Al confine tra letteratura e giornalismo, tra narrazione e inchiesta, nel giro di pochi anni il true crime è diventato uno dei territori narrativi più interessanti della cultura pop contemporanea.
Secondo i dati dell’Osservatorio Agicom la cronaca nera è il tema più trattato dalle pagine social e dalle testate giornalistiche. Se da un lato consumiamo ossessivamente queste storie, dall’altro siamo stressati dai contenuti violenti che digeriamo senza elaborarli, vittime della compassion fatigue. Ma nel true crime invece li elaboriamo, lasciamo entrare il male e lo interroghiamo, lo osserviamo da una distanza di sicurezza mediato da altri. Non si è mai trattato di un genere uniforme, il tono poteva variare dal sensazionalista allo spirituale fino al didattico, ma nonostante i penny dreadful e i tascabili dalle copertine schizzate di sangue, l’ideatore riconosciuto del true crime è Truman Capote, autore di A sangue freddo (1966), il resoconto del quadruplice omicidio della famiglia Clutter nel Kansas del 1959. E pensare che per gli scrittori e i critici dell’epoca era uno scandalo che uno scrittore serio si dedicasse a un romanzo-verità, a quello che Norman Mailer definì un «fallimento dell’immaginazione». Tuttavia il true crime vero e proprio – che combina il racconto di un omicidio con la ricostruzione di tipo investigativo – nasce e si sviluppa con il giornalismo moderno e in parallelo con i progressi nell’ambito della scienza forense.
Con l’arrivo in televisione il genere raggiunge picchi mai visti prima, in Italia con Chi l’ha visto? o Storie maledette di Franca Leosini, virali anche sui social, per approdare poi sui nuovi media: podcast, videocast, docu-serie e serie tv. L’onda d’interesse parte tra il 2014 e il 2015 negli Stati Uniti con il podcast Serial della giornalista Sarah König e con la serie Making a Murderer di Netflix. Verso il 2017 arriva sui nuovi media italiani anche grazie al giornalista Pablo Trincia con il suo Veleno, il podcast sul caso dei “diavoli della Bassa modenese” e più di recente con Dove nessuno guarda – Il caso Elisa Claps prodotto da Chora Media per Sky e SkyTg24. Sono tanti i giornalisti e scrittori rinomati a essersi lanciati sulle piattaforme audio, come Stefano Nazzi, scrittore ideatore e voce indimenticabile di Indagini de Il Post e autore de Il volto del male (Mondadori, 2023). La passione per il genere ha attirato anche moltissimi creator su piattaforme come Youtube e Twitch, dove la più ascoltata (e vista) è Elisa De Marco, nota come Elisa True Crime. Non restano indietro le piattaforme VOD, con docufilm e docuserie incentrare su casi di crimine realmente accaduti in Italia, come Vatical Girl – La scomparsa di Emanuela Orlandi di Mark Lewis.
Ogni cultura ha le proprie storie di crimini e misteri irrisolti, così i contenuti rispettano perfettamente la formula glocal del successo targato Netflix, non a caso la piattaforma più attiva nella produzione e distribuzione di questo genere. Dopo tanti casi americani arrivano infatti anche quelli italiani come Marta – Il delitto della Sapienza, diretto da Simone Manetti, sulla studentessa di giurisprudenza uccisa il 9 maggio 1997. Il regista stesso ci ha raccontato la sua esperienza: «È un progetto che mi ha profondamente coinvolto sin dall’inizio. La vicenda affrontava temi complessi, portando con se un dibattito che non si è mai spento, nonostante i molti anni trascorsi dal fatto e dalla chiusura giuridica. Per me un aspetto fondamentale, non solo in questo documentario ma in tutti quelli che dirigo, è mantenere un approccio “atesico” alla narrazione. Questo significa che non prendo parte alla discussione ma cerco di riportare lo spettatore al tempo degli accadimenti per farglieli rivivere come furono vissuti all’epoca rispettando, chiaramente, la verità processuale». Secondo Manetti siamo ben lontani dall’aver raggiunto la saturazione dei contenuti: «Il true crime sembra godere di una popolarità duratura grazie alla sua intrinseca capacità di coinvolgere il pubblico con storie reali affascinanti. La diversità di sottogeneri e la continua evoluzione della narrazione contribuiscono a mantenerlo vivo».
Secondo il giornalista e autore Stefano Nazzi l’interesse per il true crime è sempre esistito: «Cerchiamo di capire e contestualizzare ciò che non capiamo, che ci appare lontano da noi ma ci accorgiamo fare invece parte del mondo. Riuscire a inquadrare un fatto orribile ci aiuta forse a sentirci più uniti e ad averne meno paura». Nel suo libro Il volto del male Nazzi ha trattato in modo analitico e mai banale molti casi di cronaca: «Il male ha molti volti, con un tratto che unisce: le persone che fanno male ad altre persone si sentono solitamente al di sopra degli altri, vedono loro stessi al centro di tutto, il resto dell’umanità è per loro senza valore». Per Elisa De Marco ci interessano «le ragioni che spingono persone “strutturalmente” uguali a noi a commettere delle azioni socialmente impensabili, orribili. La violenza domestica, le relazioni tossiche o abusanti sono questioni diffuse, ma di cui spesso si fa fatica a parlare. Credo che l’interesse nasca proprio lì, cerchiamo un modo per capire, per essere a nostra volta più consapevoli».
Il podcast si conferma uno degli strumenti più amati per gli amanti del true crime. Per Stefano Nazzi «consente di raccontare le storie coinvolgendo chi ascolta grazie alle musiche, al tono della voce, alle pause anche mentre fa altre cose».
Spesso l’attenzione del pubblico è del tutto focalizzata sulla persona che commette il crimine, soprattutto nel caso dei serial killer: ci si concentra sul loro passato, sul modus operandi e sul fascino che alcuni di loro hanno saputo esercitare durante le indagini e i processi. Non a caso uno dei rischi principali di chi tratta il genere come storyteller è la romanticizzazione del crimine e la mitizzazione dell’assassino, come è accaduto nel caso di Jeffrey Dahmer dopo la serie di Ryan Murphy per Netflix. Ma la vicenda del Cannibale di Milwaukee ha portato anche a una riflessione razziale, sull’impunità che gli è stata a lungo garantita dall’essere bianco e benestante. Analogamente al criminale per cui il mondo dell’intrattenimento ha sfiorato l’ossessione, Ted Bundy, interpretato tra gli altri da Zac Efron nel film Ted Bundy – Fascino criminale, che puntava l’accento su quanto il serial killer fosse di bell’aspetto.
Tutti i nostri intervistati non hanno dubbi, tra gli errori peggiori c’è il sensazionalismo, come spiega Stefano Nazzi: «Il racconto della cronaca è spesso spettacolarizzato, carico di giudizi e del tentativo artificiale di suscitare emozioni quando dovrebbe essere invece il fatto in sé, nella sua crudezza, a suscitare emozioni». Il sensazionalismo è un meccanismo di forzatura emotiva, concorda Simone Manetti, e prosegue la riflessione sulla pericolosità di questo approccio che «può sfociare nella “pornografia del dolore”, ovvero sfruttare il dolore delle vittime a fini di solo intrattenimento. Talvolta si può cadere nell’enfatizzazione del colpevole, trascurando le storie delle vittime. Per evitarlo, bisogna mantenere un approccio equilibrato, rispettoso e imparziale tramite una rigorosa ricerca dei fatti, il coinvolgimento delle vittime quando possibile e la presentazione delle storie in modo che il pubblico possa formarsi le proprie opinioni». Per queste ragioni la verifica dei fatti e il rispetto devono essere al centro del lavoro, spiega Elisa De Marco: «È importante tenere a mente che le storie che si raccontano non sono le nostre, e per questo vanno trattate con il massimo del rispetto e delicatezza. Tutti possiamo commettere degli sbagli nella ricerca delle informazioni, a me per prima è capitato, proprio per questo cerchiamo sempre di verificarle al massimo delle nostre possibilità». Anche Simone Manetti si è avvalso delle testimonianze delle persone coinvolte: «Ho sempre realizzato lavori nei quali erano presenti le varie parti chiamate in causa e insieme a loro ho costruito il racconto e la narrazione. Non ho mai preso un “dolore” per farne un film senza il permesso di chi l’ha provato e sperimentato sulla propria anima».
Ed è proprio il “come” l’aspetto cruciale in Only murders in the building, la fortunata serie targata Disney creata da John Hoffman e Steve Martin protagonista con Martin Short e Selena Gomez: i tre personaggi principali sembrano non avere niente in comune se non il fatto di abitare all’Arconia, un palazzo dell’Upper West Side di New York. Presto i tre scoprono di essere tutti fan di un podcast true crime All Is Not Ok in Oklahoma e il ritrovamento di un cadavere proprio all’Arconia dà il via alle indagini e li rende protagonisti del proprio podcast: Only murders in the building. Charles-Haden Savage (Steve Martin) a un certo punto dice «Ogni storia true crime è reale per qualcuno», sintetizzando l’approccio della serie, una comedy venata di mistero che intercetta con leggerezza e lucidità le problematiche insite in un fenomeno che da tempo attraversa in maniera trasversale il mondo dell’entertainment. Disney ha compiuto un passo ulteriore nell’evoluzione del true crime anche grazie alla nuova politica glocal, con nuove produzioni ancorate al territorio italiano, come nel caso di Avetrana – Qui non è Hollywood di Pippo Mezzapesa, coprodotto da Groenlandia e in uscita nei primi mesi del 2024. Infatti la richiesta – e quindi l’offerta – di contenuti cresce anche da noi: il primo novembre è arrivato Sky Crime, in collaborazione con A+E Networks Italia. Roberto Pisoni, Sky Entertainment Content and Channels Senior Director, spiega: «Il true crime è un genere in crescita costante che attrae un pubblico trasversale con podcast, programmi televisivi e serie documentarie di grande successo, perché da una parte rilegge episodi della memoria collettiva con testimonianze nuove, rivelazioni o semplicemente rimettendo in fila i fatti e dall’altra rianalizza i possibili errori nelle indagini o gli esiti giudiziari dubbi. Ci illude di poter trovare finalmente una soluzione per i casi irrisolti o evidentemente ambigui e talvolta lo fa davvero. E poi è un genere ibrido in cui sono ricostruiti e documentati fatti di cronaca reali ma che possono essere narrati con un’efficace dose di drammatizzazione».
In definitiva, superata l’indagine televisiva di bassa qualità, con l’evolversi dei contenitori e dell’attenzione al tema si è evoluto anche il contenuto e soprattutto sono cambiate le modalità con cui il true crime viene narrato, alzando di molto il valore di un prodotto che – con buona pace di una critica – si è fatto sofisticato. A tal punto da essere degno di analisi dai parte dei teorici dei new media, per cui il fascino della cronaca nera risiede anche nella capacità di mostrarci un male diffuso concentrato in un solo evento, mentre la violenza sistemica di solito fa meno notizia di un crimine efferato.
Come scrive Jonathan Gottschall ne L’istinto di narrare, se è vero che le storie ci aiutano a evadere dal quotidiano, le storie dell’orrore ci piacciono perché ci mettono di fronte a una serie di paure e pericoli che possiamo vivere a distanza di sicurezza. D’altro canto, la massificazione del fenomeno ha portato con sé anche un pubblico più vasto e variegato: che sia interesse per il macabro, curiosità, senso di verità e giustizia o un modo per imparare a cogliere i segnali di pericolo, la maggior parte dei fruitori trova nel true crime un effetto catartico. Secondo le statistiche il crescente interesse del pubblico femminile può essere letto proprio in quest’ottica, ma anche come desiderio di riappropriarsi delle storie in cui le donne sono sempre state oggetti e (quasi) mai soggetti.
Ed è così anche per l’occhio investigativo di Rebecca Makkai, da noi conosciuta per I grandi sognatori (Einaudi, 2021), romanzo finalista al premio Pulitzer, che nella sua nuova suspense novel I Have Some Questions for You (2023 – inedita in Italia) si confronta proprio con l’ossessione per il true crime. L’autrice riflette su alcuni temi etici, come il rischio di oggettivare le vittime soprattutto se sono giovani, bianche e carine. L’ultima riflessione non è nuova, ne ha scritto già Alice Bolin in Dead Girls: Essays on Surviving an American Obsession (2018), mettendo in luce il mito moderno del Dead Girl Show in cui un detective sviluppa il proprio personaggio grazie al sacrificio della vittima perfetta: una donna silente che si fa terreno neutrale e muto innesco della storia. Makkai nel suo romanzo ironizza su un gruppo di dipendenti dal true crime: la sua protagonista è diretta al suo ex college dove terrà un corso sul podcasting. Makkai sceglie un approccio grandangolare e si chiede: può il true crime essere etico? Arrivati alla pagina finale tutte le opzioni restano aperte. È il delitto perfetto, quello in cui alla fine è il lettore (o lo spettatore) ad avere in mano il coltello.