Da dove si parte quando si vuole raccontare l’amicizia? Dalle cose che accomunano tutti, da un viaggio, da una passione grande come il calcio e, soprattutto, dalla musica.
Questa è la sintesi di Ovunque tu sarai, questo è il pensiero che mi gira in testa dopo aver chiacchierato a ruota libera con Roberto Capucci, il regista, e Marco Conidi, perno centrale dell’Orchestraccia e curatore d’eccezione della colonna sonora del film. Parlando con loro vado a scavare, cerco di ricostruire come si sia strutturato il mantello musicale che avvolge e protegge tutto il film, riscoprendo un viaggio emozionale prima che effettivo, ricucendo gli strappi di un’opera prima sincera, alla quale gli spettatori si sono affezionati. Non è difficile ottenere informazioni da Roberto Capucci, che come un fiume in piena mi investe con il suo entusiasmo, la sua soddisfazione umana prima che professionale nel ripercorrere le tappe di avvicinamento al film, raccontandomi di come, un pezzo dopo l’altro, si siano incastrati tutti gli ingranaggi della macchina.
Il suo incontro con Marco Conidi è stato quasi fortuito, un conoscente in comune che li porta a cena insieme: «Hai presente quando non ti conosci ma sei amico da una vita?». Roberto non trova altre parole per spiegare come sia nato un rapporto da subito molto forte. Un’intera sera a parlare di idee, di Roma, della Roma, di esistenze distanti che però condividono lo stesso background culturale, le stesse emozioni. Proprio da questi presupposti nasce il film e da questi presupposti nasce un’amicizia e una collaborazione che parte dal titolo, quell’Ovunque tu sarai che proviene naturalmente dal famoso coro della Sud e da un estratto del testo di Mai sola mai, canzone di Conidi dedicata alla sua A.S. Roma, ma che attraversa emozionalmente qualunque tifoso di calcio. «Orgogliosamente ti dico che è un film musicale» mi racconta Roberto «c’è una matrice rock che accompagna tutto il film, e che ci accompagna da Roma fino in Spagna. Poi c’è un’unione di molti generi: abbiamo inserito continui riferimenti alla musica, a cominciare dal pulmino dei Triana, un gruppo realmente esistito che proponeva un rock progressive con sonorità spagnole».
La storia esordisce con la confessione di uno dei protagonisti, con il suo sogno di diventare una rockstar, poi non possiamo che innamorarci di Abre la puerta proprio dei Triana, prima di scoprire la versione spagnola della canzone Ovunque tu sarai scritta da Marco Conidi per il film e cantata nella pellicola dalla deliziosa Ariadna Romero, per poi stupirci nel riascoltare Comprami di Viola Valentino, retaggio di un’epoca cinematografica così distante e così indimenticabile. Tendenzialmente nei film a basso budget e nelle opere prime la musica si usa per riempire i vuoti, ma è spesso una musica preconfezionata, fatta di sonorità di circostanza. Nel caso di Ovunque tu sarai, invece, la musica dà ritmo al film grazie all’apporto essenziale di Conidi e degli altri due collaboratori per le musiche, Valerio Calisse e Daniele Bonavire, uno dei chitarristi di flamenco più importanti in Europa. Prima di congedarlo parliamo del videoclip della title-track, firmato sempre da lui, gli chiedo se fosse stato solo un piccolo sforzo collaterale al film oppure no: Roberto mi rivela che senza il videoclip non avrebbe avuto il finale del film, in cui sono state riutilizzate le scene del pulmino girate per la canzone, in una congiunzione quasi magica.
L’idea del video nasce proprio così: un’unione visiva tra i componenti dell’Orchestraccia impegnati a cantare e i ragazzi del film che li passano a caricare con il loro pulmino, aggiungendo una tappa ulteriore a quelle che vediamo nella storia. Per Marco Conidi, che intercettiamo poco prima che entri in sala prove, non è la prima volta al cinema, è sempre stato attore e cantante, le uniche due cose che da piccolo si era ripromesso di non fare nella vita ‒ ma si sa che le cose non vanno come uno se le immagina. Marco è navigato, conosce il linguaggio dei film e quello della musica, conosce Roma e i messaggi che sa comunicare, quindi è stato l’interlocutore ideale per un progetto come questo. Le colonne sonore sono una delle sue passioni e dopo aver conosciuto Capucci si è lasciato subito coinvolgere. Ma quando è arrivato, ha trovato musiche d’appoggio, riempitive, insieme a tutta una serie di riferimenti a canzoni che spaziavano dai Queen, ai Rolling Stones fino a Elvis: «Ci mancava solo Let it be dei Beatles e le avevano prese tutte, gli ho detto mettici sei milioni per i diritti e ce le hai tutte ’ste canzoni», ci racconta Marco con un sorriso.
Il suo problema dunque era creare qualcosa che non deludesse il regista, perché quando hai in testa delle canzoni così potenti sopra una scena, è difficile poi abituarsi a qualcos’altro senza la sensazione che manchi qualcosa: «Il film ha tanta musica, più della maggior parte degli altri film, e questo si nota, si sente. Quindi c’era bisogno di una colonna sonora che facesse sentire qualcosa, non solo per riempire i silenzi. Credo che con Valerio e Daniele ci siamo riusciti». Mi viene spontaneo chiedergli com’è scrivere per qualcosa che già esiste, che nasce dall’ispirazione di qualcun altro. Così torniamo a parlare del suo rapporto con il cinema, di come ha sempre scritto canzoni immaginandosi un film. Per Marco è naturale che le due cose coincidano, le sue canzoni e la sua scrittura, ci confessa, nascono per immagini: «Le mie canzoni sono delle mini sceneggiature, cerco di raccontare una scena, qualcosa di vivo, qualcosa che mi immagino davanti agli occhi».
Prima di lasciarlo ai suoi impegni, gli chiedo un accenno sulla citazione che dà il la alla canzone Ovunque tu sarai, quel Famme resta’ co’ te, sinnò me moro che ci riporta alla mente Gabriella Ferri e una Roma che ci manca anche se non l’abbiamo vissuta. Quella canzone, mi spiega, l’ha sempre amata, si sente molto coinvolto da quel testo, dalle possibilità di comunicazione che solo il dialetto può dargli: «Credo che il dialetto abbia una capacità di sintesi, un’empatia, una capacità di trasmettere sensazioni che manca all’italiano. Se io dico Sinnò me moro tu capisci subito la situazione, con l’italiano avrei bisogno di articolare frasi molto più lunghe». Marco è un fan del romano “nobile”, quello che non è forzato e che non è volgare, ma che fa parte della tradizione italiana profonda e antica dei dialetti, una tradizione che dovrebbe unire il paese invece di dividerlo.
Nei concerti dell’Orchestraccia, ricorda infine, la band ha spesso accostato sonetti di Belli a versi di Sciascia, di Pavese e Trilussa, cercando di dimostrare come l’Italia sia in realtà corta e indivisibile, e che certi temi e alcune “sensibilità” l’abbiano attraversata interamente, anche grazie all’espressione dialettale capace di raccontare bene qualunque emozione, a Nord come a Sud.