Ermanno Olmi (Bergamo 1931 – Asiago 2018) è uno dei cineasti più grandi che il cinema italiano abbia mai avuto. I dettagli della sua biografia, oltre che della sua carriera di regista, ne fanno una figura letteralmente eccezionale nella storia della cultura del nostro Paese.
Nato da famiglia operaia, formatosi dentro l’ultima propaggine della cultura contadina nel Novecento, Olmi è sempre stato un autodidatta: iniziato al cinema dagli esperimenti condotti nel campo del documentario industriale – che allo stesso tempo gli garantirono grande libertà espressiva e accesso a macchine e tecnologie d’avanguardia (basti pensare all’impiego del Cinemascope per raccontare la grande epopea dell’industria elettrica Edisonavolta) – resta per tutta la vita un autore artigiano che spesso inventa e talvolta anche costruisce con le sue stesse mani dispositivi tecnici (famoso il suo monopiede di legno senza aggancio, sul quale poggiare senza vincoli la macchina sostenuta dal corpo dell’operatore) e corredi per la messa in scena (si pensi alle armi e a complementi per alcuni dei costumi di Camminacammina 1983).
Autodidatta anche nella costruzione della sua cultura personale – ricchissima, composita, articolata, trasversalmente nutrita di molte letture eccentriche, di musica, di teatro, di pittura -, Olmi ha incontrato e lavorato insieme a molte delle figure di spicco della letteratura italiana – tra gli altri l’amico Mario Rigoni Stern con il quale ha scritto diversi dei suoi documentari e del quale ha cercato di trasporre per il cinema Il sergente nella neve, vedendosi poi costretto alla rinuncia – e più in generale della cultura europea (scrisse insieme a Pier Paolo Pasolini due dei suoi primi cortometraggi, Manon, finestra due e Grigio; fu produttore di L’età del ferro di Roberto Rossellini, tra i suoi riferimenti cinematografici più diretti; realizzò una registrazione in video di uno dei lavori teatrali di J. Grotowski, Apocalypsis cum figuris).
Troppo spesso schiacciato dalla critica italiana nell’angusto e riduttivo ruolo di “regista cattolico”, Olmi ha raccolto durante tutto l’arco della sua carriera riconoscimenti e onori in tutto il mondo (guadagnandosi la Palma d’Oro nel 1978 con quello che ancora oggi è considerato tra i suoi lavori più celebri e più compiuti, L’albero degli zoccoli, e il Leone d’Oro dieci anni più tardi per il suo primo cimento produttivamente internazionale, La leggenda del santo bevitore), conservando un rigore e una coerenza di rara intensità e continuità, seguitando a scrivere e dirigere con lucida maestria fino alle ultime stagioni, firmando negli anni più recenti due film testamento come Torneranno i prati (che riprende il discorso pacifista iniziato con I recuperanti portandolo a compimento in una trasfigurazione implicitamente autobiografica) e Vedete, sono uno di voi, raffinatissimo documentario a metà tra cinediario e film saggio.
Poeta del racconto essenziale ed ellittico, sperimentatore instancabile e prolifico, Ermanno Olmi è stato anche grande direttore d’attori, forse grazie alla sue esperienza teatrale, capace di guidare con precisione ed efficacia star internazionali – Rutger Hauer, Rod Steiger, Michael Lonsdale – e attori non professionisti, accordandone e contemperandone in una tela armoniosa voci e gesti.
Olmi, sempre particolarmente attento alle istanze e alle vicende dell’infanzia e della prima giovinezza che spesso ha messo al centro dei suoi film, è stato uno dei cineasti italiani più attivamente e più lungamente impegnato nell’educazione e nella guida di nuove generazioni di filmmaker. Dalla sua “scuola informale” Ipotesi cinema hanno preso il via, nei primi anni Ottanta, le strade di molti dei registi italiani degli ultimi quarant’anni, e così hanno seguitato a fare nuove leve cinematografiche dopo che il collettivo olimano ha ricominciato gli incontri e i lavori presso la Cineteca di Bologna nei primi anni Duemila.