È quella, parafrasando il titolo di un suo film, di Silvio Soldini, che lavora da tempo fra documentario e finzione. E che agli esordienti consiglia «di trovare delle persone con cui creare una squadra, questo non è un mestiere che si fa da soli».
Mattina presto, al parco Solari di Milano. Il regista arriva con passo calmo, sorride e come prima cosa cerca una panchina con la giusta luce dove sederci per iniziare la nostra intervista.
Cosa ti ha spinto a fare cinema? Raccontaci il tuo esordio.
Ho iniziato andando al cinema. All’epoca avevo 17 anni e frequentavo la Cineteca di Milano. Mi sono iscritto a un’università come le altre, scienze politiche, perché non sapevo ancora bene che direzione prendere. Nel mondo del cinema non conoscevo nessuno. Poi ho vissuto due anni a New York, ho fatto una scuola lì, ospitato, per i primi tempi, da una lontana cugina che faceva la montatrice. Tornato in Italia ho capito subito che avevo due alternative: andare a Roma a cercare di convincere un produttore a finanziarmi un’opera prima – e non mi ci vedevo granché – oppure restare a Milano e costruire qualcosa qui. Ho scelto la seconda possibilità e insieme a Luca Bigazzi ho cominciato a sognare di fare cinema. I corti e i mediometraggi realizzati negli anni ’80 sono stati una grande palestra. Nel 1989, insieme a Roberto Tiraboschi, ho finalmente scritto la mia prima sceneggiatura e poi nel 1990 è uscito L’aria serena dell’ovest. In quel momento si è aperta la porta.
Esordire ieri e oggi. L’arrivo del digitale ha cambiato le cose?
La tecnologia è un’arma a doppio taglio, perché da una parte ti dà la possibilità di fare un film con molti meno soldi rispetto alla pellicola, però allo stesso tempo crea un’invasione di prodotti di qualsiasi tipo. Internet è intasato da film di ogni misura, è molto più difficile riuscire a farsi notare, oggi.
E allora cosa consiglieresti a un giovane regista o sceneggiatore?
Gli consiglierei di trovare delle persone con cui creare una squadra. E poi mettersi a lavorare, perché questo mestiere non lo puoi fare da solo, e lo impari facendo. Le scuole ti possono dare un’ottima base per cominciare, però poi è solo lavorando sul campo che puoi capire quali sono le tue debolezze, e quali i tuoi punti di forza. È fondamentale.
Cosa ne pensi del cinema giovane?
Io credo che in tante opere prime recenti, come in Cuori puri di Roberto De Paolis, ci sia una grande attenzione ai dettagli, alle psicologie dei personaggi e alla recitazione di tutti gli attori, cosa che non c’era nel cinema degli anni ’80, quando io ho iniziato. Trovo che in questi ultimi anni siano usciti tanti buoni film, soprattutto opere prime o seconde. Il problema è che poi la gente non va a vederli quanto dovrebbe.
I tuoi film, oltre che averli diretti, li hai sempre anche scritti. Come vivi questo doppio ruolo?
Non scrivo mai i miei film da solo, lavoro sempre con una o due persone. Doriana Leondeff è la coautrice dei miei ultimi otto film. Io credo che aver scritto un film che dovrai dirigere non potrà mai essere un limite, tutt’altro. Chi scrive la sceneggiatura ha una maggiore conoscenza di tante cose, sa perché un personaggio pronuncia una certa battuta, o compie una certa azione. Anche quando ho realizzato Brucio nel vento, che è tratto da un romanzo [Ieri, di Ágota Kristóf ndr], insieme a Doriana ho cercato di costruire la “mia” la storia, perché solo così potevo conoscere nel profondo la trama, i personaggi, le svolte, e fare delle scelte importanti sul film.
Documentario e finzione: come convivono nella tua filmografia?
Il documentario è un momento di raccolta, di conoscenza, di scoperta. È un viaggio in un mondo sconosciuto. Nel mio cinema documentario c’è una forte tendenza a lasciare le cose al loro posto, a non stravolgerle, a non disturbare quello che avviene davanti alla camera, nei limiti del possibile. Si tratta di trovare un’intimità con la materia con cui sei a contatto, in cui ti immergi. Farsi più invisibile possibile e soprattutto ascoltare. Nella finzione accade proprio l’opposto: sei tu a dover creare un mondo. Che sia il mondo surreale di Agata e la tempesta o quello realistico di Cosa voglio di più, si tratta sempre di mondi che non esistono, che sono tutti da inventare. Mi piace passare da un genere all’altro, perché da uno attingo e poi nell’altro ricreo. Il documentario ti aiuta, nella finzione, a rendere il più verosimile possibile una storia, perché lo spettatore ci deve credere, al cinema. Le psicologie dei personaggi sono importantissime, bisogna sempre scavare dietro ogni minima cosa, a volte anche dietro il più piccolo gesto.
I tuoi personaggi, infatti, sono sempre molto approfonditi. Che tipo di lavoro c’è dietro?
Inizia nella fase di scrittura e si affina dopo, con gli attori. Quello è il momento in cui un personaggio prende vita. Lavorando con gli interpreti si capiscono tante cose, si mette a fuoco qualcosa di quasi invisibile che è però quello che secondo me crea, nello spettatore, una profonda vicinanza e intimità con loro. Questo riguarda anche i personaggi secondari. In tanti film accade che quando si entra in un bar, il barista non è un barista. Io cerco di stare sempre molto attento ai dettagli. Anche un barista che vediamo per trenta secondi deve avere una sua personalità.
Che legame c’è fra il documentario Per altri occhi e il tuo ultimo film Il colore nascosto delle cose?
La realtà che avevo scoperto in Per altri occhi era troppo lontana da quella che conoscevo io, che per buona parte derivava da ciò che avevo appreso al cinema, perché i personaggi ciechi nei film sono rappresentati o in modo sempre drammatico oppure come dei supereroi. Io volevo provare a mettere in scena una storia molto normale, dove il personaggio di una donna cieca avesse una vita come quella degli altri. Questo mi premeva raccontare: una quotidianità in cui l’impossibilità di vedere è un elemento con cui Emma ha fatto pace e che anzi la spinge ad avere quasi più voglia di vivere e di prendere dalla vita tutto quello che può rispetto a una persona che non si trova nella sua condizione.
Com’ è il tuo rapporto con il pubblico e con la critica?
L’unico modo di avere un riscontro del pubblico è andare nei cinema a presentare il film. Lì si capisce davvero che cosa arriva dallo schermo alla sala. È sorprendente come, dopo la stessa scena, improvvisamente ridano tutti oppure, a soli 100 km di distanza, nessuno. Il pubblico è ciò che fa incassare il film, ciò che lo fa andare avanti, un film lo fai perché venga visto, non perché te lo vuoi tenere in un cassetto. Questo è un discorso delicato: quanto fai un film per il pubblico e quanto lo fai per raccontare una storia, un mondo. Io non riesco a pensare al pubblico quando giro un film, però sto attento e cerco sempre di capire se arriverà, se riuscirò a raccontare una certa cosa in un certo modo. Cerco di fare i film che come spettatore andrei a vedere. Per quanto riguarda la critica, ci sono due o tre critici di cui m’interessa davvero sapere cosa pensino [sorride sornione].
La Cineteca di Milano – dove per altro sono conservati tutti i tuoi film in 35 mm – va a fuoco. Quale film salveresti per primo?
Non ne ho idea! Con domande come questa ho sempre grossi problemi perché le prendo troppo seriamente. Forse salverei uno dei film che mi ha così emozionato e stupito che mi ha spinto a fare questo mestiere, uno dei primi film di Wim Wenders, Nel corso del tempo, oppure Pickpocket di Robert Bresson… che poi magari rivedendoli oggi direi: “Ma perché non ho salvato qualcos’altro!”.