Cosmo è sul palco che salta, si sbraccia, fa avanti e indietro, gigioneggia sul mixer pizzicando le manopole colorate tra un balzo e uno strillo. La fronte suda, la gente canta. Suoni psichedelici si sprigionano dalle casse e vanno a sincrono con i faretti e i proiettori in fila, che dalle americane flagellano la folla con fendenti e lampi intermittenti.
L’aria calda di un giorno lungo. Il più lungo dell’anno. E l’estate che si è annunciata col sorgere dell’ultimo sole. Piazza Farnese vibra di suoni e pulsioni che generalmente non le appartengono e tutto ciò la rende ancora più bella.
Questa sera, questo angolo di Roma, sembra estorto da un’altra città, una piazza che di solito è bella e buia e silenziosa, oggi è viva e vitale, grazie ad un concerto all’improvviso, che aprono i La Femme e chiude uno straordinario Cosmo da Ivrea, di quasi Torino. Tutto in occasione della Festa della Musica, tradizione piacevolmente copiata e presa in prestito dai “franzosi”, che ci ospitano a casa nostra, di fronte all’Ambasciata di Francia, quel loro gioiello romano.
Qualche minuto di ritardo e la prima canzone parte con un riverbero irritante che mangiucchia le parole al microfono. Cosmo non si perde d’animo, allunga i tempi e mixa i ritardi insieme alla sua band, un altro cenno d’intesa con i tecnici e la serata prende la piega giusta e basta un attimo e una canzone in più a far dimenticare a tutti ogni possibile disguido.
Le canzoni de L’ultima festa si intervallano con quelle più datate di Disordine, ripescate dal lontano 2013. Per una sera il nostro esce fuori dalla dimensione del club, quella che più ama, quella che lo ha visto protagonista di un infinito tour denominato Succede l’impossibile che ha attraversato il 2016 come una Formula Uno tra i go-kart, riscrivendo un nuovo modo di intendere la musica elettronica in Italia, coniugandola finalmente con la felice tradizione cantautorale nostrana, che oggi più che mai sta vivendo una nuova giovinezza.
Sul palco il buon Marco canta che «tramonta un continente, ed io non sento niente» e questa è la sensazione che vivo quando da Campo de’ Fiori vedo la strada interdetta da folla, transenne e camionette, quando la perquisizione in piazza si fa normalità, come i mitra alle stazioni della metro. Tutti col sorriso ovviamente, ma con la fobia del terrorismo nascosta nella borsetta, tra l’accendino e il rossetto. Niente birra, neanche un paninaro a mezzi col Comune.
Per fortuna che c’è Cosmo e tutto passa in secondo piano, il suo repertorio sembra magico anche fuori dal buio angusto di quei locali invernali che ha cappottato lungo tutto lo stivale. La serie di pezzi in progressione mi ricordano quanto siano belli, veri e così maledettamente ben riusciti.
Come un nubifragio di buonumore le casse ci tempestano di suoni e parole e si inseguono Le voci, Dicembre, L’altro mondo, Cazzate, la meravigliosa Regata ’70, legandosi a tracce che andiamo a ripescare dal passato, come la già citata Continente, fino a Ho visto un Dio, Dedica ed Esistere; le mani a tempo seguono i battiti di ogni traccia, tutti saltano e sudano. Ballano anche i sanpietrini.
Le cose più rare non manca mai, insieme alla novità de La mia città e al solito gran finale, con L’ultima festa, che anche se non è neanche mezzanotte sembra quanto mai azzeccata.
Come sanno bene anche i ragazzi del Cinema America a San Cosimato, in questa città invecchiata e lamentosa l’amplificazione va spenta presto, la musica smorzata, e allora tutti cantano «via, è ora di andare via, iniziamo a guardarci male», anche il signore coi baffi che suda dietro di me; tutti si muovono a tempo, anche la signora in vestaglia che si affaccia da sopra al ristorante. «Eppure mi sento da Dio» ripete Marco sul palco, prima di salutare e ringraziare. Con grazia e senza troppo miele, con discrezione piemontese e calore romano. La piazza ricambia il saluto con un lungo applauso prima di svincolarsi in cerca di una birra rinfrescante, tra le transenne spostate a fatica, tra una bottiglia rotta e un turista ubriaco che ancora sta cercando da dove arrivi la musica.