Icone Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 01 Sep 2021 08:03:57 +0000 it-IT hourly 1 Massimo Popolizio, “non chiamatemi Maestro” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/massimo-popolizio-non-chiamatemi-maestro/ Fri, 06 Aug 2021 10:40:05 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15919 Massimo Popolizio l’ho visto la prima volta a 15 anni in Mio fratello è figlio unico di Daniele Luchetti: è stato il primo film di cui ho scritto davvero, ragionando sulla forza che un ruolo da non protagonista può portare alla storia. L’ultima volta, invece, sono andata a guardarlo in scena all’Argentina con Un nemico […]

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Massimo Popolizio l’ho visto la prima volta a 15 anni in Mio fratello è figlio unico di Daniele Luchetti: è stato il primo film di cui ho scritto davvero, ragionando sulla forza che un ruolo da non protagonista può portare alla storia. L’ultima volta, invece, sono andata a guardarlo in scena all’Argentina con Un nemico del popolo. «Adesso sono allo Strehler, ci sono 34 gradi. Milano che sembra Africa». Sono quarant’anni che fa l’attore e a pensarci bene fa impressione, ma non chiamatelo Maestro.

Mi chiedo se questo mestiere ancora ti agita oppure se prendi un caffè e vai in scena.
Anche 75 caffè. Non esiste una regola per andare in scena, è solo la retorica degli attori. Però che te devo di’, io sono sempre più ansioso. Vado a letto presto anche quando faccio cinema. Per me è una vita quasi da atleti o da monaci, una vita di sacrifici. E l’ansia non va mica via, cresce con gli anni mentre diventi sempre più perfezionista. Quando sei ragazzo non ti accorgi di cosa stai facendo.

E tu da ragazzo hai fatto cose che noi umani non possiamo nemmeno immaginare.
Cose che oggi non si potrebbe neanche più pensare di fare. Oh, io ho fatto 35 spettacoli con Ronconi: so’ un sopravvissuto! Erano gli spettacoli europei e mondiali più grossi di quel momento, duravano anche 8 ore con 40 attori in scena, appesi a venti metri di altezza, immersi nell’acqua, sulle gru, di tutto.

Ronconi ti ha scelto mentre studiavi all’Accademia Silvio D’Amico?
Sì, sono entrato in Accademia ma mi sono fermato al secondo anno, quando Ronconi ha visto uno stage che abbiamo fatto e ha iniziato a chiamarmi. Da lì in poi ho lavorato con quasi tutti i registi viventi.

Come funzionava il teatro negli anni Ottanta? Ti cercavano loro, avevi un agente, facevi provini?
I tempi erano diversi. Oggi le compagnie sono formate da gente che fa l’Amleto dopo aver fatto il nulla. Sotto la lente d’ingrandimento della mia epoca, invece, ce ne finivano due o tre usciti dall’Accademia. Quindi eravamo noi ad essere richiesti in tutte le grandi produzioni, direttamente con la Melato, la Guarnieri, l’Orsini. Voglio sottolinearlo: Ronconi e gli altri che ho incontrato non avevano quel tipo di aurea intellettuale. Erano estremamente pratici. Il problema era che si lavorava tanto. E intendo provare una scena per ore, giorni, al massimo delle tue possibilità. Il ruolo da protagonista te lo dovevi guadagnare con disciplina, senza abbandonarti mai. «Io so’ attore, so’ il cinema e mo faccio come mi pare» non esisteva.

È vero che prima di iniziare a guadagnare vendevi pentole?
Vendevo pentole a vapore con un mio amico di scuola che ora viene sempre a trovarmi a teatro: «A Ma’, so’ quarant’anni che se conoscemo!». Ma ho venduto pure i profumi: eravamo quattro figli con uno stipendio solo. La prima cosa che dovevo fare era andare via da casa e rendermi indipendente, e la fortuna è stata intercettare un mondo artistico.

E invece al cinema volevi arrivarci?
No, non ci pensavo al cinema. Per me è sempre stato una possibilità di guadagno molto più forte del teatro, ma non c’è mai stato nulla che valesse la pena quanto il teatro. Le persone che io ho conosciuto in teatro mi hanno insegnato a vivere, cosa leggere, come vestirmi, come arredare casa, il gusto chic. Personaggi simili erano presenti anche in quel cinema che io ho sfiorato tramite Ronconi, come i fratelli Taviani, Rosi, Bertolucci. L’aristocrazia cinematografica e culturale.

«Ma io vengo dal teatro»: è diventato un cliché più che una garanzia. Me lo spieghi tu, che fai teatro davvero?
Quando avevo trent’anni io, mica lo potevo dire che facevo teatro. Meno che mai dovevo dire che lavoravo con Ronconi, se facevo un provino per il cinema. Era una bandiera d’espulsione, ci sono voluti vent’anni perché le cose cambiassero. Oggi Favino e Zingaretti possono dirlo, che vengono dal teatro. Ma prima nel cinema, dal teatro, non ce veniva nessuno.

Massimo Popolizio
Massimo Popolizio, foto di Stefano Cioffi.

Ma perché non vi volevano?
C’era questa credenza che non fossimo adatti a fare il cinema. «Teatro?» ti dicevano, «Nooo, esagerato!». Poi non è stato così, anzi, come vedi adesso è una stella da sfoggiare.

Tu come attore hai accusato il passaggio dal teatro al cinema?
Io non sapevo farlo il cinema, avevo paura della macchina da presa. Non concepivo che qualcuno mi guardasse da vicino, che un occhio mi spiasse più intimamente. Poi mi sono sbloccato, anche guardando gli altri. È sempre così, o te lo insegnano o lo rubi: è l’unico modo per recitare veramente.

Quale critiche ricevevi?
«Fai meno». E c’avevano ragione. Per esempio non avevo il controllo degli occhi in relazione alla macchina da presa. Non sono mai stato troppo fotogenico, mentre in scena so esattamente dove mi trovo nello spazio, come muoverlo, cosa sono, che mi sta succedendo. Lì il primo piano lo decido io, so io come attirare l’attenzione.

Dopo tutti questi anni, per te qual è la più grande differenza tra palco e set?
Fondamentalmente una: il teatro lo devi fare tutte le sere, sempre la stessa cosa. E ti deve andare di farla, in qualsiasi condizione sei. Hai bevuto, hai mangiato, non hai digerito, hai subìto un lutto, hai litigato. Tu devi andare in scena. E non sempre vicino casa tua, magari stai dormendo in un altro letto.

E quando hai una giornata storta?
Ci vai lo stesso. Anche quando è morto mio papà sono andato in scena. In situazioni estreme, decine di volte con la febbre. Non puoi abbandonare uno spettacolo, da te dipendono altre quaranta persone. Nel cinema sei sempre in mezzo a cento persone, sei contento, ti portano l’ombrello sul set, se hai bisogno di qualcosa arrivano tutti. Ma alla fine sei completamente solo.

Mio fratello è figlio unico è stato un film importante per te?
Quello è stato un ruolo importante e uno dei film più belli di Luchetti. Ho questo ricordo di Elio e Scamarcio che giocavano sul set, si rincorrevano, si azzuffavano ed era tutto molto spensierato. Quel cappello e certi modi del mio personaggio erano gli stessi di mio padre. Più vado avanti negli anni, più se faccio un padre penso al mio. Me lo dice sempre mia sorella e questo mi fa molto riflettere.

Il film di Luchetti ha rappresentato il tuo salto in serie A anche nel cinema, insieme a Romanzo criminale di Placido.
Michele veniva sempre a teatro, anche lui ha lavorato con Ronconi. Una sera siamo andati a mangiare in una trattoria a Prati. «Ammazza, c’hai le basette lunghe» mi ha detto lui, perché ero in scena con i Tradimenti di Pinter. «Ma puoi gira’? Sei a Roma? Domani?». Romanzo per me è nato così, e il cinema migliore è quello cotto e mangiato.

Tu sei uno dei pochi a cui è stato concesso, nell’arco di un paio d’anni, di saltare da un estremo all’altro: hai interpretato prima Falcone e poi Mussolini.
Sì, ma Mussolini non mi ha portato altro lavoro. C’è stato un periodo di blocco. Era un personaggio molto caratterizzante e contraddittorio, ma non abbastanza da smuovere tutta l’intellighenzia italiana. Non gliene fregava niente, insomma.

Parlando del tuo lavoro di doppiatore, una volta hai detto che la voce è come una lasagna. Bizzarro.
La voce è fatta di strati e di ciò che ti è successo nella vita: ogni strato è un’era diversa. Hai presente i piedi di un ballerino di cinquant’anni? Sono massacrati, bellissimi. Dal tono della voce capisci come sta una persona. La bella voce in sé? Non esiste davvero.

Sei con un piede in ogni settore dello spettacolo: teatro, cinema, televisione, doppiaggio. Qual è l’ambiente più competitivo?
Credo sia il cinema. Spesso non sei dentro un film solo perché sei bravo. Ci stai perché servi, hai vinto un Nastro, hai vinto un David, hai i soldi, fai parte di un pacchetto produttivo. Fanno finta tutti de volesse bene ma credo non sia così.

E in teatro si vogliono tutti bene?
Diciamo che l’osso attorno al quale tutti si azzannano è molto più esile. Ci sono meno soldi e quindi l’osso fa un po’ ridere. Tu puoi fare un protagonista pazzesco a teatro ma tanto non lo sa nessuno.

Tra l’altro tu hai vinto tre Nastri. A te importa dei premi?
Quando servono. E nel cinema servono perché aumenti la paga. Un premio fa sempre più piacere prenderlo che non prenderlo, sia chiaro, ma se vinci un David significa soprattutto che lavori per i prossimi cinque anni.

Adesso per i giovani sei un «maestro». Che rapporto hai con loro?
Per me l’età non è un passaporto. Oggi c’è il mito della giovinezza, «Noi giovani…». Come se tutto ciò che ha preceduto loro fosse da abbattere. Una volta, a una riunione di teatri importanti, un ragazzo battagliava: «Perché noi under 35…», e un altro s’è alzato e gli ha detto: «Oh, guarda che poi passa». Fra tre anni non sei più under 35. Parlare di barriere d’età nell’arte non ha senso. Io ho lavorato con Ronconi che era un padre, ma ho avuto tanti zii di tutte le età. Perciò quando insegno ai ragazzi glielo dico sempre: «Non siate rassegnati. Questo mestiere è una cura contro la depressione».

Ti immagini sul palco fino all’ultimo giorno della tua vita?
La morte mi ha sempre fatto paura. Quando sono mancati i miei genitori ho faticato ad andarli a trovare in ospedale, quando si ammalano i miei amici allontano l’idea il più possibile. Ma d’altronde chi fa l’attore lavora contro l’idea di morire. Non perché rimani in eterno su un video, ma perché hai sempre da fare e la cosa più importante a cui devi pensare è il tuo ruolo. Ma con le bruttezze devi farci i conti, prima o poi: con la vecchiaia, con i lutti, con gli amori finiti, con gli amori che iniziano. Tutto questo entra nel lavoro e rimani sgomento: «Ma cazzo, io finora ho fatto il teatro e il cinema, ero così contento». E invece la vita ti insegue e tu puoi solo dire: «Speriamo che ci sia un altro film che parte».

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La notte dei morti viventi: Romero e la nascita dell’horror socio-politico https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/la-notte-dei-morti-viventi-romero-e-la-nascita-dellhorror-socio-politico/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/la-notte-dei-morti-viventi-romero-e-la-nascita-dellhorror-socio-politico/#respond Thu, 02 Jul 2020 09:43:50 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=14205 Era il 1968 quando uscì nei cinema statunitensi La notte dei morti viventi, il primo capitolo della celebre saga che portò sullo schermo le inquietudini dell’America della guerra in Vietnam e delle profonde fratture sociali. In Italia arrivò solo due anni più tardi, nell’estate di cinquant’anni fa. Una delle saghe più importanti del cinema USA […]

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Era il 1968 quando uscì nei cinema statunitensi La notte dei morti viventi, il primo capitolo della celebre saga che portò sullo schermo le inquietudini dell’America della guerra in Vietnam e delle profonde fratture sociali. In Italia arrivò solo due anni più tardi, nell’estate di cinquant’anni fa.

Una delle saghe più importanti del cinema USA

Quella dei morti viventi di George Romero è una delle saghe più importanti della storia del cinema statunitense. Probabilmente la più coerente e solida per quanto riguarda lo statuto artistico, socio-antropologico e simbolico-metaforico. Da La notte dei morti viventi fino all’ultimo Survival of the Dead del 2009, passando per Zombie (1978), Il giorno degli zombi (1985), La terra dei morti viventi (2005) e Le cronache dei morti viventi (2007), ogni capitolo è essenziale e si differenzia per la proposizione di determinate tematiche e l’approfondimento della natura degli zombi, cadaveri che misteriosamente riprendono a vivere.

Non è mai dato sapere con certezza, in nessuno dei film, quale sia effettivamente la causa del ritorno alla vita dei morti. La scienza non è in grado di dare risposte certe e gli uomini, seguendo alla lettera l’espressione hobbesiana homo homini lupus, invece di aiutarsi vicendevolmente danno il più delle volte prova della loro innata tendenza all’egoismo, allo sfrenato individualismo, all’intolleranza e alla totale mancanza di lucida razionalità. Persino in situazioni di eccezionale emergenza, gli esseri umani non sono in grado di solidarizzare e di formare un fronte comune al fine della sopravvivenza della specie: è da questo punto focale che Romero irradia quel radicale pessimismo e quella totale sfiducia nei confronti dell’umanità che piuttosto esplicitamente sottendono tutta la saga dei morti viventi, al netto dell’inaspettata quanto efficace incursione nel registro comico-ironico di Survival of the Dead.

Il contesto sociale e politico

Romero gira La notte dei morti viventi nel 1967. Gli Stati Uniti sono un paese in pieno tumulto, le fratture sociali all’interno della popolazione americana sono profonde. Il conflitto bellico in Vietnam ha prodotto morte e devastazione e il movimento pacifista che si oppone alle atrocità e all’insensatezza della guerra è sempre più diffuso e strutturato. Il razzismo è molto radicato nonostante la nascita del Movimento per i diritti civili e nell’aprile del 1968 viene assassinato Martin Luther King, mentre sempre in questi anni riemergono gruppi violenti che si rifanno al Ku Klux Klan.

Il cineasta del Bronx riprende le tematiche degli zombi, già care a registi come Jacques Tourner (Ho camminato con uno zombie, 1943), ma modificandone l’impianto concettuale nelle fondamenta. Quello di Romero è infatti il primo audace tentativo cinematografico di costruire uno strutturato discorso socio-politico su un tema che, in precedenza, era stato visto soprattutto in contesti esotici e legati alla magia voodoo. L’idea iniziale deve molto, per stessa ammissione dell’autore, a Io sono leggenda di Richard Matheson (da cui poi nel 2007 è stato tratto l’omonimo blockbuster con protagonista Will Smith), un classico della letteratura fantastica del Novecento che narra di un mondo apocalittico in cui l’unico superstite a una misteriosa epidemia deve combattere gli altri abitanti del pianeta, trasformatisi tutti in vampiri.

la notte dei morti viventi
Un horror in bianco e nero

“La notte di morti viventi”, un horror atipico e innovativo

Girato in bianco e nero e con un budget di circa 114 mila dollari, il film rappresenta uno spartiacque essenziale nella storia del cinema horror. A partire dallo spaccato di banale quotidianità offerto dalla scena iniziale, Romero spazza via le convenzioni del genere con forza e convinzione sorprendenti.

Il film, ambientato quasi esclusivamente in una casa di campagna all’interno della quale i protagonisti cercano di difendersi dagli zombi, concede poco o nulla alle aspettative dello spettatore: Barbara, quella che sulla carta dovrebbe essere l’eroina, rimane perennemente in stato di shock; Ben, l’“eroe”, non solo è di colore, ma non prova alcuna attrazione per lei. Le altre coppie sono Harry e Helen Cooper, genitori di una giovane figlia che non si amano più (celebre è la caustica battuta della moglie al marito, che criticandolo per la decisione di chiudersi in cantina, gli dice: “Vivere insieme per noi non è una gioia, ma morire insieme non risolverà niente”) e due ragazzi, Tom e Judy, destinati ad una fine raccapricciante. Anziché cementare il gruppo, l’assedio fa emergere contrasti, debolezze, intolleranze. La violenza endemica e irrazionale scatenatasi all’esterno echeggia quella tutta umana che si consuma all’interno della casa e che culmina con il colpo di fucile con cui Ben ferisce Harry. Ed è proprio la scelta di Ben di restare al piano terreno invece di barricarsi in cantina che porterà i suoi compagni alla morte. Ben sarà quindi costretto a rifugiarsi in cantina, ma quando il mattino dopo uscirà dal nascondiglio, i soccorritori gli spareranno in fronte, scambiandolo per uno zombi: una conclusione beffarda che azzera ogni possibile happy ending o simbolica riconciliazione. La parabola dell’eroe, dunque, non è certo quella convenzionale, così come l’intero film si pone quanto più possibile al di fuori di ogni stereotipo.

La notte dei morti viventi getta un’ombra sinistra sull’America della fine degli anni Sessanta: la famiglia si è sgretolata (emblematicamente i Cooper vengono divorati dalla figlia trasformatasi in zombi), l’integrazione razziale è una mera utopia, la legge e l’ordine sono rappresentati da un gruppo di volontari che si fanno giustizia da soli, le immagini delle bande armate che pattugliano i campi, sparano e bruciano, evocano immediatamente lo spettro della guerra in Vietnam.

La regia e l’uso delle luci

Il primo capitolo della saga dei morti viventi è però anche un film molto interessante dal punto di vista registico e della messa in scena. La figura stilistica più ricorrente e significativa consiste nell’utilizzo sistematico della macchina da presa in posizioni più o meno oblique, nell’intento piuttosto esplicito di esprimere la precarietà della condizione dei protagonisti (e, di riflesso, di quella umana in generale) e il carattere inquietante e destabilizzante della assurda situazione in cui essi si trovano. Notevole è l’abilità nello sfruttare la povertà dei mezzi e in particolare il “ruvido” bianco e nero della pellicola: l’illuminazione sia negli interni che negli esterni ricorda l’espressionistico gioco di luci ed ombre di maestri quali Wiene (Il gabinetto del dottor Caligari, 1919), Murnau e Lang. La macchina da presa è spesso fissa e quando si muove lo fa il più delle volte in modo “classico”, con la precisa finalità di seguire gli avvenimenti e i movimenti dei personaggi. Il meno assiduo ricorso alla macchina a mano o a rapidi zoom (non di rado legati ad un punto di vista soggettivo) serve invece a sottolineare momenti narrativi particolarmente forti sotto l’aspetto emotivo e ha lo scopo di stimolare l’identificazione dello spettatore con il protagonista dell’azione.

Colmo di potenti e ancora attuali metafore socio-politiche, La notte dei morti viventi ha cambiato per sempre la concezione dell’horror aprendolo a orizzonti ben più ampi (nello stesso anno per la fantascienza fece qualcosa di simile Kubrick con 2001: Odissea nello spazio) e, al contempo, rappresenta una essenziale lezione di regia, che nel corso dei decenni ha ispirato molti registi dell’horror e non solo.

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Fellini: perché non possiamo fare a meno del suo genio https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/fellini-perche-non-possiamo-fare-a-meno-del-suo-genio/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/fellini-perche-non-possiamo-fare-a-meno-del-suo-genio/#respond Fri, 19 Jun 2020 13:31:05 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=14141 Quattro volte premio Oscar In esclusiva su Fabrique un’anticipazione della bellissima intervista che apre il libro di Aldo Tassone su tutti i film di Fellini, di prossima uscita per la Cineteca di Bologna: l’unico volume che, nel centenario della nascita, esamina uno a uno i 24 film del regista che ha vinto per ben quattro […]

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Quattro volte premio Oscar

In esclusiva su Fabrique un’anticipazione della bellissima intervista che apre il libro di Aldo Tassone su tutti i film di Fellini, di prossima uscita per la Cineteca di Bologna: l’unico volume che, nel centenario della nascita, esamina uno a uno i 24 film del regista che ha vinto per ben quattro volte l’Oscar (per La strada, Le notti di Cabiria, 8 e 1/2, Amarcord).

Tassone-Fellini, un’amicizia lunga quarant’anni

Quello che ha legato per oltre quarant’anni lo storico del cinema Federico Fellini ad Aldo Tassone (direttore di un indimenticato festival del cinema francese a Firenze, France Cinéma, dal 1986 al 2008) è stato un rapporto di grande amicizia e un sodalizio professionale che negli anni ha condotto a numerose conversazioni in cui il Fellini, grande affabulatore, spiegava il suo cinema, non di rado depistando scherzosamente intervistatore e lettori.

[questionIcon]Si dice che Federico Fellini non vada quasi mai al cinema, e non rivedrebbe mai i suoi film.

[answerIcon]Quando un mio film è finito, ne esco come da una malattia. Rivederlo dopo anni mi sembra qualcosa di vagamente indecente, come riesumare appunto dei fatti patologici. Non so distinguere un film da un altro; per me, ho sempre girato lo stesso film. Si tratta di immagini, e solo di immagini, che ho realizzato usando i medesimi materiali, forse sollecitato di volta in volta da punti di vista diversi. Non è la memoria che domina i miei film. I miei film non sono autobiografici, questa è una classificazione sbrigativa: io mi sono quasi tutto inventato, un’infanzia, una personalità, nostalgie, sogni, ricordi, per il piacere di poterli raccontare. Nel senso dell’aneddoto, di autobiografico, nei miei film non c’è nulla. Quel che so è che ho voglia di raccontare. Raccontare mi sembra l’unico gioco che valga la pena di giocare.

[questionIcon]In una sequenza del suo film Roma, rispondendo sul set alla domanda capziosa di un giornalista lei dice: «Ciascuno deve fare solo ciò che gli è più congeniale».

[answerIcon]Mi pare che uno dovrebbe tentare di fare quello che sa fare, cosa ancora più importante, dovrebbe imparare a riconoscere in tempo che cos’è quello che sa fare. Ad esempio, io non saprei mai fare un film politico come li fanno ottimamente i fratelli Taviani, Rosi, Maselli, e quindi non mi ci provo nemmeno. Le idee generali, i sentimenti da barricata, l’abbandono rivoluzionario, possono anche commuovermi per un certo tratto, poi improvvisamente mi svuotano, mi disancorano, non capisco più. Allora mi ritiro, torno sul terreno che mi è più congeniale, quello di rappresentare magari una volta o l’altra anche una rivoluzione, la storia di una rivoluzione. Fallita. Che male c’è a stare a guardare e raccontare quello che si vede? Ma raccontare quello che si vede significa anche fare politica, oggi, dirà qualcuno. Certo, se per politica si intende solo sottolineare un episodio di malcostume politico o sociale, in questo senso io non faccio politica. Ma se per politica si intende la possibilità di vivere insieme, di operare in una società di individui che abbiano rispetto per se stessi e che sanno che la propria libertà finisce là dove comincia la libertà altrui, allora tutti i miei film sono politici in quanto parlano di queste cose; magari denunciandone esclusivamente l’assenza, rappresentando un mondo che ne è privo. Credo che tutti i miei film tentino di smascherare il pregiudizio, la retorica, lo schema, le forme aberranti di un certo tipo di educazione e del mondo che ha prodotto.

Federico Fellini con Marcello Mastroianni
Federico Fellini con Marcello Mastroianni

[questionIcon]Può succedere che un artista metta la stessa carica in un soggetto che non gli piace?

[answerIcon]Sì, certo. C’è solo bisogno di un pretesto per mettere in moto l’energia creativa. Superata la fase adolescenziale o della giovinezza, in cui sembri aver bisogno di tutto, di coincidenze, identificazioni, accensione ideologica, affermazioni autobiografiche, un motivo vale l’altro. Il pretesto più valido tutt’oggi per me è il contratto e l’anticipo. Sarei favorevole a una qualsiasi autorità statale o privata, come nel Quattrocento, quando un papa, un granduca, un viceré, chiamavano un pittore o un poeta e gli commissionavano l’opera, e se l’artista non l’eseguiva non gli davano da mangiare. Andando avanti con gli anni ho scoperto che se prima, per fare un film, il film mi doveva piacere, ora un film mi piace perché lo faccio.

[questionIcon]L’immagine, per lei, è protagonista assoluta. Lavora molto intensamente con l’operatore prima di iniziare a girare?

[answerIcon]Il cinema è immagine. L’immagine è fatta di luce. Quindi nel cinema la luce è tutto. Ideologia, sentimento, tono, colore, profondità, atmosfera, racconto, stile. Con un riflettore e un paio di “bandiere” il volto più opaco e inespressivo può diventare intelligente, misterioso, affascinante. La scenografia più elementare o rozzamente realizzata può con la luce rivelare prospettive insospettate e dare al racconto un’atmosfera sospesa, inquietante, oppure, spostando appena un cinquemila e accendendone un altro in controluce, ecco che ogni senso di angoscia scompare e tutto diventa sereno, amichevole, confortante. Il film si scrive con la luce, lo stile di un autore si esprime con la luce.

[questionIcon]La scelta degli attori è sicuramente un momento capitale. A proposito del suo cinema si parla troppo poco della sua capacità straordinaria di “dirigere” gli attori.

[answerIcon]Scelgo io anche la faccia dell’ultima comparsa, anche di quelle che stanno in mezzo a una folla e che non si vedranno nemmeno in proiezione. Ma come potrebbe essere diversamente? Eppoi, scusi, domanderebbe a un pittore se c’è qualcun altro oltre a lui che decide i colori di un suo dipinto? Non mi sono mai deciso alla scelta di un attore attratto dalla sua bravura, dalla sua capacità professionale; come non mi ha mai trattenuto dal prendere un non attore la sua inesperienza. Per i miei film vado in cerca di facce espressive, caratterizzate, che interessino, incuriosiscano, divertano subito, appena appaiono, e tendo a sottolineare con il trucco e il costume tutto ciò che può evidenziare la psicologia del tipo. Per scegliere non ho un sistema. La scelta dipende dalla faccia che ho davanti e da quel tanto che posso intuire o fantasticare su chi vedo per la prima volta. Mi capita anche di sbagliare, è ovvio, e di accorgermi alle prime inquadrature di avere sopravvalutato un volto, e che quella espressione che mi aveva colpito era del tutto casuale e ora il tipo non ce l’ha più, forse non l’aveva mai avuta, è proprio diverso… Che fare in questi casi? Be’, preferisco cambiare il personaggio della sceneggiatura piuttosto che obbligare il prescelto a entrare in panni non suoi. Il risultato per me è positivo. Ognuno ha la faccia che gli compete, non può averne un‘altra: e tutte le facce sono sempre giuste, la natura non sbaglia. Una risorsa per me, in questo campo, è osservare l’attore durante i momenti di pausa; a tavola, per esempio, quando cominciano le confidenze, i discorsi sulla politica; quando chiacchierano con i macchinisti. All’attore che deve dire all’amante o al suo torturatore: «È atroce passare un’altra notte come questa!» suggerisco: «Fai come quella volta che hai detto al cameriere: “Mi hai portato il riso scotto!”». Anzi a volte arrivo a far dire all’attore: «Mi hai portato il riso scotto!» anziché dichiarare che un’altra notte come quella è atroce. Al doppiaggio risistemo tutto, e la notte atroce torna al posto del riso scotto.

Federico Fellini sul set de La dolce vita
Federico Fellini sul set de “La dolce vita”

[questionIcon]Per fortuna Federico Fellini non sembra appartenere alla categoria dei “cervelloni armati” e nemmeno a quella degli “improvvisatori”, contrariamente a quanto si è a volta scritto.

[answerIcon]Quella di essere un “improvvisatore sul set” è una favola. Non si improvvisa mentre si gira, a parte qualche suggerimento e avvertimento marginale. La traduzione di una fantasia in termini plastici, corposi, fisici, è un’operazione delicata. Ora, il fascino maggiore di queste fantasie sta proprio nella loro non definizione. Definendole si perde inevitabilmente la dimensione sognata, lo smalto del mistero. Poi, quando giri, tutt’intorno c’è il pullulare di vita della troupe; e ci sei tu con le tue sollecitazioni private di simpatia o antipatia, e la noia, il fastidio, la stanchezza. Tutto ciò, se indubbiamente rappresenta un depauperamento, è a volte anche un arricchimento: in questa nuova vita nasce qualcosa di definito, di concreto, di permanente, qualcosa che è il film cosi come sarà visto anche dagli altri. Dal film che avevi in testa ne nasce un altro che è solo simile al primo, ma non è più quello. Per questa ragione non vorrei mai andare in proiezione a vedere ciò che ho girato. Perché a me sembra che, quando vai a vedere giorno dopo giorno il materiale girato, vedi un altro film, vedi cioè il film che stai facendo e che comunque non sarà mai identico a quello che volevi fare. E il film che volevi fare, avendo questo continuo termine di paragone nel film che stai realmente facendo, rischia di mutarsi, si affievolisce, può sparire. Questa cancellazione del film che volevi fare deve avvenire, sì, ma soltanto alla fine delle riprese, quando in proiezione accetterai il film che hai fatto e che è l’unico possibile; l’altro, quello che volevi fare, avrà avuto così soltanto una sua determinante funzione di stimolo, di suggerimento, e ora dinanzi alla realtà fotografata non lo ricordi nemmeno più, si è come scolorito, sta scomparendo. Perciò ritengo che sia assolutamente inutile e stupido parlare di un film prima di farlo, e anche parlarne dopo. Non se ne dovrebbe parlare mai: non c’è proprio niente da dire.

Leggi l’intervista completa sul numero 28 di “Fabrique du Cinema”

 

 

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Enrico Vanzina, il cinema secondo me https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/enrico-vanzina-intervista/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/enrico-vanzina-intervista/#respond Fri, 29 May 2020 08:00:40 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=14035 Un’icona sotto il sole… di Riccione Dalla sceneggiatura di Febbre da cavallo firmata per il padre Steno fino a quella di Sotto il sole di Riccione, in arrivo su Netflix dal 1° luglio, passando per cinepanettoni, commedie e incursioni in vari generi, Enrico Vanzina ha attraversato il cinema italiano degli ultimi quarant’anni. Enrico Vanzina si […]

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Un’icona sotto il sole… di Riccione

Dalla sceneggiatura di Febbre da cavallo firmata per il padre Steno fino a quella di Sotto il sole di Riccione, in arrivo su Netflix dal 1° luglio, passando per cinepanettoni, commedie e incursioni in vari generi, Enrico Vanzina ha attraversato il cinema italiano degli ultimi quarant’anni.

Enrico Vanzina si racconta a Fabrique du Cinéma

Enrico Vanzina ha lavorato come sceneggiatore a oltre cento film e con il fratello Carlo, scomparso lo scorso anno, ha formato una coppia indissolubile tra le più prolifiche del cinema italiano contemporaneo. I Vanzina di solito vengono immediatamente associati ai cinepanettoni, termine da loro non amato che identifica il filone dei film di Natale cui hanno dato il via con Vacanze di Natale nel 1983, e ad alcuni grandi successi di pubblico divenuti dei veri e propri oggetti di culto popolare come Eccezzziunale… veramente e Sapore di mare. Figli di Steno, uno dei massimi esponenti della commedia all’italiana, Enrico e Carlo però in quattro decenni hanno spaziato anche al di là della commedia e, attraverso l’esperienza del padre, hanno conosciuto in profondità la produzione degli anni ’50 e ’60. Incontrare Enrico Vanzina, dunque, ci permette di parlare non solo dell’attività portata avanti con il fratello, ma anche del cinema italiano di ieri e di oggi.

Quello dei fratelli Vanzina è sempre stato un cinema orgogliosamente popolare, rivolto al grande pubblico. Come descriverebbe il vostro modo di intendere la settima arte?

Io e Carlo siamo cresciuti tra un gruppo di persone che nel dopoguerra ha inventato e codificato la commedia all’italiana. A casa, grazie a nostro padre, abbiamo avuto la fortuna di conoscere Monicelli, Risi, Age e Scarpelli, Scola, Comencini, Cecchi d’Amico. Ciò che poi abbiamo cercato di fare è proseguire nella direzione di quel tipo di cinema privo di moralismo caratterizzato da un’osservazione attenta, benevola e gentile della realtà, attraverso la quale era possibile raccontare in maniera buffa i difetti del nostro paese. Soprattutto a partire da Sapore di mare, abbiamo iniziato a capire che potevamo fare film che rimanessero nella scia della commedia all’italiana pur avendo una vena romantica molto forte e una tendenza più corale. Partendo dalla concezione del cinema come arte popolare e volendo attraverso di esso parlare dell’Italia, l’esigenza era quella di guardare a un pubblico che fosse il più trasversale possibile.

Spesso il cinema popolare viene contrapposto a quello d’autore. Cosa ne pensa?

Questa opposizione in realtà non ha senso di esistere. Si è sviluppata solo negli ultimi decenni, quando una deriva molto ideologica ha spinto una parte di giovani autori a rivolgersi esclusivamente a una nicchia, a un pubblico più da festival. A tutt’oggi il maggiore incasso della storia del cinema italiano rimane La dolce vita, film d’autore per eccellenza. Quando parliamo dei nostri autori più grandi come Fellini, De Sica, Visconti, Rosi e Petri, dobbiamo tenere presente che i loro lavori avevano un enorme impatto. Il vero cinema d’autore italiano, quello rimasto nella storia, è fondamentalmente popolare. La contrapposizione non veniva avvertita neppure dai diretti interessati: quando ero ragazzino, Antonioni usciva a cena con mio padre, Rosi con Corbucci, chi faceva il cinema popolare frequentava abitualmente chi faceva i film che vincevano i festival di Venezia o Cannes.

Come vede oggi il cinema italiano e che differenze trova rispetto a quello conosciuto da ragazzo e in cui poi si è mosso?

Dal mio punto di vista la grande difficoltà che vive attualmente il cinema italiano risiede nell’incapacità di offrire una testimonianza di quanto sta accadendo nel mondo giovanile, che tra l’altro dovrebbe costituire il traino maggiore per il successo di un film. L’ultimo giovane regista ad aver raccontato la propria generazione è stato il Gabriele Muccino di una quindicina di anni fa. L’unica gioventù a essere raccontata oggi sul grande schermo è un certo tipo di gioventù marginale che emerge da una serie di film minimali, spesso anche molto simili tra loro e generalmente ambientati nella periferia disagiata romana. Pur essendo prodotte in grande quantità perché ancora capaci di avere un qualche successo popolare, poi, le nostre commedie contemporanee sono spesso moraliste, ideologiche e politicamente corrette, agli antipodi della commedia all’italiana. Chi è rimasto un po’ attaccato a quel modo di immaginare il cinema, ripercorrendo per certi versi il modello incarnato da Totò del re degli ignoranti che guarda il mondo e lo svela con candore facendo ridere, è Checco Zalone.

Come funzionava e si articolava il rapporto di lavoro con tuo fratello Carlo?

Era molto più complesso rispetto a quanto emergeva dai titoli. Carlo si occupava della regia, ma io in diverse occasioni lo seguivo sul set, soprattutto quando facevo anche il produttore dei nostri film, e davo un contributo importante al montaggio, una fase in cui Carlo riconosceva la necessità di un distacco rispetto a quanto accaduto durante le riprese. Carlo poi, oltre a fare il regista, scriveva benissimo. In realtà, alla resa dei conti, facevamo quasi tutto insieme fin dalla nascita dell’idea del film, pur dedicandoci io più alla scrittura e lui alla regia.

C’è un film in particolare che avreste voluto realizzare?

Nel corso dei sessanta film fatti insieme, abbiamo avuto modo di lavorare a tanto di quello che avremmo voluto. Per quanto siamo rimasti nell’immaginario soprattutto per le nostre commedie, infatti, abbiamo realizzato diverse pellicole al di fuori di questo genere. Dopo i notevoli successi di Eccezzziunale… veramente, Sapore di mare e Vacanze di Natale, abbiamo acquisito un potere contrattuale che ci ha subito permesso di variare su altri temi e generi con thriller come Sotto il vestito niente e Mystère, melò come Via Montenapoleone, film storici come La partita con Matthew Modine e Faye Dunaway o film politici come Tre colonne in cronaca con Gian Maria Volonté. Una cosa però ci è rimasta sul gozzo: un nostro grande desiderio era quello di rivisitare lo spaghetti western e una decina di anni fa abbiamo avuto in mano l’ultimo bellissimo soggetto di Sergio Leone, Colt. Abbiamo scritto un progetto lungo e molto avanzato per farne un film, che alla fine non siamo riusciti a realizzare.

Il secondo decennio degli anni Duemila è ormai alle porte. Qual è il futuro di Enrico Vanzina?

Oggi sento di dover continuare a fare quello che in famiglia abbiamo sempre fatto tutti. Da quando Carlo se ne è andato ho scritto Natale a 5 stelle di Marco Risi e adesso ho da poco finito di lavorare come sceneggiatore e produttore esecutivo a Sotto il sole di Riccione, il film d’esordio del duo YouNuts! che è una specie di rivisitazione contemporanea di Sapore di mare. Per me si è trattato di un’esperienza stimolante perché mi ha permesso di lavorare con un gruppo molto giovane di persone di talento, cui spero di aver dato un valido contributo attraverso il mio bagaglio d’esperienza. Per il resto, continuo a scrivere tantissimo e probabilmente il prossimo anno debutterò come regista.

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Massimo Troisi, non ci resta che piangere https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/massimo-troisi-non-ci-resta-che-piangere/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/massimo-troisi-non-ci-resta-che-piangere/#respond Tue, 04 Jun 2019 07:00:29 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=12212 Il 4 giugno 1994 ci lasciava Massimo Troisi. La sua scomparsa prematura, a soli 41 anni, ha privato il mondo del cinema italiano di una delle sue personalità più brillanti e ha aperto un vuoto, ancora non colmato, nella cultura partenopea. Troisi ci ha lasciato in eredità sei film come autore e regista, ed è […]

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Il 4 giugno 1994 ci lasciava Massimo Troisi. La sua scomparsa prematura, a soli 41 anni, ha privato il mondo del cinema italiano di una delle sue personalità più brillanti e ha aperto un vuoto, ancora non colmato, nella cultura partenopea.

Troisi ci ha lasciato in eredità sei film come autore e regista, ed è stato protagonista di uno degli esordi più folgoranti del cinema italiano: Ricomincio da tre, infatti, uscito nelle sale nel 1981, incassò circa 15 miliardi di lire, rimanendo in programmazione per molti mesi. Parlare del cinema di Troisi è argomento vasto, ma sono due gli aspetti che credo sia necessario approfondire per provare a comprendere la traccia lasciataci dal grande autore napoletano: il periodo storico e l’identità culturale. Sul finire degli anni ’70 la produzione cinematografica italiana, che contava un cospicuo numero di film, si era accomodata, fatta eccezione per alcuni titoli firmati dai grandi autori o dall’autarchico Moretti, sui filoni poliziotteschi, spaghetti western-B e commedia erotica che avevano profondamente impoverito la qualità dell’offerta. Inoltre la paura e la violenza che contraddistingueva il periodo, gli “anni di piombo”, influenzavano negativamente il pubblico, che in mancanza di proposte cinematografiche valide disertava le sale.

La televisione aveva iniziato a essere prevalente nelle serate italiane e lì, proprio sul piccolo schermo, cominciarono ad apparire autori comici e satirici che mostravano i germogli di quella che sarebbe stata la generazione del nuovo panorama cinematografico italiano: fra cui Verdone, Benigni, Nuti e, appunto, Troisi. La Smorfia, il trio teatrale di cui Troisi era ispirato protagonista, irruppe in televisione nel 1979, nel programma Non stop, e fu immediatamente travolto da un favore incondizionato. La rappresentazione di una nuova forma di comicità napoletana, lontana dallo stereotipo della farsa, immersa nelle tematiche proprie degli anni ’70 e che impiegava una forte satira sociale accompagnata dall’uso del dialetto molto spinto da parte di Troisi e Lello Arena, fece subito breccia nel pubblico italiano, portando alla ribalta il fenomeno dell’affermazione di identità culturali regionali attraverso l’uso accentuato degli idiomi dialettali; come Troisi spingeva sul napoletano, così Benigni e i Giancattivi si esprimevano in toscano, Carlo Verdone usava il romano e Maurizio Nichetti era il portatore dello humor milanese.

massimo troisi
Ph. Mario Tursi

L’esordio al cinema è, si è detto, Ricomincio da tre, un racconto di satira sociale che, pur parlando di temi comuni a tutto il paese, li estremizza e vivacizza attraverso la forza del dialetto, la lingua di provenienza del protagonista, diventando in questo modo ancora più incisivo. Troisi quindi scommette sulla sua lingua: la scelta è data dal voler affermare il suo pensiero utilizzando il dialetto napoletano, e non preoccupandosi che potesse essere incomprensibile in alcune regioni italiane. Era come se Massimo dicesse: “Se vi sta bbuono accussì mi seguite, sennò… pazienza”.

Il ritorno fu stupefacente: Troisi veniva compreso in tutta Italia, perché talmente denso era il suo pensiero da superare le barriere linguistiche del dialetto che, anzi, lo aiutava a dare forza al suo messaggio. Troisi descrive così il suo esasperato utilizzo del dialetto: «Era come una difesa, la precisa volontà di non farsi omologare, il bisogno di restare fedele a quello che avevo intenzione di dire». Quindi, caratteristica comune di questo movimento di rinnovamento del cinema italiano nei primi anni ’80, definito in modo superficiale “dei nuovi comici”, è la decisione di tornare al linguaggio base, semplice: si cerca l’essenzialità della forma per spostare tutte le energie sull’innovazione dei contenuti. Troisi resta fedele al napoletano “spinto” anche nel suo secondo lungometraggio Scusate il ritardo, in sala nel 1983, ben due anni dopo il successo straordinario dell’esordio. La sua scelta, precisa, di non cavalcare il successo immediato di Ricomincio da tre è altro esempio di qualità autoriale: non è importante, sull’onda del successo, fare, è anzi fondamentale fermarsi a pensare e decidere bene che cosa dire.

Forte del successo anche del secondo film, Troisi continua il suo percorso di crescita iniziando non solo a produrre film di altri registi (Camerini, Gasperini ecc.), ma anche contaminando il suo humus espressivo attraverso la ricerca di collaborazione con altri autori. Da questa sua ennesima prova di umiltà e genialità nasce il capolavoro comico Non ci resta che piangere, scritto e diretto insieme a Roberto Benigni che, ancora oggi, rappresenta uno dei più alti esempi di cinema comico degli ultimi cinquant’anni.

massimo troisi 1
Ph. Mario Tursi

Massimo ora non ha più bisogno di difendersi, può permettersi di recitare in italiano, pur conservando la sua matrice napoletana, perché ha consolidato la sua idea di autore e il suo modo di raccontare la realtà. I suoi film più maturi, infatti, lasciano il dialetto sullo sfondo favorendo l’apertura a racconti più corali dove, ad esempio, si può permettere di parlare con accento napoletano, ma di avere un fratello (Marco Messeri) la cui calata è indiscutibilmente toscana (Le vie del Signore sono finite) – segno indelebile di un’ormai affermata identità di cineasta e interprete. E così per le prove di attore che ci regalerà con Ettore Scola fino al capolavoro conclusivo della sua breve carriera, Il postino, che è la perfetta quadratura di una ricerca stilistica per la quale non solo parte dal romanzo di un autore cileno (Skarmeta), ma affida la regia a un autore inglese (Radford) per affermare definitivamente che il suo viaggio identitario, partito dal dialetto, ormai è avviato verso la realizzazione di prodotti dichiaratamente internazionali.

Il viaggio di Massimo Troisi si arresta drammaticamente nel 1994. Sono passati ventiquattro anni: il cinema italiano è da tempo in crisi, purtroppo non c’è una cospicua produzione di titoli e l’unico “pseudogenere” che sfruttiamo è una stiracchiatura di commedia all’italiana piena di luoghi comuni e sberleffi che il pubblico si è stancato di seguire. Alcune note alte restano, pochissimi autori che rompono questo scenario con film dissonanti.

Sotterraneo, però, che si alimenta a fatica nel sottobosco di filmmaker e autori indipendenti, c’è un meraviglioso movimento – del quale credo che il Troisi produttore, che oggi avrebbe 65 anni, sarebbe stato tra i promotori – intento a dare nuovo impulso al cinema italiano. Oggi è più difficile, complice anche l’impero della serialità televisiva e gli schermi giganti “4K+Dolby UltraMegaStraSurround” che invadono le case degli italiani, ma non impossibile. Ritengo che l’industria del cinema debba solo ricominciare, come negli anni ’80, a investire su questo nuovo movimento, dando credito ai suoi coraggiosi autori e assecondandoli a perseguire la ricerca della propria identità.

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Luciano Tovoli. Riprendiamoci la creatività https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/luciano-tovoli-riprendiamoci-la-creativita/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/luciano-tovoli-riprendiamoci-la-creativita/#respond Tue, 05 Feb 2019 10:12:15 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=12554 Luciano Tovoli – presidente dell’AIC (Associazione Italiana Cinematografia) e creatore della federazione Europea degli Autori della Cinematografia IMAGO – è uno degli autori della cinematografia (guai a definirlo direttore della fotografia…) che ha fatto la storia del cinema italiano e non solo, lavorando a fianco di mastri come De Seta, Antonioni, Argento, Scola, Tarkovskij, Pialat […]

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Luciano Tovoli – presidente dell’AIC (Associazione Italiana Cinematografia) e creatore della federazione Europea degli Autori della Cinematografia IMAGO – è uno degli autori della cinematografia (guai a definirlo direttore della fotografia…) che ha fatto la storia del cinema italiano e non solo, lavorando a fianco di mastri come De Seta, Antonioni, Argento, Scola, Tarkovskij, Pialat e molti altri. E oggi il cinema?

[questionIcon] Lei è stato uno dei primi autori della cinematografia ad accostarsi al digitale. Quante cose sono cambiate rispetto a quando ha iniziato?

[answerIcon] Nel 1979 ho realizzato con Michelangelo Antonioni Il mistero di Oberwald, il primo film che ha impiegato l’elettronica [il film è stato girato in video per intervenire elettronicamente sul colore, e poi riversato in pellicola, ndr]. Io e Michelangelo volevamo capire se la pellicola fosse ancora il mezzo espressivo migliore o se potevamo usare una nuova tecnologia da poco disponibile, ovvero l’elettronica in bassa definizione, poiché le parole “alta definizione” o “digitale” non esistevano nemmeno. Il mistero di Oberwald ha anticipato tutto il cambiamento tecnologico che poi è dilagato trasformando il cinema. Però il messaggio che volevamo dare allora, ovvero la centralità della ricerca di un mezzo che desse nuove e maggiori possibilità espressive, è stato frainteso da tutto il sistema produttivo, col risultato che adesso si gira senza luce, di fretta, con macchine a mano piccolissime e leggere che si possono acquistare sotto casa. Prima si ragionava a lungo sull’inquadratura, c’era un’elaborazione che adesso manca totalmente. Oggi non si scrivono più storie da girare nei teatri di prosa, là dove c’è bisogno di ricostruire una scenografia, di illuminare. Un tempo era molto più complesso fare questo mestiere ma avevamo fiducia, era il cinema della fiducia, in noi stessi e negli altri, oggi è il cinema di notai assiepati dietro al monitor per controllare nell’immediato il lavoro dei collaboratori, senza più alcuna fiducia in loro.

luciano tovoli
Il mistero di Oberwald di Michelangelo Antonioni

[questionIcon] L’horror è stato un genere che forse più di altri le ha permesso di sperimentare. Come si è confrontato, ad esempio, con un autore come Dario Argento?

[answerIcon] In realtà non ho preso parte a molti film horror, ma sicuramente è un genere che si presta alla sperimentazione. Il primo horror a cui ho lavorato, Suspiria, richiedeva un certo tipo di ricerca, non mi sono posto il problema se fosse una storia romantica, dell’orrore o altro, Dario Argento aveva una visione precisa del film e io ho cercato di contribuire con la mia fantasia e creatività ‒ qualità, tengo a sottolineare, che le macchine non hanno. Il rapporto con Dario è stato splendido. Ma in generale, nella mia carriera, sono stato molto fortunato poiché ho avuto buonissimi rapporti con i registi, che mi hanno lasciato sempre completamente libero di fare quello che volevo.

[questionIcon] Colgo al volo il suo accenno a Suspiria: non posso non chiederle come ha reagito alla notizia del rifacimento di Guadagnino… Crede sia possibile realizzare un buon remake di un classico del cinema?

[answerIcon] Guadagnino è un grandissimo regista dotato di un’enorme sensibilità. Il fatto che abbia girato un remake è un omaggio a Suspiria, il tributo di un appassionato di cinema che si è legato alla settima arte proprio vedendo il film di Argento quando era un ragazzino; penso non ci sia modo migliore per rendere onore con sincerità e passione a un’opera che ti ha cambiato la vita. Il remake è sempre un omaggio a un film a cui ti ispiri, è un’operazione meritevole, con tutti i rischi che può comportare. Non ho un’opinione particolare a riguardo, ma se mi chiamassero per realizzare il remake di un bel film sarei felice.

[questionIcon] Ha girato molto anche all’estero. Come cambia il lavoro di un autore della cinematografia nel momento in cui si superano i confini nazionali?

[answerIcon] Il mio “estero” ha dei nomi ben precisi: Parigi, New York, Los Angeles. È vero, con i film italiani sono andato in giro in tutto il mondo, ma se ci riferiamo a produzioni che nascono oltre confine allora bisogna parlare della Francia e degli Stati Uniti. In ogni caso si tratta sempre di fare un film, quindi non cambia assolutamente niente. Forse l’unica cosa che varia è l’orario di lavoro, a Parigi si lavora sette ore e mezzo al giorno (eppure il cinema francese realizza 270 film all’anno interamente francesi con distribuzione certa nelle sale), da noi invece lavoriamo minimo dieci o dodici ore (con circa 150 film con incertissima distribuzione) mentre in America ne occorrono quindici o diciassette. Il resto è uguale ovunque, il rapporto con la troupe non cambia, ci sono meravigliosi macchinisti, elettricisti, operatori di macchine a Parigi così come si trovano a Roma o Los Angeles. Certo, diventa fondamentale parlare le lingue perché al di fuori dell’Italia nessuno fa degli sforzi per comprenderti. Io ero ferrato perché avevo studiato lingue all’Università di Pisa e questo mi ha avvantaggiato.

luciano tovoli
Fracchia contro Dracula di Neri Parenti

[questionIcon] Numerosissimi sono i grandi registi con cui ha collaborato: Antonioni, Scola, Ferreri, Zurlini, Schroeder, Veber, Tarkovskij. C’è un legame, o anche un film, che porta maggiormente nel cuore?

[answerIcon] Amo incondizionatamente almeno una decina dei miei film ed è difficile sceglierne uno anziché un altro. Ricordo con affetto i primi lavori che ho girato, erano spaghetti western di serie Z, il gradino più basso che si possa immaginare, ma è stata un’esperienza meravigliosa, di vita, di divertimento, di apprendimento professionale e di questo sono molto fiero. Un altro film di cui vado molto orgoglioso, la sorprenderò, è Fracchia contro Dracula, che ho voluto fare perché volevo lavorare con Paolo Villaggio e trascorrere quanti più mesi possibile con lui, che a mio parere è stato un vero genio rivoluzionario.

[questionIcon] Cosa pensa del mestiere di autore della cinematografia oggi? E cosa crede cambierà in futuro per coloro che fanno o vogliono fare questo lavoro?

[answerIcon] In futuro saremo dei “catturatori” di immagini: verremo inviati dai registi per procurare albe, tramonti, boschi, senza poter decidere, invieremo poi queste immagini a un qualche altro “referente” sopra di noi e da quelle verrà tratto un film. Intendo dire che le figure autoriali saranno sempre più marginalizzate se non poniamo un rimedio a questa deriva, bisogna che tutti gli autori si coalizzino nel tentativo di difendere la creatività. Il cinema è cambiato e cambierà tantissimo, magari un giorno non si chiamerà più neanche cinema; non so che rivoluzioni ci saranno da qui a cento anni o come si girerà, probabilmente le macchine da presa le lasceremo a casa, esisterà un device che ci permetterà di scattare foto o fare riprese direttamente con l’occhio, senza più bisogno di apparecchi o troupe. Chiudendo un occhio gireremo un film tradizionale, aprendoli entrambi faremo un film stereoscopico in 3D. Fino ad allora però c’è ancora spazio per i giovani che vogliono fare cinema, anche se sappiamo che è un’industria in crisi, senz’altro come quantità di lavoro da offrire. Ma ricordiamoci invece che la televisione, che qui in Italia impera, ha continuamente bisogno di personale e dunque soprattutto chi vuole iniziare non ha che da coglierne le opportunità.

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Michael Winterbottom: le parole di un gentiluomo inglese https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/michael-winterbottom-le-parole-di-un-gentiluomo-inglese/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/michael-winterbottom-le-parole-di-un-gentiluomo-inglese/#respond Fri, 17 Aug 2018 08:00:42 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=11122 Il regista Michael Winterbottom è forse l’autore più eclettico del cinema indipendente britannico. Lo abbiamo incontrato al Festival del Cinema Europeo a Lecce, l’evento diretto da Alberto La Monica e realizzato dalla fondazione Apulia Film Commission, con il supporto della regione Puglia. Nel corso del Festival è stata proiettata una selezione di dieci titoli tra […]

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Il regista Michael Winterbottom è forse l’autore più eclettico del cinema indipendente britannico. Lo abbiamo incontrato al Festival del Cinema Europeo a Lecce, l’evento diretto da Alberto La Monica e realizzato dalla fondazione Apulia Film Commission, con il supporto della regione Puglia.

Nel corso del Festival è stata proiettata una selezione di dieci titoli tra i più rappresentativi della filmografia di Winterbottom, premiato con l’Ulivo d’Oro alla carriera. Il regista inglese dagli occhi azzurrissimi ha iniziato la sua carriera lavorando per il piccolo schermo, per poi esordire come regista cinematografico nel 1990 con Forget about me, ma raggiunge la fama nel 1995 con Butterfly Kiss, la tragica storia d’amore tra due donne agli antipodi. Poco amante delle conferenze stampa e delle interviste, Michael Winterbottom preferisce che i suoi film parlino per lui.

[questionIcon] Sta lavorando a due progetti: The Wedding Guest e Greed. Cosa ci può dire in proposito?

[answerIcon] The Wedding Guest è un road-movie interamente ambientato in India. Dev Patel interpreta un cittadino inglese che intraprende un viaggio insieme a una donna, partendo dal Pakistan e attraversando l’India dal Punjab fino a Goa. Il film è incentrato sul rapporto tra loro due. Greed invece è una satira: racconta di un miliardario che ha fatto fortuna con l’abbigliamento, per poi attraversare un periodo di grande crisi. Per negare il suo malessere, organizza una festa sontuosa: invita tutti i suoi amici e si veste da imperatore, non sapendo che lo attende una fine tragica. Greed vuol dire letteralmente avidità, mi auguro che il pubblico rifletta sulle diseguaglianze e le disparità che caratterizzano la nostra società.

[questionIcon] La comunità di cineasti europei vive con grande preoccupazione la Brexit. Come la vedono i cineasti inglesi?

[answerIcon] Io guardo con terrore alla Brexit e la considero in modo assolutamente negativo. Quello che mi ha convinto a fare il cineasta quando ero giovane è stato proprio il cinema europeo. Gli esponenti del cinema britannico hanno sempre avuto una posizione un po’ a parte, sia per quanto riguarda le coproduzioni, sia sul piano stilistico e si sono raramente avvicinati al grande cinema europeo. Sinceramente, devo dire che gran parte del cinema britannico aspira più a somigliare al cinema americano.

[questionIcon] Con i suoi film lei ha raccontato spesso l’Italia: la Liguria con Genova, che vede Colin Firth protagonista, la Toscana con Meredith – The Face of an Angel e l’Italia dal Piemonte a Capri con The Trip. C’è ancora qualche aspetto del nostro paese che le piacerebbe raccontare?

[answerIcon] Il punto di partenza di un film spesso è del tutto casuale per un regista. Il caso di Meredith riguarda l’incontro con un libro che ho letto mentre mi trovavo negli Stati Uniti, inoltre mia figlia era partita per studiare all’estero, quindi mi sentivo toccato dalla storia dell’omicidio di Meredith Kercher. Volevo indagare l’attrazione morbosa per i dettagli scandalistici della vicenda, la tendenza a perdere completamente di vista il fatto che una ragazza sia stata uccisa, senza entrare nel merito delle indagini o fare ipotesi. Quindi è una casualità che il film fosse ambientato in Italia, lo stesso è avvenuto per il film Genova: ho trascorso parecchio tempo in questa città, volevo raccontare la storia di un padre e una figlia e ho pensato di ambientarla lì. Quindi il motivo per il quale ho deciso di girare molti film in Italia ha a che vedere solo con l’assidua frequentazione che ho del vostro paese.

[questionIcon] Ha lavorato sia per la televisione che per il cinema, cosa pensa delle serie TV?

[answerIcon] Per me un film dipende dal soggetto, dal tema di cui tratta, non ha una grande importanza se sia fatto per la televisione o se sia confezionato per il cinema. Mi è capitato di fare film per entrambi i media. Oppure, come è stato per The Trip, avere una versione cinematografica e una televisiva dello stesso progetto. Non esprimo un giudizio su cosa sia meglio o peggio. La televisione di certo consente più spazio e tempo, se si hanno tante cose da dire e il desiderio di suddividerle in episodi. Tendo però a pensare che una serie abbia un’estetica più formattata, poiché deve rispondere a determinati canoni televisivi che sono limitanti per un autore e questo porta i progetti a essere più mainstream. Concepire un’opera per il grande schermo è in qualche modo più liberatorio, credo, e in un certo senso sottopone anche a una minor pressione.

[questionIcon] Come ha iniziato a fare cinema?

[answerIcon] Ho cominciato a lavorare nel mondo del cinema come assistente montatore e, oltre a portare tazze di tè o caffè al capo-montatore, il mio compito era quello di numerare i fotogrammi: ogni 16 fotogrammi dovevo tagliare e poi far combaciare la numerazione della banda del sonoro con quella delle immagini. Visto che si montava tutto a mano, mi capitava di dover cercare determinati fotogrammi, o un fotogramma che mancava, per fare un raccordo. Il tutto in una una situazione assolutamente caotica come quella della sala montaggio! Io sono per natura piuttosto disorganizzato, ma ero molto bravo a trovare i fotogrammi mancanti.

[questionIcon] Quale consiglio avrebbe voluto ricevere a inizio carriera e quale consiglio darebbe ai giovani che vogliono fare cinema oggi?

[answerIcon] Non so se voglio dare un vero e proprio consiglio. Quello che mi sento di raccontare è che, quando ero giovanissimo, ho iniziato a lavorare non in ambito cinematografico, ma come ricercatore per un autore che si chiama Lindsay Anderson: stava realizzando un documentario che doveva essere sul cinema e lui, considerando com’era [ride], l’ha interpretato sul suo cinema. Era una persona da un lato estremamente divertente ed eccentrica e da un altro molto difficile, il tipo di uomo che sceglie apposta un argomento di conversazione per riuscire a litigare con il proprio interlocutore. Poi ho iniziato a conoscere un autore come Ingmar Bergman, che nella sua carriera ne ha fatti cinquanta di film. Lavorava con un gruppo ristretto di persone, ma era estremamente organizzato: decideva a ottobre che avrebbe girato in primavera e a quel punto preparava tutto in grande anticipo. Però il risultato è questo: Lindsay Anderson, lo stravagante, ha fatto quasi cinque film, Bergman ne ha fatti cinquanta. Ha potuto farlo grazie alla sua estrema precisione e alla disciplina che ha avuto nel gestire tutto. Io preferisco essere preciso come Bergman, quindi il mio consiglio è: mai essere in ritardo, sempre puntuali.

[questionIcon] Domanda finale di rito. Se dovesse descrivere il suo cinema in sole tre parole, quali sceglierebbe?

[answerIcon] Questa domanda è troppo difficile, non so come rispondere [dietro suggerimento del direttore del Festival, otteniamo una risposta divertita che riassume perfettamente Winterbottom e la sua personalità sibillina, ndr]. Go and see.

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Andrea Pazienza: Marina Comandini racconta Paz https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/andrea-pazienza-marina-comandini-racconta-paz/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/andrea-pazienza-marina-comandini-racconta-paz/#respond Tue, 14 Aug 2018 08:00:45 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=11118 Marina Comandini, pittrice e fumettista, è stata compagna di vita e di lavoro di Andrea Pazienza. Con lei abbiamo ripercorso alcuni dei momenti che hanno segnato gli anni insieme, la gestione complessa e affascinante del suo patrimonio e della sua memoria e i possibili spiragli espressivi personali, riconquistati con forza dopo la dolorosa scomparsa di […]

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Marina Comandini, pittrice e fumettista, è stata compagna di vita e di lavoro di Andrea Pazienza. Con lei abbiamo ripercorso alcuni dei momenti che hanno segnato gli anni insieme, la gestione complessa e affascinante del suo patrimonio e della sua memoria e i possibili spiragli espressivi personali, riconquistati con forza dopo la dolorosa scomparsa di Paz.

Lo scorso 25 maggio si è aperta a Roma – in occasione della quarta edizione dell’Arf!, Festival di storie, segni e disegni – la grande mostra Andrea Pazienza, trent’anni senza, un’importante retrospettiva ospitata al Mattatoio di Testaccio fino al 15 luglio e dedicata a quello che da molti è definito il più talentuoso fumettista italiano e tra i maggiori artisti tout court del secolo scorso per inventiva, linguaggi e capacità espressive. Andrea Pazienza, in arte Paz, ha raccontato in presa diretta le contraddizioni politiche e culturali dell’Italia fra il movimento del Settantasette e il decennio successivo, fino a spegnersi prematuramente nel 1988, all’età di 32 anni. Da qui il titolo della rassegna, che sottolinea appunto il trentennale dalla sua scomparsa. Ed è proprio al Mattatoio, dopo un’affollata conferenza sull’artista a cui erano presenti fra gli altri Oscar Glioti, Mauro Uzzeo e Ratigher, che ci sediamo al tavolino di un caffè con Marina Comandini, curatrice della mostra, per parlare del passato e del presente.

[questionIcon] Come è stato riallestire una mostra su Andrea Pazienza a trent’anni dalla sua scomparsa?

[answerIcon] È un argomento delicato, una data molto importante, ovviamente. In realtà questa cosa dei “trent’anni senza” la sento più vicina io, perché in qualche maniera il pubblico ha avuto in questi anni modo di continuare a fruire dell’opera di Andrea senza interruzione.

[questionIcon] Sei un’artista anche tu e hai lavorato fianco a fianco con Andrea. Da questo punto di vista qual è stata la tua esperienza con lui?

[answerIcon] Quello che noi facevamo era un gioco, un modo per stare insieme, tutto ciò che riguardava il quotidiano noi lo condividevamo. Per cui lavoravamo, viaggiavamo insieme, vivevamo in campagna. C’erano tante cose che ci accomunavano, l’arte e la vita: io e Andrea siamo anche nati lo stesso giorno. Effettivamente avevamo molti punti in comune: l’amore per la natura, la socialità nei confronti degli altri, l’empatia, la voglia di divertirsi, il piacere di viaggiare.

[questionIcon] Quando ti trovi a riprendere in mano tutto il suo lavoro, per esempio nell’occasione di questa mostra, scopri anche qualcosa di nuovo oppure lo vedi come un’eredità da tramandare così com’è, dato il suo valore?

[answerIcon] Andrea ha prodotto almeno diecimila disegni nella sua breve vita, c’è sempre qualcosa che non abbiamo visto. Nel caso di questa mostra ci sono due inediti: uno è il ritratto di Stefano Tamburini, che gli ho visto disegnare e di cui quindi ho ricordi; mentre per quanto riguarda il meraviglioso quadro [un grande dipinto su tela del 1983, che raffigura il personaggio di Massimo Zanardi a cavallo, ndr.] che è di proprietà di Matteo Garrone, è stata una sorpresa completa: non sapevo nulla né di questo, né dell’occasione in cui lo ha dipinto, perché lo ha realizzato quando ancora non lo conoscevo personalmente. Andrea poi era velocissimo, ci metteva veramente un attimo a fare un’opera, per cui ci sarà sempre qualcosa di nuovo da scoprire su di lui. I curatori di Coconino Press e Fandango stanno preparando in questo momento due raccolte di cose mai viste che non sono entrate nei venti volumi della collana Tutto Pazienza pubblicati da «La Repubblica», questo dà l’idea della quantità di disegni che Andrea ha fatto nella sua vita. E nonostante ciò ci sarà ancora del materiale che non rientrerà in questa operazione.

[questionIcon] Uno dei canali su cui state lavorando è quello della traduzione all’estero del lavoro di Andrea. Quali sono i punti di forza e quali invece le difficoltà di un’operazione del genere?

[answerIcon] Diciamo che Andrea era un incredibile disegnatore, sicuramente quella è la parte che viene apprezzata e acquisita per prima; ma la sua scrittura è altrettanto significativa. La traduzione non è mai un’operazione matematica, quindi è molto difficile restare completamente fedeli al testo. Infatti le traduzioni sono la prima cosa che invecchia rispetto a un volume, molto più dei testi originali, perché risentono del periodo storico, del contesto culturale, di tanti altri fattori che condizionano poi la scelta del traduttore.

[questionIcon] In uno degli incontri ospitati dal festival Arf! hai raccontato della tua esperienza subacquea. Come si collega questa al tuo lavoro?

[answerIcon] Sulla copertina di uno dei miei libri, intitolato Solinga, volendo, pubblicato dagli Editori del Grifo tempo fa, si vede la protagonista immersa in acqua coi piranha. Un’illustrazione profetica, visto che allora non facevo immersioni: si trattava di pesci che avevamo pescato anni prima io e Andrea in Amazzonia, da lì veniva la suggestione. Ma appunto all’epoca non avevo ancora scoperto questo mio lato marino – nomen omen –, anzi mi chiedevo il motivo del mio nome, visto che, pur essendo una brava nuotatrice, ho avuto a lungo paura del mare dopo la morte di Andrea. Poi pian piano ho cominciato a riacquistare il piacere di vivere e ho scoperto la subacquea, che mi ha messo alla prova, mi ha costretto ad andare avanti sul recupero della mia vita. Mi riprometto ora di occuparmi di più dell’acqua, del mare. Ho già scritto alcune cose pronte per essere trasposte in fumetto. Da quando ho cominciato con le immersioni, ho sentito la necessità di dipingere ambienti acquatici e ho realizzato delle installazioni legate al mare, dei mobiles con i pesci. Quindi in qualche modo ho già lavorato su questo tema, ma credo di avere ancora molto da dire.

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Pupi Avati: il maestro del cinema italiano si racconta https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/pupi-avati-il-maestro-del-cinema-italiano-si-racconta/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/pupi-avati-il-maestro-del-cinema-italiano-si-racconta/#respond Mon, 13 Aug 2018 08:00:08 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=11108 La mia amicizia con Pupi Avati nasce più di dieci anni fa, quando lo incontrai più volte per realizzare un libro-intervista. Apparentemente lontano dai miei interessi cinematografici, mi incuriosiva il suo status di autore amato e molto odiato, in grado negli anni di raggiungere una cifra stilistica riconoscibile pur spaziando tra generi diversi. Dall’estero è […]

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La mia amicizia con Pupi Avati nasce più di dieci anni fa, quando lo incontrai più volte per realizzare un libro-intervista. Apparentemente lontano dai miei interessi cinematografici, mi incuriosiva il suo status di autore amato e molto odiato, in grado negli anni di raggiungere una cifra stilistica riconoscibile pur spaziando tra generi diversi. Dall’estero è arrivato nei mesi scorsi un importante riconoscimento: il premio Oscar Guillermo Del Toro ha infatti indicato tra i sette film della sua vita proprio L’arcano incantatore di Pupi Avati, la storia di un religioso che abbandona i voti per amore di una donna.

Al di là delle valutazioni sul suo percorso artistico, che ritengo singolare e interessante, ho sempre riconosciuto in Avati un professionista serio, molto generoso con i giovani e pronto a offrire preziosi consigli. Fu proprio lui, dopo quell’intervista di dieci anni fa, a suggerirmi di avvicinare il settore della produzione cinematografica. Ho accolto quindi con piacere l’invito ad andare a trovarlo dopo molti anni nel suo ufficio a Roma, tra i premi e i manifesti di una vita cinematografica intensa e forsennata.

Pupi Avati
Ph: Flavio Mancinelli

[questionIcon] Quest’anno festeggi cinquant’anni di carriera e ottanta di vita. Che principi ritieni di aver seguito nel tuo percorso artistico?

[answerIcon] Ho sempre cercato di evitare le vie più facili, tenendomi alla larga dalle mode, dalle tendenze. Ho prodotto i miei film insieme a una società costituita con mio fratello Antonio: una scelta che mi ha portato rischi, ma anche il grande vantaggio di girare sempre i film che volevo fare. Non mi sono allineato politicamente. Ho cercato e trovato una cifra distintiva, che piaccia o meno agli altri.

[questionIcon] Sei uno degli autori italiani più prolifici. Come spieghi questa produzione così intensa?

[answerIcon] Ho avuto sempre necessità di comunicare, un bisogno tipico della cultura contadina. Ho vissuto la mia infanzia in campagna e ascoltavo solo i racconti orali che si tramandavano i miei familiari. Mia madre era una narratrice incredibile, in grado di rendere straordinario il racconto della vita quotidiana, come i grandi autori. In più, da adolescente non mi piacevo, non ero simpatico, avevo i limiti di un ragazzo di provincia che una volta giunto in città si sente emarginato. Allora ho cercato qualcosa per esprimermi, per superare la mia condizione. Prima ho provato con la musica, poi sono passato al cinema, pensando fosse lo strumento per far emergere tutto quell’insieme di racconti che erano dentro di me. Volevo piacere. Ho ancora questo limite infantile, comune a molti artisti: la necessità di sentirsi amati di più degli altri individui. E non sono ipocrita, il cinema mi ha aiutato. A tanti non piaccio, lo so, ma tutti riconoscono la mia identità. Ora ho proposto alle distribuzioni un film di genere gotico, un ritorno a una delle mie poetiche più apprezzate, ma in molti mi hanno detto di no. Diventerà una serie per Sky, forse, ma non un film. Il mio passato dignitoso non mi dà alcuna garanzia, i problemi di un autore sono sempre gli stessi.

[questionIcon] Che idea hai del panorama dei giovani autori italiani?

[answerIcon] I talenti di oggi sono più pragmatici rispetto a quelli di ieri, si vede dalle scelte che fanno, e più passano gli anni e meno sono idealisti. Negli anni Sessanta noi aspiranti autori non cercavamo un pubblico, avevamo altre velleità. Allora c’era voglia di mettere tutto in discussione, alla luce della grande lezione di Opera aperta di Umberto Eco e della sua affascinante ma fragile suggestione: offrire una proposta narrativa “permeabile” sulla quale il pubblico doveva intervenire, in qualche modo completare. Io sono cresciuto in quell’Occidente lì, in un’epoca dove la provocazione aveva un valore molto profondo. Quando vedevamo la gente uscire perplessa dalla sala, al termine dei nostri film, ci sentivamo quasi sollevati, gratificati. Avevamo colpito una borghesia che andava provocata a ogni costo. Oggi viviamo in una società completamente diversa.

[questionIcon] Girare un film presuppone un grosso impegno artistico e produttivo. Quali sono i consigli che ti senti di dare a un esordiente?

[answerIcon] Realizzare un film non è come scrivere un romanzo. Il cinema presuppone dei costi, quando scrivi devi contenere la tua immaginazione in base alle risorse che puoi ragionevolmente pensare di avere. E devi conoscere i dati, la struttura organizzativa e finanziaria di una produzione. Quando incontro colleghi e chiedo loro “quanto ha incassato il tuo film?” e mi rispondono “non lo so”, rimango perplesso. Una volta chiesi all’amico John Landis quanti film secondo lui un autore possa permettersi di sbagliare. Lui rispose: “Due, poi hai chiuso definitivamente”.

[questionIcon] Nei tuoi film hai fatto esordire molti giovani (ad esempio Stefano Accorsi) e hai proposto attori in ruoli a loro apparentemente poco consoni, come Diego Abatantuono in Regalo di Natale.

[answerIcon] Sono proposte che seguono l’idea di non compiere le scelte più facili. Penso a Katia Ricciarelli in La seconda notte di nozze o a Neri Marcorè in Il cuore altrove. Non sempre l’operazione ha successo. Con Boldi non ce l’ho fatta. È una bravissima persona, intendiamoci, ma ha una sua precisa autonomia. Non riesce a entrare facilmente in altri personaggi, per farlo dovrebbe ridurre completamente la sua identità di attore prettamente comico. In queste scelte c’è anche una ragione strategica. Gli attori emergenti di solito hanno la cattiveria del pugile che va sul ring e che sa che la sua vita dipende da quel match. Se prendi uno così sai che darà tutto se stesso. Se scegli un attore all’apice del successo sarà molto più diffcile gestirlo: può arrivare a pensare di essere più importante del regista o che il film stesso si stia realizzando grazie alla sua scelta di parteciparvi. A me invece piacciono molto gli outsider e gli sconfitti, chi non ce l’ha fatta. Lo sconfitto torna a casa, va a letto, ripensa a quello che è successo, lo analizza fino in fondo. Hai un’immagine molto più nitida della realtà, se te la fai raccontare da chi ha perso.

[questionIcon] Qualche mese fa sei stato al centro delle polemiche per le tue dimissioni dalla commissione nominata dall’ex ministro Franceschini per la selezione dei progetti e la concessione di contributi al settore cinematografico e audiovisivo. Sono rimasto sorpreso dalle critiche, anche perché credo che, al di là delle valutazioni che ognuno può avere su di te, l’esperienza non ti manchi.

[answerIcon] Autorevoli commentatori hanno detto di non ritenermi adatto a quel ruolo per ragioni anagrafiche, per fede religiosa e idee politiche. Elementi che fanno parte dell’identità di un uomo e che in un paese democratico devono essere rispettati. Nella mia vita non ho mai discriminato nessuno; tra i miei collaboratori, la mia troupe, ci sono persone che hanno caratteristiche identitarie diverse tra loro. Sei LGBT? Sei ateo? A me interessa che tu sia in grado di fare il tuo lavoro, il resto fa parte della tua identità, che rispetto e non giudico, anche se posso essere diverso da te e pensarla in altro modo. Non vedo per quale motivo, all’interno di una commissione giudicatrice, avrei dovuto comportarmi diversamente.

[questionIcon] Ti ritieni insomma aperto al confronto.

[answerIcon] Scherzi? Molti anni fa fui io a proporre al ministro Urbani di istituire un’audizione per gli autori dei progetti che richiedevano il contributo al MIBACT. Poi è diventata una regola, ma prima veniva richiesto solo di presentare documenti e copione. Per giudicare un autore devi confrontarti con lui sulla storia che vuole raccontare, sulle sue idee di regia: “Questa scena come pensi di girarla?

[questionIcon] Cos’altro ti ha portato a rinunciare all’incarico?

[answerIcon] Quello di commissario è un ruolo complesso, la mole di lavoro è enorme. Mi era stato detto che gli uffici avrebbero fatto una scrematura… Che cosa vuol dire? Cosa sono gli uffici? I giovani che aspettano da anni una risposta da chi la devono ricevere? Non so come affronteranno questo muro di progetti. Ho concluso che sarebbe stato disonesto dire “Lo faccio”. Farlo bene non è pensabile.

[questionIcon] Perché allora inizialmente avevi accettato la nomina?

[answerIcon] Lì per lì ero lusingato della proposta. Mi avevano precisato che ero il primo della lista, mentendo. Avevano già detto di no in tantissimi, già cosa non simpatica. Ricordo inoltre che è un incarico completamente gratuito. A 80 anni avrei dovuto precludermi per tre anni la possibilità di presentare un progetto per ricevere in cambio commenti sulle mie idee e sull’età! Io sul momento ho accettato, ma anche la mia famiglia era preoccupata. Ho dunque colto l’occasione di questi attacchi per fare un passo indietro.

[questionIcon] Hai delle proposte per impostare diversamente il lavoro di valutazione?

[answerIcon] Le valutazioni devono essere fatte soprattutto da figure professionali che concorrono alla realizzazione dei film: un produttore, un regista, un distributore e così via. Non è come dice Mark Twain, “se non sai fare una cosa, insegnala”.

[questionIcon] Cosa andrebbe fatto, sin da subito?

[answerIcon] Riorganizzare tutto il sistema di valutazione, creando gruppi di lavoro con un responsabile coordinatore, composti da professionisti competenti, senza considerare la loro età o altro, così da dare a tutti gli autori una risposta vera, diretta e concreta, non affidata a poche righe. Sarebbe inoltre molto utile incontrare gli autori dopo l’uscita delle graduatorie, per comunicare loro le motivazioni per le quali sono o non sono stati finanziati. La politica non può capire a fondo le dinamiche produttive, deve delegare, ma delegare è visto ahimè troppo spesso solo come perdere un po’ di potere.

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Ermanno Olmi, artigiano e sperimentatore https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/ermanno-olmi-artigiano-e-maestro/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/ermanno-olmi-artigiano-e-maestro/#respond Tue, 08 May 2018 12:39:13 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=10261 Ermanno Olmi (Bergamo 1931 – Asiago 2018) è uno dei cineasti più grandi che il cinema italiano abbia mai avuto. I dettagli della sua biografia, oltre che della sua carriera di regista, ne fanno una figura letteralmente eccezionale nella storia della cultura del nostro Paese. Nato da famiglia operaia, formatosi dentro l’ultima propaggine della cultura […]

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Ermanno Olmi (Bergamo 1931 – Asiago 2018) è uno dei cineasti più grandi che il cinema italiano abbia mai avuto. I dettagli della sua biografia, oltre che della sua carriera di regista, ne fanno una figura letteralmente eccezionale nella storia della cultura del nostro Paese.

Nato da famiglia operaia, formatosi dentro l’ultima propaggine della cultura contadina nel Novecento, Olmi è sempre stato un autodidatta: iniziato al cinema dagli esperimenti condotti nel campo del documentario industriale – che allo stesso tempo gli garantirono grande libertà espressiva e accesso a macchine e tecnologie d’avanguardia (basti pensare all’impiego del Cinemascope per raccontare la grande epopea dell’industria elettrica Edisonavolta) – resta per tutta la vita un autore artigiano che spesso inventa e talvolta anche costruisce con le sue stesse mani dispositivi tecnici (famoso il suo monopiede di legno senza aggancio, sul quale poggiare senza vincoli la macchina sostenuta dal corpo dell’operatore) e corredi per la messa in scena (si pensi alle armi e a complementi per alcuni dei costumi  di Camminacammina 1983).

Autodidatta anche nella costruzione della sua cultura personale – ricchissima, composita, articolata, trasversalmente nutrita di molte letture eccentriche, di musica, di teatro, di pittura -, Olmi ha incontrato e lavorato insieme a molte delle figure di spicco della letteratura italiana – tra gli altri l’amico Mario Rigoni Stern con il quale ha scritto diversi dei suoi documentari e del quale ha cercato di trasporre per il cinema Il sergente nella neve, vedendosi poi costretto alla rinuncia – e più in generale della cultura europea (scrisse insieme a Pier Paolo Pasolini due dei suoi primi cortometraggi, Manon, finestra due e Grigio; fu produttore di L’età del ferro di Roberto Rossellini, tra i suoi riferimenti cinematografici più diretti; realizzò una registrazione in video di uno dei lavori teatrali di J. Grotowski, Apocalypsis cum figuris).

Troppo spesso schiacciato dalla critica italiana nell’angusto e riduttivo ruolo di “regista cattolico”, Olmi ha raccolto durante tutto l’arco della sua carriera riconoscimenti e onori in tutto il mondo (guadagnandosi la Palma d’Oro nel 1978 con quello che ancora oggi è considerato tra i suoi lavori più celebri e più compiuti, L’albero degli zoccoli, e il Leone d’Oro dieci anni più tardi per il suo primo cimento produttivamente internazionale, La leggenda del santo bevitore), conservando un rigore e una coerenza di rara intensità e continuità, seguitando a scrivere e dirigere con lucida maestria fino alle ultime stagioni, firmando negli anni più recenti due film testamento come Torneranno i prati (che riprende il discorso pacifista iniziato con I recuperanti portandolo a compimento in una trasfigurazione implicitamente autobiografica) e Vedete, sono uno di voi, raffinatissimo documentario a metà tra cinediario e film saggio.

Poeta del racconto essenziale ed ellittico, sperimentatore instancabile e prolifico, Ermanno Olmi è stato  anche grande direttore d’attori, forse grazie alla sue esperienza teatrale, capace di guidare con precisione ed efficacia star internazionali – Rutger Hauer, Rod Steiger, Michael Lonsdale – e attori non professionisti, accordandone e contemperandone in una tela armoniosa voci e gesti.

Olmi, sempre particolarmente attento alle istanze e alle vicende dell’infanzia e della prima giovinezza che spesso ha messo al centro dei suoi film, è stato uno dei cineasti italiani più attivamente e più lungamente impegnato nell’educazione e nella guida di nuove generazioni di filmmaker. Dalla sua “scuola informale” Ipotesi cinema hanno preso il via, nei primi anni Ottanta, le strade di molti dei registi italiani degli ultimi quarant’anni, e così hanno seguitato a fare nuove leve cinematografiche dopo che il collettivo olimano ha ricominciato gli incontri e i lavori presso la Cineteca di Bologna nei primi anni Duemila.

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