La primavera è un ricordo che si fa lontano in questi primi accenni di autunno e piogge pomeridiane. C’è una cosa però che ci riporta fuori stagione, ad accettare con più armonia l’incedere del freddo e dei giorni corti, c’è un evento che di solito è un anticipo d’estate ma quest’anno si trasforma in enclave di primavera. Ovviamente si tratta dello Spring Attitude, il festival romano per eccellenza, un gioiello gentilmente offerto dai ragazzi di L-ektrica e i loro sforzi, anno dopo anno. Quest’edizione vede l’architettura industriale dell’Ex Dogana di Scalo San Lorenzo prestarsi al gioco, nell’imbroglio di ombre e luci che confondono le tre sale con altrettanti palchi e scalette diverse.
Fuori pioviccica, dentro sembra estate, l’Ex Dogana si va riempiendo e lo stage dedicato alle creature tricolori ribolle, attirando su di sé tutte le attenzioni del venerdì sera. Giovani e meno giovani teste attendono solo l’ingresso di Gemello, tra le colonne di cemento armato e le vele sponsorizzate Molinari che ondeggiano nell’aria. Quando le luci cambiano colore e finalmente giunge il momento di affacciarsi sul palco però non sale da solo, lo fa accompagnato da un viso familiare, tale Silvano in arte Coez, ad aumentare a sorpresa l’hype su un festival, su una serata e su un’esibizione che già si preannunciavano scoppiettanti.
E allora “Su le mani, Roma” gridano saltando sul palco, qualche parola con accento marcato, un ringraziamento, un saluto agli smartphone ed alle birre levate al cielo. Prima che parta la festa, l’approdo è subito con le canzoni fatte in due, i ritornelli condivisi, le tracce più “cantabili”. Per questo è utile Coez, a coinvolgere e scaldare un pubblico già bollente, ma soprattutto a stemperare il fuoco sacro di Andrea, immediatamente riconoscibile quando incolla le labbra sul microfono e squarcia l’aria di grinta e parole, una pioggia di parole su tutti i presenti.
Basta poco, parte “Testa Uragano”, prima del violento Gemello c’è un morbido Coez, come un Michael Bublè sotto effetto che nasconde i tagli, a raccontare nel ritornello la stessa percezione di tutti, quel desiderio di andare via, la sensazione di essere soli in un mondo che esplode. Proprio quel rapporto con il mondo che ritorna in tutti i testi del rapper introverso, quell’assordante silenzio del mondo che schiaccia tutti, il freddo delle relazioni umane e una vita a cercare di scaldarsi. Stesso registro quando la traccia si trasforma in “Taciturnal”, presente nell’ultimo album di Coez, tra una citazione dei “Sottotono” e un paio di Nike, quella domanda che ritorna sotto altre forme, noi dove andremo? Continueremo a bruciare semafori, a cercarci nel buio intermittente delle strobo, il fumo del mattino, e ci ritroveremo sempre col cappuccio In The Panchine.
A ricordare tempi gloriosi di gioventù e sana pazzia, di genialità e incoscienza, di un mondo parallelo che ha segnato tutto e ritorna quando Silvano lascia la scena e Gemello fa felici i ragazzi più cresciuti che si annidano tra la folla, quel seme Old School che ora grida in risposta ad ogni strofa di Deadly Combination, dove tutto è ancora presente, tutto è ancora vivido, l’inglese e l’italiano mischiati così perfettamente male, le droghe, i parchetti, l’amicizia, da Parioli a Torre Maura, dentro l’hip hop, il cinema di Luis Bunuel e i b-movie, l’America e gli sprazzi di cultura generale, dalla strada a Kobe Bryant.
Gemello salta, zompetta, piroetta sul palco, stringendo il microfono come a volerlo distruggere, si agita convulso, si muove frenetico, schizofrenico, palpitante. Questo è Gemello con il suo esercito di parole, questa è la sua vocazione, un torrente senza argini che diventa una cascata di rime, un’esplosione di sillabe, di versi criptici, di cento concetti in una frase e cento frasi per un solo pensiero, come parlarsi addosso, come pensarci troppo, come tornare e ritornare e ripetere, come rivivere una scena, come riavvolgere il nastro mille volte e tornarci su e ritornarci ancora.
Gemello è così sul palco, Andrea è così nella vita, senza differenza, la stessa testa che frulla, che non si ferma, che è un’ebollizione di intelligenza e immaginazione. Così nelle sue canzoni come nei suoi quadri, milioni di vite condensate nell’ansia di uno spazio chiuso, di limiti, di delimitazioni, di un contenuto esagerato per schemi troppo stretti. Mille colori che si frantumano in mille pezzetti e si uniscono uni sugli altri a partorire qualcosa di nuovo, mille parole che giocano allo stesso gioco. Dentro quel corpo minuto non c’è abbastanza spazio, così fiorisce l’arte, e quando accade ci regala un’altra canzone di cui lui non sa che farne. Seduto a penzoloni sul mondo, prima saltare con le braccia in aria per non atterrare più, per andare ancora via, ma via dove? A chiederci come vorremmo che finisse tutto quanto, con un boom, uno splash o in un lampo?
Le foto sono una gentile concessione di Spring Attitude.