Wim Wenders – in me non c’è interesse che per il futuro

Fabrique Wenders Salgado

Al Festival di Roma per presentare il documentario Il sale della terra sul fotografo brasiliano Sebastião Salgado, firmato insieme al figlio Juliano Ribeiro Salgado, il cineasta del Cielo sopra Berlino ha incontrato il pubblico in un’affollatissima Master Class. Ecco integralmente la lezione di cinema di un maestro.

Mario Sesti: Il rapporto del suo cinema con la fotografia è di lunghissima data. Lei stesso è fotografo…

Wim Wenders: «Più invecchio e meno capisco il significato della fotografia. Tutto è reso più complesso dall’evoluzione della tecnologia digitale. Ma c’è un fenomeno che da sempre mi affascina: è come se in ogni fotografia vi fosse un controcampo incorporato, invisibile, ma riusciamo a percepirlo. E da quando ho incontrato le foto di Sebastião Salgado ho avvertito fortemente la presenza di questo controcampo. Per me era il controcampo di un’avventura, ma anche di qualcuno con grande rispetto e amore per il suo lavoro. Non riuscivo però a comprendere tutto ciò fino in fondo, a immaginare la persona che aveva prodotto queste opere, e dunque ho voluto incontrarla. Quindi per una volta ho deciso di sollevare questo velo invisibile e fare un film proprio su questo controcampo».

Sesti: Lei ha scritto che viaggio e fotografia sono intimamente legati: Salgado è un perfetto esempio di viaggiatore fotografo, che inoltre passa molto tempo nei luoghi che visita e ritrae…

Wenders: «L’aspetto del tempo è stato fondamentale per questo film, questa avventura. Inizialmente pensavo che in un paio di settimane avrei potuto completare le riprese, e sapere tutto di questo fotografo. Abbiamo cominciato con le interviste, ma mi sono subito reso conto che la sua opera si basava su un senso del tempo completamente diverso, e la profondità del suo lavoro era tale da non consentirmi di fare un film rapidamente. Avevo bisogno di tempo, come lui dedica molto tempo a ogni tema che sceglie, sparisce addirittura per mesi per arrivare a un grado di verità straordinario».

Sesti: Tornando al rapporto tra fotografia e cinema, guardando le foto di Salgado si ha l’impressione che siano prese da un film muto, sembrano immagini di Griffith, Murnau, Gance, Ėjzenštejn. C’è molto cinema in lui.

Wenders: «La prima volta che ho visto immagini della miniera d’oro, ho avuto precisamente l’impressione di trovarmi di fronte a un enorme set cinematografico: ma sapevo che era verità, non finzione. Il che mi ha fatto riflettere ancora sul tempo che quest’uomo ha passato in mezzo ai minatori, perché c’è una complicità evidente fra lui e loro. Vi racconto un episodio significativo. Quando Salgado è sceso per la prima volta giù nel buco con la sua fotocamera, ha sentito una forte ostilità nei suoi confronti: gli uomini non volevano essere visti, tantomento ripresi, tanto che lui ha pensato “non riuscirò mai ad avere buoni scatti”. Poi per qualche ragione è arrivata la polizia e l’ha arrestato di fronte a tutti. Così, una volta rilasciato, quando è tornato alla miniera gli uomini si sono fermati e hanno cominciato a battere con i piedi per terra in segno di approvazione: avevano capito che non era amico della polizia. Da quel momento ha potuto scattare liberamente qualsiasi tipo di foto, viveva con loro e si è instaurata la perfetta complicità che si vede nelle immagini. Ma l’osservazione che hai fatto è giusta: Salgado racconta questa storia come farebbe un regista, con inquadrature diverse. In ogni fotografia vediamo un frammento di tempo, e tutte insieme creano una serie che si avvicina in maniera impressionante a un film».

Sesti: Uno dei problemi che lei si è posto era come inserire Salgado nel film, e a un certo punto ha capito che il modo migliore era di riprenderlo e registrare le sue reazioni alle sue stesse fotografie. Ed è uno dei momenti più emozionanti del film, perché Salgado reagisce con una sensibilità palpitante e ci comunica quella sorta di tremore che ha nei confronti di ciò che ritiene angoscioso ma anche particolarmene importante da testimoniare.

Wenders: «Questo in realtà è un film che è stato girato due volte: la prima volta abbiamo filmato per diverse settimane, e poi mi sono reso conto che non poteva essere questo il mio film. Avevo deciso di adottare un’impostazione convenzionale, noi due seduti a un tavolo con due telecamere e una terza che riprendeva le foto. Ma quando Salgado si avvicinava per esaminare un’immagine, il carico emotivo diventava fortissimo perché ritrovava il momento in cui l’aveva scattata: poi si girava verso di me ed entrava in un diverso stato d’animo, vòlto a spiegarmi la foto. Una volta finito questo primo film, ero arrivato ad avere una vaga idea di che cosa era stato il suo percorso e la sua opera, e volevo vederlo più preso, più coinvolto, ciò che accadeva appunto quando scrutava non me o la cinepresa, ma le proprie foto. Così, quando poi abbiamo iniziato a girare il “secondo” film, abbiamo adottato un’altra tecnica: la camera oscura, più familiare a un fotografo. Lì dentro era solo, vedeva unicamente le sue foto, una dopo l’altra, non su carta, ma su quello che in televisione si chiama gobbo elettronico, una sorta di schermo semitrasparente dietro cui era collocata la cinepresa. Guardando gli scatti lui guardava direttamente nella cinepresa, verso di me, anche se non mi vedeva. Ed era proprio questa intimità che cercavo: gli ho fatto poche domande, dovevo solo lasciare che lui parlasse».

Sesti: Un’idea che lei ha espresso sovente è che il guardare implichi anche una posizione morale: è attraverso ciò che si guarda che si può essere dalla parte di chi soffre, di chi è stato condannato dalla storia, dall’economia, dalla politica. Guardare significa costruire un’intimità, anche se immaginaria, con ciò che si guarda. Ho l’impressione che questo sia il film in cui lei lavora più in profondità su quest’idea. E che Salgado ne sia una testimonianza strepitosa: si è nascosto in una parte della terra così lontana e diversa, perché era necessario per poterla “guardare”. Un’idea, questa dello spaesamento, che molto cinema contemporaneo condivide. Bertolucci ad esempio ha detto: “Vorrei arrivare bendato in un posto di cui non so niente e lì cominciare a filmare”.

Wenders: «Devo dire che anch’io ho il medesimo desiderio di sparire in un luogo di cui non so niente, in cui non ho punti di riferimento. Prima di diventare fotografo di professione Salgado era un economista, ma poiché non poteva rientrare in Brasile a causa della sua appartenenza politica di sinistra (erano gli anni della dittatura) ha voluto ritrovare parte della sua patria nei paesi del Sudamerica confinanti, appunto come fotografo, scomparendo per mesi e mesi. Ecco, questo rappresenta per me uno stato ideale sia per chi vuole fare cinema sia per chi vuole fare fotografia: abbandonare tutto e diventare ciò che noi vediamo, che vogliamo conoscere».

Sesti: Lei racconta con grande delicatezza anche le dinamiche particolari all’interno della famiglia Salgado: un padre che lascia tutto per il suo lavoro, una moglie che sacrifica il suo per stargli a fianco, un figlio che poi lo aiuterà (e che è co-regista del Sale della terra)…

Wenders: «Juliano è cresciuto con un padre assente per la maggior parte del tempo, e che quando c’era era ugualmente assorbito dal lavoro, aiutato da Leila, sua moglie e sua editor, la forza trainante della sua opera. Juliano praticamente non conosceva il padre e, una volta divenuto documentarista, ha deciso che la cosa più avventurosa da fare era compiere un viaggio con lui per scoprirlo. Abbiamo quindi lavorato assieme e per me la cosa è risultata molto stimolante, perché il suo punto di vista era per forza di cose diverso dal mio. Insieme abbiamo realizzato un film complesso e vero, più di quanto non sarebbe stato possibile –credo – individualmente».

Sesti: In questo film c’è qualcosa di sconvolgente. Da una parte fa esclamare allo spettatore: com’è possibile che ci sia tanta bellezza su questo pianeta? e dall’altra: com’è possibile che ci sia tanto dolore e povertà? Ho l’impressione che la grandezza di Salgado e del modo in cui lei lo ha raccontato sia proprio la capacità di tenere assieme due emozioni così diverse e profonde.

Wenders: «Nel corso della sua carriera Salgado è stato accusato spesso di fare fotografia in modo estetizzante: ne ho parlato con lui, ma ho deciso di non inserire questo colloquio nel film perché non volevo fare una sorta di meta-discussione sul suo lavoro, volevo solo mostrarlo. Però ero ben consapevole della questione, conoscevo il modo in cui si poneva nei confronti di persone che soffrono la fame, la fatica, le conseguenze della guerra. Io credo che piuttosto che parlare di foto belle, sia più appropriato parlare di foto giuste, perché in questo ambito la bellezza non c’entra. Sì, si può dire che ogni sua foto è ben fatta, corretta per l’inquadratura, senso del bianco e nero e così via: ma non era questo il suo scopo, cioè non era cercare la bellezza, ma la verità. Non c’è dubbio che si tratti di immagini bellissime, ma per me era il suo modo di mostrare rispetto per queste situazioni, la dignità di queste persone. Sarebbe assurdo vietare di rappresentare la morte, il dolore, e se c’è un modo giusto di farlo è farlo con dignità. Ecco, trovo che il dibattito fra bellezza e verità sia superato, quello che conta per me sono il rispetto e la dignità».

ALCUNE DOMANDE DEL PUBBLICO

Spettatore: La questione del tempo, centrale nella sua poetica, nella dinamica fra presente e passato, mi ha fatto pensare a Nick’s movie. Era consapevole di questo richiamo?

Wenders: «Devo premettere che non ho nessuna inclinazione nostalgica: in me non c’è alcun interesse se non nel futuro, come fotografo e come regista. Vivere il presente, pur sapendo che entrambi i mezzi hanno una lunga storia che influenza il modo in cui oggi li usiamo. Vedendo il film si potrebbe pensare che parli del passato, in realtà tratta del futuro, e del futuro dell’umanità».

Spettatore: Qualche anno fa da presidente dell’EFA lei sottolineò la diversità del cinema europeo da quello americano. È ancora così?

Wenders: «Nonostante i tanti cambiamenti tecnologici e politici la protezione della diversità esiste ancora. Esistono cinema nazionali, come quello italiano che è come una fenice che è risorta dalle sue ceneri, quello francese, tedesco, norvegese etc., ma tutti esistono grazie all’ombrello protettivo del cinema europeo. Senza la collaborazione e la solidarietà fra i paesi all’interno dell’Europa il nostro cinema non credo sarebbe sopravvissuto. E non è stato protetto il cinema tanto e solo come industria (come avviene negli USA), ma come cultura. Possiamo affermare che il cinema europeo ha bisogno di interagire con la cultura e viceversa».

Ringraziamo il Festival Internazionale del Film di Roma, Luca Ottocento e Dario Ceruti.