Ride all’appellativo di “Monsieur Cannibal”, con cui firma anche una rubrica su una rivista, odia la sua foto di Wikipedia e sgrida i giovani cresciuti nella bambagia che si scandalizzano per un film, ma non per gli orrori che passano ogni giorno al telegiornale.
Teme di essere ricordato più per I ragazzi del muretto che per la sua trilogia sui cannibali, ma soprattutto detesta essere definito un regista horror. Parliamo di Ruggero Deodato, 76 anni e un nuovo film fresco di riprese. Si chiama Ballad in Blood ed è un noir realizzato tra gli studi romani della De Paolis, la rampa Prenestina e il Pozzo di San Patrizio a Orvieto, una storia ispirata a un noto episodio di cronaca nera con protagonista un gruppo di studenti Erasmus.
Come avrete capito, questo filmmamker di culto trasuda ancora tanta energia e passione per il suo mestiere, con cui ha ispirato nomi quali Tarantino e probabilmente buona parte dei found footage oggi tanto in voga nelle sale. Noi preferiamo però presentarvelo come un vero artigiano del cinema, impegnato in prima linea nelle riprese dei suoi film, a piedi nella jungla e in luoghi esotici dove pochi dei suoi colleghi più blasonati avrebbero osato addentrarsi.
Lo intervistiamo poco dopo il 36° anniversario dell’uscita di Cannibal Holocaust. Lo sappiamo perché Ruggero ci fa sentire il messaggio vocale di “auguri” che gli ha mandato uno dei suoi più grandi fan, Eli Roth. Se ve lo state chiedendo, non c’è assolutamente alcun rancore per quella faccenduola della trama di The Green Inferno che assomiglia troppo a quella di Ultimo Mondo Cannibale. Dopo l’iniziale disappunto del regista italiano, i due si sono più che riconciliati e si scambiano i messaggini di cui sopra.
Andiamo subito al punto: perché non ti piace essere definito un regista horror?
Sono anni che lo ripeto: non sono un regista horror, faccio film realistici. Anzi, odio i film horror e specialmente gli splatter. Anche i miei colleghi come Bava e Argento non mi hanno mai considerato un cultore del genere. Personalmente apprezzo solo quei film che fanno davvero paura come The Others e Shining, ma gli altri non li guardo proprio.
Qual è il tocco “alla Deodato”?
Metto sempre l’anima nei miei film, qualcosa che fa capire chiaramente che li ho girati io. Ad esempio in Un delitto poco comune ho mandato Donald Pleasence a urlare come un forsennato in mezzo a corso Vannucci a Perugia, in cerca dell’assassino, con la gente che non capiva cosa stesse succedendo. Il film ruota intorno alla progeria, una malattia rara che causa l’invecchiamento precoce e dunque il volto del killer cambia in continuazione rendendolo irriconoscibile. Il vero tocco alla Deodato però è la scena in cui c’è il malato, un vecchio-bambino, che dondola sull’altalena con il cigolio delle catene che rende tutto molto inquietante.
Anche una buona dose di avventura fa parte del tuo stile, almeno a giudicare dalle foto del set di Cannibal Holocaust.
Cannibal Holocaust è stato più semplice rispetto a Ultimo Mondo Cannibale, dove stavamo in una jungla malese che è molto peggio di quella amazzonica. Ma mi sono sempre divertito. Vedevo le foto di questi posti fantastici su National Geographic, scrivevo una storiella e andavo da un produttore: così sono nati i miei film sui cannibali. Una di quelle riviste ce l’ho ancora in buone condizioni, ma solo grazie a un mio fan tedesco che l’ha trovata e mi ha regalato la sua copia. La mia l’avevo portata con me durante le riprese e con tutta l’umidità che ha preso era praticamente da buttare. Nel ’75, quando ho cominciato a girare in quei posti, nessuno viaggiava e non potevano credere che esistessero indigeni che vivevano a quel modo. Loro invece erano proprio così, allo stato primitivo, ed era difficilissimo trovare il modo di comunicare perché non parlavano nessuna lingua e non capivano nemmeno i gesti. L’unica cosa che si poteva fare era un suono, una sorta di “gha gha” per farli muovere.
Hai girato questi film anche con un intento documentaristico?
No, direi piuttosto che mi piaceva Mondo Cane di Jacopetti. Era molto innovativo sia nella fotografia di un’Africa stupenda, sia nell’elemento di verità che aggiungeva alla storia. Ma lui era un delinquente, nel senso che se sapeva che ci sarebbe stata, che so, una fucilazione, faceva in modo che si organizzasse davanti alla macchina da presa. Pagava anche per decidere il luogo e l’orario in modo da avere l’ambientazione più scenografica. I film erano stupendi ma odiavo questo modo di mistificare la realtà per fare degli scoop: Cannibal Holocaust nasce proprio da questa repulsione. Era una denuncia, e finalmente l’hanno capito anche gli inglesi. Il film è uscito per la prima volta sul grande schermo solo due anni fa, mi hanno anche invitato per presenziare all’evento, a Londra. Tutto merito di un censore che si è accorto del valore di accusa del film e lo ha riabilitato, così finalmente non mi sono trovato davanti solo un pubblico di gotici coi tatuaggi e coi piercing. C’era perfino Vanessa Redgrave.
Come hai raccontato altre volte, il film è nato anche dalla rabbia contro la TV.
Sì, mio figlio all’epoca era piccolo e a un certo punto mi ha pregato di cambiare canale perché al TG c’erano troppi morti e gli facevano impressione. I miei film invece venivano censurati e tagliati, ci mancava poco che li bruciassero. Rispetto a Jacopetti ho anche girato in modo più “cialtrone”, senza teli e senza curare troppo la fotografia, ma anche perché volevo più verità. Una volta sviluppata la pellicola l’ho graffiata e sporcata proprio per aumentare questo effetto. Quando Sergio Leone ha visto il film mi ha avvertito: «La seconda parte è un capolavoro, ma passerai tanti guai». E infatti: quattro mesi con la condizionale… Mi hanno anche accusato di aver ucciso gli attori. In Spagna presero addirittura per vero un finto reportage della rivista Photo, fatto con le foto di scena, ma almeno quando si è saputo che era un falso il film è esploso ed è diventato un successo.
Al realismo nello stile corrispondeva però un reale impegno nelle riprese, nel mezzo di luoghi davvero selvaggi.
Abbiamo girato circa un mese nella jungla: la prima settimana mi volevano ammazzare tutti perché mi sono rifiutato di girare dove era previsto all’inizio, a Kuala Lumpur, dove avevano fatto il Sandokan di Sollima. Era un parco pieno di cartacce dove la gente andava a fare i picnic… A me serviva la jungla! Così siamo andati in un posto che si poteva raggiungere solo con sei ore di piroga. Ce li ho portati, anche il direttore della fotografia che era lo stesso di Sollima e che all’inizio voleva andarsene. Poi ci siamo abituati e ci siamo divertiti moltissimo.
Qualche aneddoto?
Ho sempre avuto troupe molto paurose, i romani poi sono tremendi, così di solito andavo avanti battendo le mani per scacciare i serpenti. Con le piogge alte i serpenti non ci sono, ma quando cala l’acqua se ne trovano tantissimi. Lamberto Bava, con cui siamo ancora amici, sul set di Ultimo Mondo Cannibale è stato morso proprio da uno dei serpenti che stavamo mettendo in una fossa per girare una scena. Anche se erano senza veleno non lo voleva fare nessuno, e così ho convinto Lamberto ad aiutarmi. Bisognava prenderli per la testa senza stringere troppo, ma lui deve essersi agitato un po’ e così un serpente lo ha morso sulla mano, allora lui l’ha strappato via e quello lo ha morso sull’altra. Sanguinava tantissimo: lo hanno dovuto portare in elicottero a Kuala Lumpur. La domenica con Stefano Rolla, aiuto regista, facevamo a gara a chi si staccava dalle caviglie più sanguisughe con le sigarette. Stefano era un avventuriero come me. È il regista che è morto in Iraq, nell’attentato di Nasṣiriya.
Ti infastidisce essere ricordato come Mr. Cannibal? O ti diverte?
A me diverte tutto. Non mi importa nemmeno quando mi insultano. Nella mia carriera ho variato così tanto che ce n’è per tutti i gusti. Se non ti piace Cannibal Holocaust puoi vedere Uomini si nasce poliziotti si muore. Se preferisci il genere fantastico c’è The Barbarians, se vuoi qualcosa da teenager vatti a vedere I ragazzi del muretto. Vuoi piangere? C’è L’ultimo sapore dell’aria, che è carinissimo. Quest’ultimo che ho fatto, Ballad in Blood, è un noir puro, seppur girato sempre con realismo… E con qualche tarantinata. Ho anche un altro progetto, di cui però non posso parlare, che se riuscirò a realizzare sarà qualcosa di completamente nuovo per me.