Si sono conclusi da poco i Fabrique du Cinéma Awards 2020 e il regista Daniele Suraci porta a casa il premio come miglior corto italiano con il suo U scantu, che letteralmente significa “la paura” in dialetto calabrese. In un piccolo paese del sud della Calabria, Saro, un ragazzino di dieci anni, è impegnato a superare le proprie paure, attendendo il ritorno di un padre smarrito nel dolore. «Per l’abile regia e l’equilibrio narrativo con cui il film riesce a trasmettere, senza mai cadere nella retorica, inquietudini, insicurezze e vitalità di un bambino di dieci anni alla ricerca della figura paterna»: questa la motivazione del riconoscimento. «Non mi aspettavo assolutamente di vincere – confessa Daniele – Ho sempre seguito Fabrique: la rivista, le feste, i premi. Ammetto che aspiravo a farne parte. È stata davvero una bella sorpresa».
Tratti spesso argomenti legati all’infanzia e ai rapporti familiari, come nei cortometraggi precedenti Il passo della lumaca, La terra. Riconosci questo fil rouge?
È un mondo che mi affascina: ho sempre narrato storie che ruotano intorno al mondo dell’infanzia. Già nel lavoro finale per la scuola di cinema, intitolato Come muoiono le foglie, c’era la relazione tra nonno e nipote. Le dinamiche familiari mi hanno sempre attratto, non saprei dire precisamente il perché. Probabilmente perché il mondo dei bambini è più ingenuo, magico, la forza poetica e la purezza dei sentimenti è maggiore.
La costruzione della trama e dei significati è molto attenta: sin dal titolo del corto si intuisce che la protagonista è la paura. Poi viene l’immagine dell’orizzonte, “una cosa che si vede ma non esiste”, infine pian piano capiamo il riferimento al padre, che sembra essersi annullato dopo la delusione amorosa. Puoi raccontarci qualcosa sulla fase di scrittura?
Posso dire che nella fase di scrittura il confronto per me è fondamentale. Avevo già scritto il corto, poi l’ho rivisto insieme al produttore, Gabriele Nardis, cambiando insieme a lui alcune cose. Gabriele, con il quale ci unisce un’amicizia di lungo corso, ha la grande capacità di “entrare” totalmente nel progetto. La frase “una cosa che si vede ma non esiste” è stata sempre il perno del film, trovo che esprima al meglio l’idea della solitudine.
L’altra frase importante è: “L’amore è una malattia”.
Esatto. Il momento della crescita passa attraverso la consapevolezza che l’amore non è affatto una malattia, anzi, è lo strumento per superare le paure. È proprio il bambino a spingere il padre a uscire da casa, mentre lui supera il terrore di gettarsi dalla scogliera. Il padre esce dalla casa-prigione in cui si era rinchiuso col suo dolore soltanto grazie al figlio. Le loro paure diventano una spinta per salvare uno la vita dell’altro.
Hai rappresentato la prigione del dolore senza mai calcare la mano, servendoti di immagini indirette. Basti pensare alla scena del padre che pranza con il telefono a fianco, sperando in una chiamata della moglie.
Era proprio quello che volevo. Abbiamo lavorato molto su questo col direttore della fotografia, Federico Annicchiarico. Volevamo raccontare una storia drammatica che però avesse una certa leggerezza anche visiva.
Quali sono state invece le difficoltà riscontrate durante le riprese che magari non ti aspettavi?
Sono state tante. Ad esempio non è stato facile gestire i bambini. Erano tutti attori non professionisti, a eccezione di uno. Devo invece ringraziare moltissimo Fabrizio Ferracane, che già durante la prova costume era completamente calato nel personaggio. Non mi era mai successo di vedere una cosa simile, nemmeno durante la mia esperienza come assistente alla regia. La sua professionalità mi ha rassicurato e stimolato nel mio lavoro.