Un lungo valzer solitario di 40.000 persone che si plasmano nei movimenti di un uomo solo e sudato. Il blasone paillettato di un cantante che ha smesso di essere emergente tanti di quegli anni fa da sembrare di un’altra epoca.
Lui tuttavia riesce ancora ad essere un volto nuovo, uno da attendere, da coccolare, da seguire come una fan idolatra, da apprezzare come un tecnico del settore, anche se lui è sempre più stempiato ed i suoi seguaci hanno smesso di essere teenager da un pezzo. Il sole fa fatica a spegnersi, nei giorni più lunghi dell’anno, in questo giugno mite e pigro, ma l’Olimpico è vestito a festa come solo nelle grandi occasioni, nelle notti di coppa e in quei concerti che hanno segnato epoche. Il grande stadio di Italia ’90 si colora come un arcobaleno nel cielo scuro di mille galassie, come un carnevale sotto la guerra.
Questo è stato Cesare Cremonini per tanto tempo, un lacrimogeno nell’aridità, un traghettatore per la musica Italiana degli ultimi vent’anni, ed è riuscito a sospingerla fino alle acque calme dove ora naviga placida, scorgendo nuove Itaca avvicinarsi, nei volti di tanti nuovi giovani artisti. Cesare Cremonini c’è stato e c’è ancora, in grande forma. Ed i motivi sono così tanti che non saprei quasi spiegarli e metterli in fila; i motivi sono umani, musicali, emozionali. Tutta una serie di perché per i quali non si poteva non venire a vedere.
E allora vieni a vedere perché, il perché lui c’è, in un’epoca senza mezze misure in cui la musica viene seguita o da fan invasati ed intrattabili oppure da un pubblico snob che non si esalta di niente, in un’epoca dove o emerge il nazional popolare oppure i palazzetti sono il massimo delle aspirazioni, in un’epoca in cui tutto viene ridimensionato dalla gogna pubblica che dalla piazza si è presa un’arena digitale molto più grande dell’immaginabile.
Vieni a vedere perché, perché Cesare Cremonini da Bologna è riuscito a ritagliarsi un posto tra i grandi, è riuscito a conquistarsi l’Olimpico con un percorso fatto di musica, esperimenti, sincerità ed un sorriso grande quanto il riflesso di centinaia di smartphone levati al cielo. Ci è riuscito senza essere derivativo, senza la smania del citazionismo lirico e musicale, creandosi uno spazio tutto suo, un pop magistrale che strizza l’occhio e si evolve sia dal cantautorato italiano che dai ritmi britannici, dalla poesia di Dalla alla verve di Luca Carboni, dal rock dell’idolo Freddie Mercury agli arrangiamenti di beatlesiana memoria, dai Synth anni ’80 all’elettronica moderna.
Sono venuto a vedere perché, senza il dubbio di un solo secondo. Lo schermo nero mi accoglie, una voce fugge tra le teste, senza il richiamo degli enormi led, senza il riverbero delle luci, un tramonto che scende lontano e una canzone che nasce dal nulla. I passi di Cesare, l’intro di «Cercando Camilla» ed una «Possibili scenari» che annunciano una grande serata. Due ore e mezza di musica che si rincorre tra i ricordi d’adolescenza fatti di rane e Vespe, attraversando traumi d’amore e notti passate a saltellare, lui sul palco come tutti noi sul prato e sulle tribune. Degli enormi monoliti alla Kubrick gigioneggiano sopra le teste della band, cambiando posizioni, geometrie e colori.
Ogni canzone è una corda sfilacciata nella memoria di una vita coltivata allo stesso ritmo. Quello di uno che ci sa fare, con le parole e con il suo corpo dinoccolato che si scompone sopra il lungo palco, dimostrando, se ce ne fosse stato ancora bisogno, quanto ci sappia stare, lì sopra, quanto sappia tenere la scena e accompagnarti lungo un percorso ben architettato, facendoti scivolare addosso una serata di belle canzoni ed un presagio d’estate entusiasmante.
Una sull’altra si intervallano le canzoni dei LunaPop, del primo Cesare Cremonini solista, fino all’autore maturo degli ultimi album, con i quali gioca con l’audacia e si fa spazio nella tradizione, tra ballate che non si dimenticano e pezzi intimisti, riservati, tra il vezzo di una poesia e la carezza ubriaca di una confessione notturna. Tutto si incastona in un’architettura solida che non distrae e non stufa, ti stanca solo un po’ la voce a forza di seguire un lungo coro senza soluzione di continuità.
Se da un lato manca l’intimità di un palazzetto caldo e avvolgente, d’altra parte non possiamo lamentarci, solo lasciarci travolgere dalle 40.000 voci unisone che salutano la serata al grido di «domani sarà un giorno migliore», ma una serata migliore di questa per Cesare sarà difficile da ripetere, ed anche per noi.