Quattro volte premio Oscar
In esclusiva su Fabrique un’anticipazione della bellissima intervista che apre il libro di Aldo Tassone su tutti i film di Fellini, di prossima uscita per la Cineteca di Bologna: l’unico volume che, nel centenario della nascita, esamina uno a uno i 24 film del regista che ha vinto per ben quattro volte l’Oscar (per La strada, Le notti di Cabiria, 8 e 1/2, Amarcord).
Tassone-Fellini, un’amicizia lunga quarant’anni
Quello che ha legato per oltre quarant’anni lo storico del cinema Federico Fellini ad Aldo Tassone (direttore di un indimenticato festival del cinema francese a Firenze, France Cinéma, dal 1986 al 2008) è stato un rapporto di grande amicizia e un sodalizio professionale che negli anni ha condotto a numerose conversazioni in cui il Fellini, grande affabulatore, spiegava il suo cinema, non di rado depistando scherzosamente intervistatore e lettori.
[questionIcon]Si dice che Federico Fellini non vada quasi mai al cinema, e non rivedrebbe mai i suoi film.
[answerIcon]Quando un mio film è finito, ne esco come da una malattia. Rivederlo dopo anni mi sembra qualcosa di vagamente indecente, come riesumare appunto dei fatti patologici. Non so distinguere un film da un altro; per me, ho sempre girato lo stesso film. Si tratta di immagini, e solo di immagini, che ho realizzato usando i medesimi materiali, forse sollecitato di volta in volta da punti di vista diversi. Non è la memoria che domina i miei film. I miei film non sono autobiografici, questa è una classificazione sbrigativa: io mi sono quasi tutto inventato, un’infanzia, una personalità, nostalgie, sogni, ricordi, per il piacere di poterli raccontare. Nel senso dell’aneddoto, di autobiografico, nei miei film non c’è nulla. Quel che so è che ho voglia di raccontare. Raccontare mi sembra l’unico gioco che valga la pena di giocare.
[questionIcon]In una sequenza del suo film Roma, rispondendo sul set alla domanda capziosa di un giornalista lei dice: «Ciascuno deve fare solo ciò che gli è più congeniale».
[answerIcon]Mi pare che uno dovrebbe tentare di fare quello che sa fare, cosa ancora più importante, dovrebbe imparare a riconoscere in tempo che cos’è quello che sa fare. Ad esempio, io non saprei mai fare un film politico come li fanno ottimamente i fratelli Taviani, Rosi, Maselli, e quindi non mi ci provo nemmeno. Le idee generali, i sentimenti da barricata, l’abbandono rivoluzionario, possono anche commuovermi per un certo tratto, poi improvvisamente mi svuotano, mi disancorano, non capisco più. Allora mi ritiro, torno sul terreno che mi è più congeniale, quello di rappresentare magari una volta o l’altra anche una rivoluzione, la storia di una rivoluzione. Fallita. Che male c’è a stare a guardare e raccontare quello che si vede? Ma raccontare quello che si vede significa anche fare politica, oggi, dirà qualcuno. Certo, se per politica si intende solo sottolineare un episodio di malcostume politico o sociale, in questo senso io non faccio politica. Ma se per politica si intende la possibilità di vivere insieme, di operare in una società di individui che abbiano rispetto per se stessi e che sanno che la propria libertà finisce là dove comincia la libertà altrui, allora tutti i miei film sono politici in quanto parlano di queste cose; magari denunciandone esclusivamente l’assenza, rappresentando un mondo che ne è privo. Credo che tutti i miei film tentino di smascherare il pregiudizio, la retorica, lo schema, le forme aberranti di un certo tipo di educazione e del mondo che ha prodotto.
[questionIcon]Può succedere che un artista metta la stessa carica in un soggetto che non gli piace?
[answerIcon]Sì, certo. C’è solo bisogno di un pretesto per mettere in moto l’energia creativa. Superata la fase adolescenziale o della giovinezza, in cui sembri aver bisogno di tutto, di coincidenze, identificazioni, accensione ideologica, affermazioni autobiografiche, un motivo vale l’altro. Il pretesto più valido tutt’oggi per me è il contratto e l’anticipo. Sarei favorevole a una qualsiasi autorità statale o privata, come nel Quattrocento, quando un papa, un granduca, un viceré, chiamavano un pittore o un poeta e gli commissionavano l’opera, e se l’artista non l’eseguiva non gli davano da mangiare. Andando avanti con gli anni ho scoperto che se prima, per fare un film, il film mi doveva piacere, ora un film mi piace perché lo faccio.
[questionIcon]L’immagine, per lei, è protagonista assoluta. Lavora molto intensamente con l’operatore prima di iniziare a girare?
[answerIcon]Il cinema è immagine. L’immagine è fatta di luce. Quindi nel cinema la luce è tutto. Ideologia, sentimento, tono, colore, profondità, atmosfera, racconto, stile. Con un riflettore e un paio di “bandiere” il volto più opaco e inespressivo può diventare intelligente, misterioso, affascinante. La scenografia più elementare o rozzamente realizzata può con la luce rivelare prospettive insospettate e dare al racconto un’atmosfera sospesa, inquietante, oppure, spostando appena un cinquemila e accendendone un altro in controluce, ecco che ogni senso di angoscia scompare e tutto diventa sereno, amichevole, confortante. Il film si scrive con la luce, lo stile di un autore si esprime con la luce.
[questionIcon]La scelta degli attori è sicuramente un momento capitale. A proposito del suo cinema si parla troppo poco della sua capacità straordinaria di “dirigere” gli attori.
[answerIcon]Scelgo io anche la faccia dell’ultima comparsa, anche di quelle che stanno in mezzo a una folla e che non si vedranno nemmeno in proiezione. Ma come potrebbe essere diversamente? Eppoi, scusi, domanderebbe a un pittore se c’è qualcun altro oltre a lui che decide i colori di un suo dipinto? Non mi sono mai deciso alla scelta di un attore attratto dalla sua bravura, dalla sua capacità professionale; come non mi ha mai trattenuto dal prendere un non attore la sua inesperienza. Per i miei film vado in cerca di facce espressive, caratterizzate, che interessino, incuriosiscano, divertano subito, appena appaiono, e tendo a sottolineare con il trucco e il costume tutto ciò che può evidenziare la psicologia del tipo. Per scegliere non ho un sistema. La scelta dipende dalla faccia che ho davanti e da quel tanto che posso intuire o fantasticare su chi vedo per la prima volta. Mi capita anche di sbagliare, è ovvio, e di accorgermi alle prime inquadrature di avere sopravvalutato un volto, e che quella espressione che mi aveva colpito era del tutto casuale e ora il tipo non ce l’ha più, forse non l’aveva mai avuta, è proprio diverso… Che fare in questi casi? Be’, preferisco cambiare il personaggio della sceneggiatura piuttosto che obbligare il prescelto a entrare in panni non suoi. Il risultato per me è positivo. Ognuno ha la faccia che gli compete, non può averne un‘altra: e tutte le facce sono sempre giuste, la natura non sbaglia. Una risorsa per me, in questo campo, è osservare l’attore durante i momenti di pausa; a tavola, per esempio, quando cominciano le confidenze, i discorsi sulla politica; quando chiacchierano con i macchinisti. All’attore che deve dire all’amante o al suo torturatore: «È atroce passare un’altra notte come questa!» suggerisco: «Fai come quella volta che hai detto al cameriere: “Mi hai portato il riso scotto!”». Anzi a volte arrivo a far dire all’attore: «Mi hai portato il riso scotto!» anziché dichiarare che un’altra notte come quella è atroce. Al doppiaggio risistemo tutto, e la notte atroce torna al posto del riso scotto.
[questionIcon]Per fortuna Federico Fellini non sembra appartenere alla categoria dei “cervelloni armati” e nemmeno a quella degli “improvvisatori”, contrariamente a quanto si è a volta scritto.
[answerIcon]Quella di essere un “improvvisatore sul set” è una favola. Non si improvvisa mentre si gira, a parte qualche suggerimento e avvertimento marginale. La traduzione di una fantasia in termini plastici, corposi, fisici, è un’operazione delicata. Ora, il fascino maggiore di queste fantasie sta proprio nella loro non definizione. Definendole si perde inevitabilmente la dimensione sognata, lo smalto del mistero. Poi, quando giri, tutt’intorno c’è il pullulare di vita della troupe; e ci sei tu con le tue sollecitazioni private di simpatia o antipatia, e la noia, il fastidio, la stanchezza. Tutto ciò, se indubbiamente rappresenta un depauperamento, è a volte anche un arricchimento: in questa nuova vita nasce qualcosa di definito, di concreto, di permanente, qualcosa che è il film cosi come sarà visto anche dagli altri. Dal film che avevi in testa ne nasce un altro che è solo simile al primo, ma non è più quello. Per questa ragione non vorrei mai andare in proiezione a vedere ciò che ho girato. Perché a me sembra che, quando vai a vedere giorno dopo giorno il materiale girato, vedi un altro film, vedi cioè il film che stai facendo e che comunque non sarà mai identico a quello che volevi fare. E il film che volevi fare, avendo questo continuo termine di paragone nel film che stai realmente facendo, rischia di mutarsi, si affievolisce, può sparire. Questa cancellazione del film che volevi fare deve avvenire, sì, ma soltanto alla fine delle riprese, quando in proiezione accetterai il film che hai fatto e che è l’unico possibile; l’altro, quello che volevi fare, avrà avuto così soltanto una sua determinante funzione di stimolo, di suggerimento, e ora dinanzi alla realtà fotografata non lo ricordi nemmeno più, si è come scolorito, sta scomparendo. Perciò ritengo che sia assolutamente inutile e stupido parlare di un film prima di farlo, e anche parlarne dopo. Non se ne dovrebbe parlare mai: non c’è proprio niente da dire.
Leggi l’intervista completa sul numero 28 di “Fabrique du Cinema”