie sono una gentile concessione di Fabio Germinario.