Il 4 giugno 1994 ci lasciava Massimo Troisi. La sua scomparsa prematura, a soli 41 anni, ha privato il mondo del cinema italiano di una delle sue personalità più brillanti e ha aperto un vuoto, ancora non colmato, nella cultura partenopea.
Troisi ci ha lasciato in eredità sei film come autore e regista, ed è stato protagonista di uno degli esordi più folgoranti del cinema italiano: Ricomincio da tre, infatti, uscito nelle sale nel 1981, incassò circa 15 miliardi di lire, rimanendo in programmazione per molti mesi. Parlare del cinema di Troisi è argomento vasto, ma sono due gli aspetti che credo sia necessario approfondire per provare a comprendere la traccia lasciataci dal grande autore napoletano: il periodo storico e l’identità culturale. Sul finire degli anni ’70 la produzione cinematografica italiana, che contava un cospicuo numero di film, si era accomodata, fatta eccezione per alcuni titoli firmati dai grandi autori o dall’autarchico Moretti, sui filoni poliziotteschi, spaghetti western-B e commedia erotica che avevano profondamente impoverito la qualità dell’offerta. Inoltre la paura e la violenza che contraddistingueva il periodo, gli “anni di piombo”, influenzavano negativamente il pubblico, che in mancanza di proposte cinematografiche valide disertava le sale.
La televisione aveva iniziato a essere prevalente nelle serate italiane e lì, proprio sul piccolo schermo, cominciarono ad apparire autori comici e satirici che mostravano i germogli di quella che sarebbe stata la generazione del nuovo panorama cinematografico italiano: fra cui Verdone, Benigni, Nuti e, appunto, Troisi. La Smorfia, il trio teatrale di cui Troisi era ispirato protagonista, irruppe in televisione nel 1979, nel programma Non stop, e fu immediatamente travolto da un favore incondizionato. La rappresentazione di una nuova forma di comicità napoletana, lontana dallo stereotipo della farsa, immersa nelle tematiche proprie degli anni ’70 e che impiegava una forte satira sociale accompagnata dall’uso del dialetto molto spinto da parte di Troisi e Lello Arena, fece subito breccia nel pubblico italiano, portando alla ribalta il fenomeno dell’affermazione di identità culturali regionali attraverso l’uso accentuato degli idiomi dialettali; come Troisi spingeva sul napoletano, così Benigni e i Giancattivi si esprimevano in toscano, Carlo Verdone usava il romano e Maurizio Nichetti era il portatore dello humor milanese.
L’esordio al cinema è, si è detto, Ricomincio da tre, un racconto di satira sociale che, pur parlando di temi comuni a tutto il paese, li estremizza e vivacizza attraverso la forza del dialetto, la lingua di provenienza del protagonista, diventando in questo modo ancora più incisivo. Troisi quindi scommette sulla sua lingua: la scelta è data dal voler affermare il suo pensiero utilizzando il dialetto napoletano, e non preoccupandosi che potesse essere incomprensibile in alcune regioni italiane. Era come se Massimo dicesse: “Se vi sta bbuono accussì mi seguite, sennò… pazienza”.
Il ritorno fu stupefacente: Troisi veniva compreso in tutta Italia, perché talmente denso era il suo pensiero da superare le barriere linguistiche del dialetto che, anzi, lo aiutava a dare forza al suo messaggio. Troisi descrive così il suo esasperato utilizzo del dialetto: «Era come una difesa, la precisa volontà di non farsi omologare, il bisogno di restare fedele a quello che avevo intenzione di dire». Quindi, caratteristica comune di questo movimento di rinnovamento del cinema italiano nei primi anni ’80, definito in modo superficiale “dei nuovi comici”, è la decisione di tornare al linguaggio base, semplice: si cerca l’essenzialità della forma per spostare tutte le energie sull’innovazione dei contenuti. Troisi resta fedele al napoletano “spinto” anche nel suo secondo lungometraggio Scusate il ritardo, in sala nel 1983, ben due anni dopo il successo straordinario dell’esordio. La sua scelta, precisa, di non cavalcare il successo immediato di Ricomincio da tre è altro esempio di qualità autoriale: non è importante, sull’onda del successo, fare, è anzi fondamentale fermarsi a pensare e decidere bene che cosa dire.
Forte del successo anche del secondo film, Troisi continua il suo percorso di crescita iniziando non solo a produrre film di altri registi (Camerini, Gasperini ecc.), ma anche contaminando il suo humus espressivo attraverso la ricerca di collaborazione con altri autori. Da questa sua ennesima prova di umiltà e genialità nasce il capolavoro comico Non ci resta che piangere, scritto e diretto insieme a Roberto Benigni che, ancora oggi, rappresenta uno dei più alti esempi di cinema comico degli ultimi cinquant’anni.
Massimo ora non ha più bisogno di difendersi, può permettersi di recitare in italiano, pur conservando la sua matrice napoletana, perché ha consolidato la sua idea di autore e il suo modo di raccontare la realtà. I suoi film più maturi, infatti, lasciano il dialetto sullo sfondo favorendo l’apertura a racconti più corali dove, ad esempio, si può permettere di parlare con accento napoletano, ma di avere un fratello (Marco Messeri) la cui calata è indiscutibilmente toscana (Le vie del Signore sono finite) – segno indelebile di un’ormai affermata identità di cineasta e interprete. E così per le prove di attore che ci regalerà con Ettore Scola fino al capolavoro conclusivo della sua breve carriera, Il postino, che è la perfetta quadratura di una ricerca stilistica per la quale non solo parte dal romanzo di un autore cileno (Skarmeta), ma affida la regia a un autore inglese (Radford) per affermare definitivamente che il suo viaggio identitario, partito dal dialetto, ormai è avviato verso la realizzazione di prodotti dichiaratamente internazionali.
Il viaggio di Massimo Troisi si arresta drammaticamente nel 1994. Sono passati ventiquattro anni: il cinema italiano è da tempo in crisi, purtroppo non c’è una cospicua produzione di titoli e l’unico “pseudogenere” che sfruttiamo è una stiracchiatura di commedia all’italiana piena di luoghi comuni e sberleffi che il pubblico si è stancato di seguire. Alcune note alte restano, pochissimi autori che rompono questo scenario con film dissonanti.
Sotterraneo, però, che si alimenta a fatica nel sottobosco di filmmaker e autori indipendenti, c’è un meraviglioso movimento – del quale credo che il Troisi produttore, che oggi avrebbe 65 anni, sarebbe stato tra i promotori – intento a dare nuovo impulso al cinema italiano. Oggi è più difficile, complice anche l’impero della serialità televisiva e gli schermi giganti “4K+Dolby UltraMegaStraSurround” che invadono le case degli italiani, ma non impossibile. Ritengo che l’industria del cinema debba solo ricominciare, come negli anni ’80, a investire su questo nuovo movimento, dando credito ai suoi coraggiosi autori e assecondandoli a perseguire la ricerca della propria identità.