Allora, sicuramente commetterò degli errori scrivendo questo articolo, ma come dice Nietzsche, l’importante è lo slancio vitale, l’energia sprigionata che provoca il pensiero, la riflessione. Una provocazione forse, nata dall’istinto del puer aeternus il cui spirito si muove nella verticalità come gli spruzzi di un geyser, creando impeto e smuovendo le coscienze.
In questo ultimo periodo sono usciti diversi articoli che spiegano come in Italia vengano prodotti troppi film e che tanti di questi film abbiano degli incassi risibili che non giustificano gli investimenti, soprattutto quelli dello Stato. È assolutamente vero. Ma a differenza di quello che dicono molti, la soluzione non è solo il taglio della produzione. Bisogna infatti spostare il fuoco del problema non sulla parte finale, l’incasso, ma su quella iniziale, ossia il sistema che ha generato questi film. Perché se non si analizza questo punto, difficilmente si riuscirà a trovare una soluzione che possa salvare la settima arte in Italia.
Il sistema che produce i film è al collasso, parliamo di una crisi di logica imprenditoriale, di coscienza e di identità. Se si pensa ai risultati del box office, sono veramente pochi i casi in cui dei film italiani hanno avuto successo, quando per successo s’intende quello commerciale e dunque la capacità di recuperare il costo del film e di generare un utile, meglio se questo possa poi permettere la produzione di altri film. Nel 2023, ad esempio, il box office italiano ha registrato un incremento del 62% rispetto al 2022, raggiungendo i 495 milioni di euro, ma gran parte di questo incremento non è dovuto ai pochi titoli italiani di punta come C’è ancora domani che ha incassato quasi 33 milioni di euro, ma ai blockbuster internazionali come Avatar: The Way of Water e Black Panther: Wakanda Forever, che hanno dominato le classifiche rappresentando più del 75% del box office.
Questo sistema che si muove con una base saldamente ancorata allo Stato, da cui attinge con finanziamenti automatici e selettivi, tax credit ecc., sembra aiutare esclusivamente i favoriti in partenza, le grandi produzioni, che pur non avendone bisogno possono ottenere fino al 50% del budget complessivo, a scapito dei piccoli produttori che spesso cercano di realizzare opere prime e seconde raschiando il barile. I contributi destinati a questi film sono infatti talmente bassi da scoraggiare anche i più avventurosi. Il lavoro è duro e bisogna comporre un puzzle difficile per un giovane o un indipendente, i cui tasselli economici sono composti da più elementi che assolutamente non sono facili da raggiungere. Un puzzle quasi impossibile quando le richieste superano a volte le disponibilità, quando i film sono troppi e i soldi per ogni film diventano contributi quasi invisibili. Basterebbe pensare che in Francia vengono prodotti meno film (meno di 300 film) che però incassano il doppio rispetto a quelli italiani (i film nazionali hanno guadagnato più di 160 milioni, quelli italiani circa 120 milioni a fronte di quasi 400 film prodotti e il box office francese totale nel 2022 è stato di 1,1 miliardi di euro ) e così ancora meglio la Germania (con “soli” 200 film e un incasso di più di 170 milioni delle opere nazionali e un box office totale di quasi 800 milioni). Questo dimostra la necessità di concentrare i finanziamenti su meno opere. Poche, ma buone.
Senza entrare nei dettagli tecnici, ma rimanendo in un quadro generale, il problema è che la maggior parte dei film ha budget che a malapena riescono a coprire le spese di produzione, figuriamoci la distribuzione e la promozione. Dunque, la maggior parte dei film arriva alla linea di partenza, l’uscita nelle sale, storpia, già stanca prima di iniziare la corsa e senza che nessuno se ne accorga. A volte senza neanche il ticket per partecipare alla maratona; ebbene sì, la maggior parte dei film riesce ad uscire a fatica. E a noi di Fabrique i film che più ci interessano sono le opere prime e seconde, i film d’autore indipendenti, quelli a cui insomma non frega niente a nessuno. Mi sono sempre chiesto perché le opere giudicate d’interesse culturale, non avessero le porte spalancate all’interno del mercato, garantendogli visibilità, promozione e distribuzione, elemento fondamentale oggi per essere notati. Mi sono sempre chiesto perché un film in cui lo Stato ha creduto finanziandolo non riesca ad arrivare al nastro di partenza con tutte le carte in regola per competere. E dunque c’è un problema di abbondanza di progetti che provoca una diluizione eccessiva del finanziamento che rende ancora più invisibili gli invisibili. L’Italia infatti è un paese d’invisibili e nonostante tanti autori e registi si facciano il mazzo per mettere in piedi un film, rimangono invisibili, perché uscendo – forse – nelle sale con 4-5 copie, racimolano qualche presenza fantasma e poi spariscono nell’oltretomba. Questo porta anche all’impossibilità di giudicare un progetto, che magari in partenza aveva buone potenzialità ma che a causa delle difficoltà economiche per costruirlo si sgonfia diventando mediocre o non pervenuto.
La domanda è perché? La risposta è che pare che nessuno voglia cambiare realmente il sistema. Mi ricordo quando un giorno ero andato a parlare di questo tema a una riunione di una importante associazione di autori, tutti preoccupati di come far guadagnare di più chi ha già tanto, chi già fa parte di quel closedspace di autori italiani affermati. Avevo spiegato le difficoltà dei giovani e degli outsider ad accedere al mercato dell’audiovisivo, ad essere considerati, ad essere distribuiti. Avevo proposto di creare un tavolo per discutere la questione; mi era stato risposto: «E poi chi ci parla con il Ministro?». Gli avevo detto: «Ci parlo io, che problema c’è?». E da lì la complessità, l’impossibilità, ricordandomi ovviamente di pagare la quota annuale. La verità è che degli invisibili, di chi sogna e lotta con merito per trovare posto nel cinema, non importa a nessuno. Il sistema attuale loda i pochi successi, nasconde i grandi insuccessi e censura i piccoli capolavori. È il Far West, produzioni che mettono in cantiere trilogie ottenendo flop uno dopo l’altro. Sceneggiatori e registi che hanno raggiunto la fama senza sapere per quale motivo, che continuano a lavorare senza che nessuno giudichi il loro lavoro e i loro insuccessi. Il flop viene fatto notare solo quando le opere sono proprio quelle degli invisibili, perché i visibili non possono ammettere la verità, ossia che i prodotti che sfornano sono mediocri, e che la mediocrità è il nuovo trend. Ma tanto si danno le pacche sulle spalle da soli, ai festival si lodano tra di loro dimenticandosi anche di chi – le maestranze – gli hanno permesso di raggiungere ambiti premi.
I David di Donatello sono stati scandalosi; ci si chiede ancora come mai, su centinaia di film presentati, solo una manciata ha ricevuto premi. Sorge il dubbio che monziamentilti film non siano stati nemmeno visionati. Qual è dunque la soluzione a questo stallo tendente al suicidio cinematografico di una nazione che nel dopoguerra fino agli anni ’70 era al top della cinematografia internazionale? L’unica soluzione è la rivoluzione. Una rivoluzione pacifica, ovviamente. Una rivoluzione delle coscienze e della struttura. In realtà basterebbe seguire la metafora del rasoio di Occam. Basterebbe guardare al di fuori di noi stessi e cercare nell’altro la trovata geniale, o se non si dovesse intercettare il genio, quella più funzionale. Francia, Germania e tanti altri paesi europei hanno un sistema cinema solido e prolifico. Come mai? Come mai non riusciamo a rubargli qualcosa? La Francia impone una tassa su tutti i biglietti dei film che finisce nel fondo gestito dallo Stato che ha l’unico scopo di promuovere la cultura e l’industria cinematografica del paese, la valorizzazione che passa attraverso una sinergia di contributi per produzione, distribuzione e promozione. Perché un film deve essere prodotto, distribuito e promosso per essere visto e generare incasso e, incredibile ma vero, recuperare magari parte dell’investimento. Un migliore impiego delle risorse che permette di valorizzare la cinematografia nazionale. Addirittura in Turchia (dove i film nazionali sono il 56% del box office totale) impongono una tassa sulla distribuzione dei film stranieri. Producono meno film evidentemente sono film di maggiore qualità e attrattiva.
E allora si possono fare dei sogni rivoluzionari. Si potrebbe sognare che lo Stato contribuisse economicamente in modo importante solo alle opere prime e seconde garantendone l’accesso alle tre fasi: produzione, distribuzione, promozione, selezionando un numero inferiore di film da finanziare e magari finanziandogli, esagero, il 100% del budget, creando dei progetti con importanti potenzialità. E come ci insegnano le regole di mercato, su un tot di film indipendenti che finanzi, bastano pochi successi per ripagare tutti gli altri, scoprire nuovi talenti e rinvigorire il settore. E così per concentrare più risorse su chi ha realmente bisogno di contributi, si potrebbe immaginare di togliere il finanziamento alle altre opere, lasciando solo quelli automatici basati sul merito, dunque sugli incassi e premi nazionali e internazionali. Si potrebbe pensare di tassare i film stranieri, che ormai sono gli unici che garantiscono incassi al box office, così da permettere a un film italiano di rimanere in sala per più di due giorni con più di due copie e possibilmente in un periodo in cui la gente va al cinema. E magari che un biglietto di un film italiano al cinema costi meno di quello di un blockbuster. E così si arriva al cinema, alla sala. La sala abbandonata a se stessa, la sala inesistente, un luogo ormai tetro in cui si entra e poi si esce. Pochi ci hanno fatto capire che la sala può e deve essere uno spazio culturale di interscambio immersivo, dove è piacevole incontrare persone e non lo spazio di una poltrona individuale. L’evento culturale, lo spazio culturale funziona sempre, ma ci vuole impegno nel gestirlo e allora anche qui, come fanno nei già citati paesi, ci può essere la rivoluzione di un aiuto concreto basato sui risultati che renda questi luoghi dimenticati dei meravigliosi spazi culturali dove, oltre che guardarlo, il cinema lo si racconta con intrecci significativi con le altre arti. Ma non solo la sala italiana, ma anche le sale europee, aiutando la circolazione dei film nel mercato internazionale.
Sarebbe la rivoluzione dell’invisibile, colui che ormai è costretto ad aspettare il proprio turno per sempre, colui che aspetta di essere scoperto, ma alla fine viene scartato per una storia tratta da un best seller, perché nessuno vuole più rischiare o forse nessuno sa più fare il proprio mestiere, e allora meglio andare sul sicuro, che poi anche quello non va, ma tanto nessuno lo verrà mai a sapere.