Incontrare Lina Wertmuller non è certo una questione da poco. In primo luogo per la sua attività artistica dallo stile fortemente personale, come gli ormai celebri occhiali bianchi, e, poi, per quel carattere volitivo che, fuori e dentro il set, ha contribuito a costruire il mito di “un osso duro” da affrontare.
Il fatto è che Lina (87 anni vissuti tutti con passione), restia a raccontarsi e a celebrarsi, prova molto più interesse per le vicende altrui che per le proprie. Per questo motivo, dopo avermi accolto nella sua casa a pochi passi da Piazza del Popolo tra meravigliose lampade tiffany e sotto lo sguardo vigile del gatto Nerone, sembra preferire i miei racconti ai suoi ricordi. Eppure, nonostante tanta riservatezza, qualcuno è riuscito a guadagnare la sua fiducia, tanto da convincerla a consegnargli i momenti e le sensazioni più importanti di un’intera vita, professionale e non. Si tratta di Valerio Ruiz, giovane aiuto regista della Wertmuller, che ha firmato il documentario Dietro gli occhiali bianchi. Presentato all’ultimo festival di Venezia, questo docufilm rappresenta un viaggio nei luoghi che hanno caratterizzato la carriera della prima regista a ottenere una nomination agli Oscar per Pasqualino Settebellezze.
Così, dai primi passi cinematografici accanto a Fellini, che le insegnò il valore della leggerezza e del divertimento, passando poi per l’indimenticabile coppia Giannini/Melato, con la quale è stata “travolta da un’insolito destino”, Valerio ha cercato di tratteggiare il carattere e gli elementi fondamentali di un’icona dallo stile dissacrante.
Tuttavia, da parte sua Lina Wertmuller non si riconosce come maestra di cinema. Anzi, con uno sguardo tra lo scettico e il divertito, risponde: «Il segreto è sempre stato non crederci troppo».
Flora Carabella, moglie di Marcello Mastroianni, e Federico Fellini sembrano essere stati due presenze fondamentali nella sua vita, soprattutto per quanto riguarda i primi passi nel cinema. In che modo hanno contribuito alla sua formazione?
Flora è stata l’amica per eccellenza. Ci siamo conosciute sui banchi di scuola e a lei devo il mio avvicinamento al teatro e al cinema. Inoltre, insieme a Mastroianni, mi ha introdotto a Cinecittà facendomi conoscere Fellini, tanto che ho lavorato come suo aiuto regista in 8 e 1/2. Cosa dire di Federico, poi. Lui era la vita. Una meraviglia assoluta. Grazie a lui ho appreso un segreto fondamentale, ossia l’importanza di divertirmi sempre e comunque facendo cinema. Molte sono le storie legate a lui e che possono raccontare il suo modo completamente libero di lavorare, oltre che l’uomo. Una di queste riguarda l’affetto nato tra lui e una bambina su un set mentre stavamo lavorando in Piemonte, se non sbaglio. Federico stava girando Boccaccio ’70 e con lei nacque un legame fortissimo, che io e la madre guardavamo da lontano con grande stupore.
Ha mosso i suoi primi passi professionali in televisione con Gian Burrasca, poi ha frequentato il teatro leggero di Garinei e Giovannini, quello più impegnato di Giorgio De Lullo e, infine, è approdata al grande schermo. Tutte queste esperienze, questi diversi linguaggi, come hanno influenzato il suo modo di fare cinema?
Onestamente non lo so. Non ho mai fatto alcuna differenza. Per me l’intrattenimento e l’arte hanno un valore universale e non importa in che luogo si esprimono. La mia generazione ha avuto, però, un grande vantaggio, ossia quello di poter fare riferimento a dei grandi maestri, dei capifila da seguire e da cui imparare. C’erano Fellini, Monicelli, Visconti, che seguivamo con attenzione e passione. Oggi, invece, chi sono i punti di riferimento? Ce ne sono ancora? Questo, secondo me, è il grande problema delle nuove generazioni di registi. Oltre a dei produttori che non sembrano avere il coraggio di rischiare.
Lei è riuscita in un’impresa molto difficile. Pur non girando film di cassetta, le sue storie sono entrate nell’immaginario popolare. In sintesi ha fuso un cuore narrativo intelligente e colto con una forma diretta e facilmente riconoscibile dallo spettatore. Una strada che il cinema italiano attuale sembra non aver seguito.
E ha fatto male. In questo momento nel panorama del nostro cinema mi sembra di vedere un deserto. Apprezzo il lavoro di Matteo Garrone, mentre non amo particolarmente Paolo Sorrentino. Non ho visto La grande bellezza, ma credo che Roma, in particolare, non sia una materia adatta a lui e al suo cinema.
In anni in cui la commedia all’italiana aveva grande forza, lei si è ritagliata uno spazio del tutto personale utilizzando l’arma del grottesco. In che modo questa scelta ha definito il suo cinema? È un po’ come se avesse inventato un nuovo genere, la commedia grottesca alla Wertmuller.
Non so. In verità non mi sono mai soffermata a pensare quale fosse lo stile e la forma narrativa da impiegare. Più di una volta il mio cinema è stato definito grottesco, anche se non comprendo bene gli elementi che hanno portato a questo giudizio. Semplicemente ho fatto delle scelte. Ho scelto le storie e i personaggi che mi piacevano e mi divertivano. Lo stesso vale per lo stile, se così possiamo dire. Però non ho mai applicato delle definizioni al mio lavoro.
Il suo amore per il Sud è sempre presente. Lo troviamo nei luoghi, sicuramente nei personaggi e nel linguaggio. Per quanto riguarda il dialetto, poi, come ha lavorato per renderlo un elemento credibile e fondamentale del suo cinema?
Senza dubbio il Sud Italia è nel mio cuore. Al Nord credo di aver lavorato veramente poco. Ho girato una parte di Mimì Metallurgico, poi Tutto a posto e niente in ordine e Metalmeccanico e parrucchiera. Il bello dell’Italia è che ci sono molte culture e il loro incontro crea sempre magia. Il dialetto, poi, è fondamentale. Quando collaboravo con il Centro Sperimentale imponevo ai ragazzi di studiarne due, uno del Nord e uno del Sud. E lo fanno ancora oggi. Vedete, non è che gli italiani parlino l’italiano. Prima viene il proprio dialetto. Per questo motivo ho sempre avuto particolare attenzione per questo linguaggio e l’ho costruito per i miei personaggi con amore. Giannini, poi, è stato un interprete meraviglioso di questa lingua.
Il suo cinema, pur avendo questo cuore così regionale, è stato molto amato dal pubblico e dalla critica americani. Com’è il suo rapporto con i critici?
A me della critica non è mai importato nulla. Ho fatto i film che volevo. Questo è stato importante. Poi, il caso ha voluto che io sia stata molto amata da John Simon, all’epoca spietato critico cinematografico del New York Magazine. Era lo spauracchio di tutti i registi e le attrici. Le cronache delle serate mondane raccontavano dei piatti e bicchieri gettati in faccia a Simon dalle star che aveva criticato. Per questo motivo il suo amore assoluto per Pasqualino Settebellezze è risultato strano perfino al suo editore, tanto da pagargli la trasferta in Italia per venire a intervistarmi. Ricordo che suonò alla mia porta un pomeriggio ma io non lo volli incontrare. Ha provato altre volte, fino a quando è diventato molto amico di mio marito, Enrico Job.
Dopo che Pasqualino Settebellezze ricevette quattro nomination agli Oscar, i produttori americani le fecero una corte spietata. In momenti come quelli, come si resiste alle lusinghe del successo?
Quel periodo è stato intenso. Ero stata nominata come miglior regista dall’Academy e i cinema a Times Square proiettavano i miei film. L’America mi ha amato e io l’ho riamata con entusiasmo. Per quanto riguarda la pressione del successo, poi, è molto facile; basta non ascoltare. Anzi, meglio sarebbe non crederci troppo.