Attenzione: astenersi dalla lettura se la vostra passione per il cinema non è indistruttibile. E non andate avanti nemmeno di una riga se fate parte di quelle persone che davanti a un quadro di Malevič si sono dette, alzando le spalle: «E allora? Questo lo potrei fare anche io».
Se invece amate irreversibilmente il cinema, e Kazimir Malevič non sapete chi sia, la lettura di questa intervista potrebbe rivelarsi molto utile. Perché un incontro con Peter Greenaway è più rivelatorio di una lezione di cinema. Più ricco di un manuale. Più formativo di un’accademia. Entrare nella testa del grande artista/pittore/regista inglese, celebre autore de I misteri del giardino di Compton House, Giochi nell’acqua e il più recente Goltzius and the Pelican Company, è propedeutico al solo pensiero di fare cinema.
O magari, perché no. Di non farlo affatto.
In concorso alla Berlinale con Eisenstein in Guanajuato – un incredibile film sui dieci giorni trascorsi dal cineasta russo Sergej Eisenstein in Messico, distribuito in Italia da Teodora – Greenaway ha accettato di raccontare a Fabrique la genesi del progetto. E le sue provocatorie riflessioni sul futuro dell’arte “più stupida del mondo”: il cinema.
Lei si è formato in una scuola d’arte. Le interessava solo la pittura?
Frequentare una scuola d’arte nell’Inghilterra degli anni Sessanta non significava necessariamente indirizzarsi verso una professione. Nella mia classe c’era gente come Mary Quant, la designer di Carnaby Street. Il chitarrista dei Rolling Stone. E il cantante Ian Dury, quello di Sex and Drugs and Rock’n Roll. Vai a una scuola di pittura e poi finisci per fare altro. In effetti è quello che dovrebbe fare ogni buona scuola d’arte.
Il cinema quando è arrivato?
A quei tempi bazzicavo il British Film Institute, dove si potevano vedere molti film gratuitamente, e incappai così per caso in Sciopero! di Eisenstein. Fu una folgorazione. Fare cinema senza conoscere Eisenstein è come studiare pittura senza sapere chi sia Leonardo Da Vinci. A fine anni ’80 ho girato un film, Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante, che i russi hanno adorato. Lo lessero, molto più degli inglesi, in chiave anticapitalista: il ministro della cultura, a quel tempo, mi disse che se avessi voluto girare un film in Russia mi avrebbero accolto a braccia aperte. Suppongo che adesso non sia più così. Specialmente dopo questo film.
Per questo film ha raccolto molto materiale: lettere, disegni, fotografie di Eisenstein. Perché non farne un documentario?
Avrei potuto. Ma io non amo i documentari. Tutti i documentari sono falsi. Sono bugie.
Il suo film non dice bugie?
Io racconto bugie in senso shakespeariano. Ne dico abbastanza perché tu sappia che io so che tu sai che io so che non ti sto raccontando la verità. Credo che questa sia la forma migliore per arrivare al vero, ammesso che la verità esista e sia raccontabile. Umberto Eco ha detto che tutti gli scrittori sono bugiardi.
Per esempio: nel film si parla dell’omosessualità di Eisenstein. Era vero?
Eisenstein ha tenuto una lunga corrispondenza con la sua segretaria in cui ammette di avere avuto una storia con un uomo. Ma non è un film sull’omosessualità, è un film sull’amore. Eros e Thanatos.
… amore e morte sono temi ricorrenti nei suoi film.
È inevitabile. Il momento in cui veniamo concepiti e quello in cui muoriamo sono gli istanti più importanti della nostra vita. Eppure non li possiamo ricordare. La nascita e la morte. Mi secca dirlo, ma dobbiamo morire tutti. Anche io e lei.
Disse di non voler vivere più di 80 anni. Ci ha ripensato?
Ne ho 72 e sono già vissuto due anni più di quanto mi aspettassi. Ma credo che quando compirò ottant’anni sceglierò l’eutanasia. Perché? Perché nessuno dopo gli ottant’anni ha fatto qualcosa di grande e memorabile. I suoi nonni sono vivi? Ultimamente hanno fatto qualcosa di straordinario? Io mi rendo conto che siamo qui, in vita, solo per un periodo di tempo limitato e legato alle nostre funzioni biologiche. Gli elefanti vivono quasi duecento anni, le farfalle un pomeriggio. Gli esseri umani sono nel mezzo.
Si chiede come verrà ricordato?
Mah. Credo che i miei sei nipoti un giorno si chiederanno: “Ma che diavolo è il cinema?”. Il cinema è un’arte destinata a morire. Gli esseri umani hanno sempre mostrato un grande interesse per le sensazioni legate all’audio-visivo: ogni civiltà ha sviluppato la propria tecnologia al riguardo. Pensiamo ai teatri dei greci, al Colosseo dei romani, a Pompei. Anche le chiese, per i cristiani, erano come dei teatri: luoghi dove compiere cerimonie e rituali, con musica, colori, emozioni. E poi venne l’opera, e infine il cinema. Sono certo che l’uomo troverà qualcosa di nuovo, dopo.
Per esempio?
Il 3d, forse. La realtà virtuale. O qualche impianto nel cervello. Ma sarà senz’altro qualcosa di artistico e molto più interessante del cinema. Il cinema è morto esattamente nel 1983, con la nascita del telecomando. Ogni tv oggi ha 500 canali con cui puoi interagire: io faccio un film, tu lo puoi interrompere, spezzare, ri-fare. Oggi, per parafrasare il cattolicesimo, abbiamo una nuova Trinità: il Padre è il cellulare, il Figlio il computer, lo Spirito Santo la videocamera. La Microsoft è diventata più potente della Chiesa. Non c’è spazio per il cinema in questo sistema.
Però lei continua a farlo, il cinema.
Lo faccio perché sono un vecchio fossile. Del resto i miei film non li vede nessuno. Gli unici posti dove vengono mostrati sono i festival. Penso che il cinema sia diventato stupido e noioso. E soprattutto non ha mai raggiunto quell’apice in cui speravano i pionieri degli anni Venti. Il cinema è stato una grande delusione. Oggi è solo un veicolo per raccontare storie che mandino a letto gli americani.
È per questa ragione che ha abbandonato il cinema narrativo?
Non sono mai stato un grande sostenitore della narrativa. Non credo che le storie esistano, o meglio che sia corretto raccontarle come fa il cinema. La storia è nella natura. Ognuno organizza in modo personale le esperienze che ha vissuto, per renderle raccontabili. La narrativa è fiction, è una comfort zone. Non è la verità.
Insomma: nessun futuro per il cinema?
No.
Un’idea per salvarlo?
Sparate agli sceneggiatori.
Ehi! Io sono una sceneggiatrice.
Mi dispiace, bisognerebbe sparare anche a lei. Mi spiego. Sa qual è il dipinto migliore al mondo? Un dipinto non figurativo. E questo perché il dipinto astratto non ha mai a che fare con un testo di riferimento. È un dipinto e basta. Il cinema invece è stato sepolto vivo sotto una quantità incredibile di testo. Impedirei a chiunque voglia fare cinema di toccare una videocamera, se prima non ha frequentato una scuola di pittura che gli insegni come funzionano i nostri occhi.
In che modo questa convinzione oggi si riflette nei suoi film?
Tutti i miei ultimi film sono fatti, soprattutto, di linguaggio. Il contenuto passa in secondo piano. La gente è confusa: si chiede dove sia la storia, chi sia la vittima e chi il cattivo. La cultura dominante di Hollywood ci ha insegnato a ragionare così. Ma i miei film non vogliono raccontare la realtà né aprire una finestra sul mondo: sono un processo artificiale. Io vi dò delle informazioni, voi fatene ciò che volete. Non cerco di manipolarvi attraverso il linguaggio. E se lo faccio, ve lo dico. Spero di non passare per arrogante se dico che al mondo non esiste un regista più onesto di me con il suo pubblico. Io voglio semplicemente che il lavoro lo facciate voi. Non giudico. Non manipolo. Amate e odiate chi vi pare.