Gianluca Neri è uno dei fondatori di 42, la giovane società di produzione che è dietro al successo di SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano, la serie doc disponibile su Netflix che venticinque anni dopo la morte del fondatore e dominus della comunità, Vincenzo Muccioli, ha riacceso il dibattito fra innocentisti e colpevolisti.
Scritta da Gianluca Neri, Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli con la regia di Cosima Spender e il montaggio di Valerio Bonelli, SanPa si snoda attorno a una domanda scomoda: quanto male si è disposti a fare per fare del bene?, che è poi il dilemma centrale nella controversa vicenda che ha portato più volte Muccioli di fronte al tribunale con accuse di maltrattamento, sequestro di persona e favoreggiamento in omicidio.
SanPa è la prima produzione di 42, e avete subito fatto centro con Netflix…
A dire il vero non era la prima storia che abbiamo portato a Netflix: ci siamo presentati con un progetto sulla vicenda di Yara Gambirasio, ma era appena uscito un altro documentario sul tema e aveva poco senso. A Netflix tuttavia l’idea era piaciuta e ci ha chiesto se ne avevamo altre simili. Nel frattempo era uscito Wild Wild Country [la docuserie su Osho di Maclain e Chapman Way ndr], una delle cose più belle degli ultimi anni nell’abito dei documentari, e quindi ci è venuto naturale pensare di proporre SanPa. Se questa scelta è stata un po’ estemporanea, poi ci siamo dedicati al progetto anima e corpo per quasi due anni. Ma non abbiamo mai accantonato la serie su Yara, anzi, ci abbiamo lavorato a un livello di dettaglio tale che ci ha portato addirittura a trovare una prova che non era stata ancora presentata dagli inquirenti. Quella di Yara è una storia estremamente interessante: il focus non è tanto la colpevolezza o l’innocenza di un personaggio, ma cosa succede quando un Signor Nessuno è preso in un ingranaggio per il quale la magistratura deve dare un colpevole alla stampa e la stampa spinge per avere il nome di un colpevole e nuovi dettagli ogni giorno a scapito della vita di un’intera comunità. Diciamo che qui la tagline potrebbe essere: dove sei disposto ad arrivare pur di trovare un colpevole?
Torniamo a SanPa: 180 ore di interviste, 51 fonti di archivio per 5 capitoli da un’ora l’uno. La massa di materiali è imponente. Come vi siete orientati nella selezione?
La linea guida è stata la pratica, comune all’estero, di basarci solo su fonti verificate. In SanPa abbiamo incrociato tre tipi di fonti: gli atti giudiziari, le fonti giornalistiche del tempo e le testimonianze dei protagonisti. In questo modo ti rendi conto che alcune cose puoi raccontarle, altre, seppur a malincuore, le devi lasciare perché non puoi dimostrarle. Un metodo rigoroso che serve, naturalmente, anche per evitare cause.
Come si è svolto il processo di scrittura?
Il punto di partenza era adattare la storia ai canoni del racconto americano: la vicenda è reale, ma volevamo raccontarla con i mezzi e il pathos propri della fiction. Dopo aver individuato i momenti salienti della storia, abbiamo iniziato a visionare il materiale di archivio: ce n’era così tanto che abbiamo cominciato le interviste prima di vederlo tutto! Ma avevamo chiare le domande che volevamo fare a ciascun testimone, quindi siamo arrivati al montaggio con delle interviste molto centrate.
A proposito di testimoni, molti di loro sono diventati dei personaggi (Walter Delogu, Fabio Cantelli): come avete avuto tanta disponibilità da parte degli ex ospiti di San Patrignano?
Ci ha aiutato un ex ospite, Paolo Severi, che è rimasto in contatto con molti compagni di quegli anni. Ma da parte di tutti loro c’è stata subito molta disponibilità e un pizzico di incredulità, perché erano trent’anni che aspettavano che qualcuno raccontasse la loro storia. Da vittime, alla fine non ci credevano più: tante volte era arrivato questo o quel giornalista e poi il servizio si era perso chissà dove. In effetti penso che questa storia non avremmo potuto raccontarla dieci anni fa, perché sarebbe arrivata una telefonata e il progetto sarebbe finito. Il fatto che ci fosse dietro Netflix ci ha permesso di condurlo felicemente in porto. Devo dire che anche dall’altra parte, con persone come Andrea Muccioli e Red Ronnie, c’è stata molta collaborazione: si sono offerti sapendo che avremmo raccontato anche le ombre della comunità, ma hanno potuto dire quello che volevano senza tagli o mistificazioni.
E ora? Hai già ricordato il progetto su Yara, ma si intuisce che ci sono molte cose in pentola…
Dopo il successo di SanPa abbiamo buttato giù una lunghissima lista di idee del tipo “questo lo abbiamo sempre sognato ma non ce lo faranno fare mai, quest’altro non funzionerebbe, in Italia non siamo abituati, non siamo capaci, non siamo abbastanza bravi”… Ma dato che ci piace collaborare e siamo apertissimi allo scambio con altre case di produzione, stiamo valutando poche cose da far bene e con i partner giusti. Abbiamo un occhio di riguardo per le storie che tutti credono di conoscere ma che sono state raccontate solo in parte.
Parliamo anche di fiction? Preferibilmente serie o anche film?
Dipende, ci sono delle storie che non avrebbero senso altrimenti che come documentario (tipo SanPa), altre, di cui c’è poco archivio e sono più “innocue”, molto più adatte come fiction. È ad esempio il caso di un altro progetto meraviglioso per il quale siamo in fase di scrittura, tratto da un episodio della vita di Vittorio De Sica raccontato nel suo diario. Mentre lavorava – giovane e non ancora famoso ̵ a un film per conto del Vaticano, nella chiesa in cui girava (in zona dunque extraterritoriale) De Sica teneva nascosti ebrei e oppositori del fascismo, salvando loro la vita. Quanto poi al formato, anche qui dipende dalla natura delle storie: alcune te le immagini meglio proiettate in sala, altre in sei episodi visti sul divano. Così come non è detto che il documentario d’ora in poi debba essere sempre seriale, si tratta di una modalità narrativa che abbiamo importato dagli Stati Uniti che nel caso di SanPa abbiamo ritenuto fosse la più adatta.
I fatti vi hanno dato ragione, avete davvero fatto il botto: ve lo aspettavate?
Ce lo aspettavamo, ma non in questa misura: mi è capitato di entrare dal parrucchiere e sentir discutere di SanPa, senza che sapessero chi ero. Ci piace che la cosa abbia generato un dibattito prima ancora delle polemiche, perché il dibattito è sano. Ci hanno scritto tanti genitori ringraziandoci perché «è la prima volta che siamo riusciti a vedere qualcosa insieme ai nostri figli». Era una storia che andava raccontata anche per questo motivo, perché i grandi l’avevano lasciata in un cassetto della memoria e i più giovani oggi ci chiedono «perché non ci avete mai raccontato una cosa così?».
In effetti raccontate un mondo molto diverso dall’oggi, anche rispetto alle droghe.
I ragazzi oggi domandano stupiti «ma davvero ci si iniettava la droga con una siringa nel braccio?». Per noi cresciuti con i “tossici” abbandonati nei giardinetti sembra strana persino la domanda. Il problema c’è ancora, anche se le condizioni sono molto diverse: ma la legge di trent’anni fa è ancora vigente e il problema è stato messo sotto il tappeto senza risolverlo. Oggi c’è molta più gente di allora che usa droghe e sono droghe ancora più pericolose, ma il tema è scomparso dalla discussione politica e pubblica.
Quali sono stati i momenti più intensi nei due anni di lavoro a SanPa?
Senz’altro l’impatto con gli ex ospiti: era come se una parte della loro mente fosse rimasta ancora là a combattere i fantasmi del passato, pensavano di essere spiati, seguiti, quell’esperienza li ha segnati talmente che ancora oggi vivono nella paura e nella paranoia. E poi l’incontro con Fabio Cantelli, che è stato aggiunto all’ultimo. Ricordo che eravamo in trenta, spiaccicati contro la parete della camera d’albergo in cui lo intervistavamo per lasciare aria alla telecamera, e io gli ho fatto una domanda sulla sua prima esperienza con l’eroina: visto che in tanti ci cadevano doveva essere bellissima, anzi di più. Cantelli l’ha raccontata così bene che ci siamo interrogati a lungo se inserire quella descrizione e infine abbiamo deciso di metterne solo un pezzo: era così efficace che poteva suonare come un invito. Vedere un personaggio così centrale della comunità mettersi a nudo non solo davanti a noi, ma davanti agli spettatori, e concludere con semplicità che era vivo grazie a San Patrignano e nonostante San Patrignano è stata una grande emozione. Abbiamo subito capito che aveva un valore incredibile.
Alla fine del percorso avete cambiato idea su Muccioli? Quale giudizio vi siete fatti?
Ognuno di noi era partito da un’idea di Muccioli che girare il documentario ha sicuramente cambiato e smussato, abbiamo avuto modo di cogliere tante sfumature. Di fronte all’idea di legare qualcuno o chiuderlo in un tino per venti giorni tutti siamo dalla parte della legalità, ma davanti a una madre che proclama «per me mio figlio poteva anche inchiodarlo, meglio in comunità che in carcere» non puoi non provare empatia. Ci è capitato di essere dall’una e dall’altra parte. Forse è presuntuoso pensare di dare tutte le risposte, qualche volta la cosa migliore è riuscire a porre correttamente la domanda.
Non vi aiutato in questo caso il 42?
Aha! È vero, il nome della società di produzione è un riferimento alla Guida galattica per gli autostoppisti [il libro cult di Douglas Adams ndr]: 42 è la risposta che il supercomputer dà a tutte le domande fondamentali sulla vita e sull’universo. Era tanto che mi sembrava il nome giusto per qualcosa e l’ho utilizzato.
L’articolo è un’anticipazione dal prossimo numero di “Fabrique du Cinéma”, il 31, di prossima uscita.