È il maestro riconosciuto del cinema civile, capace di estrarre dalla realtà un frammento che illumina un intero periodo, un ambiente, un personaggio storico. Davide Manca, giovane direttore della fotografia oltre che direttore editoriale di Fabrique e grande fan di Rosi, parla con lui della sua lezione di antiretorica e essenzialità, oggi più valida che mai.
Novant’anni e uno spirito arguto e penetrante. Nella sua casa al centro della Roma secentesca, con le finestre aperte su un ottobre mozzafiato che risuona delle grida dei gabbiani, Francesco Rosi sfoglia Fabrique, ci fa i complimenti per gli articoli, ci consiglia di non sacrificare i contenuti alle immagini: in ogni parola esprime un’attenzione inesausta alla concretezza delle cose, all’importanza di restituirne la complessità, che sia in un film o sulle pagine di una rivista.
Maestro, perché oggi i produttori non hanno il coraggio o la volontà di investire in storie diverse, come erano le sue di impegno sociale, di denuncia?
È vero, una volta dai produttori veniva l’impulso ad affrontare temi nuovi: il neorealismo è nato dalla rappresentazione di un’Italia che si rinnovava nella vita e nell’arte. Oggi forse non è più così, ed è difficile capire perché. Il cinema è una materia talmente vasta e mobile che trae ispirazione da qualsiasi cosa. Succede anche oggi solo che, perlomeno in Italia, regna la convinzione che unicamente il documentario riesca a rappresentare la realtà, e vedo che molti giovani autori sono tentati da questa idea: ma la semplice ripresa dell’esistente non basta, occorre cercare l’occasione (una sensazione, un’emozione, una battuta) per fare un discorso più ampio e motivato sul tempo che viviamo. In altre parole, non si deve confondere la semplice osservazione del reale (tradizionalmente propria del documentario) con il cinema del reale, che parte da uno spunto concreto, ma lo trascende e lo impiega per ricostruire una realtà di più vasto respiro. I grandi film sono riusciti a rappresentare realtà complesse partendo proprio da una piccola occasione.
È quello che è accaduto con Il momento della verità, ad esempio, la sua pellicola del 1965 sulla corrida…
Esattamente. E sai com’è nato? Ero un giorno all’Istituto Luce, e vedo per terra una meravigliosa scatola di legno pregiato. La apro, dentro c’è un obiettivo. Gianni di Venanzo [grande direttore della fotografia, ndr], che era con me, mi dice: «Questo è un 300, va bene per i documentari». E io, raggiante: «Ma è proprio quello che fa per me!». Il film che ricordavi è stato girato proprio con il proposito di mescolare una materia narrativa e uno stile documentario per raccontare un fenomeno complesso come la corrida, attraverso i suoi ambienti e personaggi. Raccontare per così dire il toro, non solamente il torero. È lo stesso metodo che ho applicato a proposito della realtà siciliana in Salvatore Giuliano e napoletana in Le mani sulla città. Tutti film narrativi in cui lo sguardo documentario è però preponderante. Solo in questo modo ero convinto di poter far capire a un pubblico vasto e non esperto come funzionavano questi mondi e i loro protagonisti.
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