Una delle voci più brillanti della sua generazione
Martina Scarpelli crede nelle storie vulnerabili, provocanti, naïve, un po’ maleducate e intelligenti. È una giovane regista e illustratrice italiana emigrata in Danimarca. Ha studiato all’Accademia di Brera e, dopo aver scoperto di poter usare la telecamera al posto della matita, si è specializzata in animazione al Centro Sperimentale di Cinematografia di Torino. Il suo ultimo film Egg è stato proiettato in 200 festival in tutto il mondo e ha vinto oltre 45 premi internazionali. Martina è una delle voci più brillanti della sua generazione.
“L’animazione è un mezzo, non un genere”
Cosa ha portato Martina Scarpelli in Danimarca?
Mi sono trasferita nel 2015, ho ottenuto un posto in una residenza per registi – l’Open Workshop a Viborg – dove ho scritto e sviluppato il mio ultimo film Egg. Ero appena diplomata e volevo fare un mio film. Qui ho incontrato giovani produttrici che, come me, avevano bisogno di fiducia e ho scoperto sistemi di finanziamento accessibili, seppure non facili da ottenere. L’industria del cinema sta cominciando a considerare l’animazione come mezzo e non come un genere, poi qui c’è molto rispetto per chi lavora come freelance, soprattutto in ambito creativo.
Come funziona il tuo processo creativo, cosa ti ispira?
Di solito impiego anni pensando a un’idea prima che diventi un film. Sono lenta, faccio moltissima ricerca. Mi ispirano un sacco di cose: gli affreschi senesi del Trecento, il rock psichedelico, i miti greci, la NASA open source image collection, le piante grasse, gli zombie. Mi piacciono i contrasti e le contraddizioni. Trovo spesso spunti nell’arte classica, nella mitologia greco-romana e norrena, nel simbolismo cristiano o egizio. Guardo tantissimo all’iconografia medievale che spesso ricontestualizzo, amo legare le storie del passato al mio presente, fondendo culture e generi. È parte del mio processo artistico e alimenta ciò che scrivo, sia la mia produzione cinematografica che l’estetica dei miei film.
Egg è un corto autobiografico che mostra il lato più privato di un disturbo alimentare, nel cubo/casa Virginia è sola con i suoi demoni. L’opera è surreale e piena di simbolismi, hai compiuto una ricerca iconografica particolare?
Egg è un film su una donna che deve mangiare un uovo che non vuole mangiare. È una storia su come prendere il controllo di qualcosa di cui hai paura e fallire. È un film simbolico, le mura del mio monolocale a Milano (il cubo) non si sono mai mosse, non ho ingoiato l’uovo intero (lo feci a pezzi), e non sono annegata nel mio appartamento. L’animazione è fiction per definizione, tutto è costruito ma non c’è nulla di “non vero” in Egg. Ho cucito la mia storia sull’iconografia medievale del vizio di Gola: una donna con il collo lunghissimo. Gli antichi credevano che il piacere del cibo fosse legato al tatto e non al gusto, al contatto del cibo con le pareti della gola.
Il bello dei tuoi lavori si condensa nel tuo sguardo sul personaggio femminile, sulla sua bellezza liquida, sensuale e repellente insieme, perturbante. L’uovo che lei teme e desidera sembra il centro ma non lo è. Ed è perfetto per rappresentare un disturbo alimentare, la gente si concentra sul cibo e non sui sentimenti.
A volte mi viene chiesto cosa significa l’uovo, quando in realtà è totalmente ininfluente. Egg è la storia di una donna forte e vulnerabile, che fallisce scoprendo attraverso il fallimento una rassicurante serenità. Non è vittima, non è debole, è lei il centro. È un’esplorazione di forza, ossessione e desiderio che mostra l’aspetto attraente di questa malattia, senza giustificarla.
In Egg è stato realizzato un ottimo lavoro di sound design e d’animazione, come hai gestito il lavoro con questi reparti?
Egg è stato animato per la maggior parte da me, con l’aiuto di un piccolo team. L’animazione non è tecnica, il personaggio non è mai uguale; la linea è continua e nitida, mai rotta, a volte nervosa. Volevo si respirasse l’ossessione, l’estrema pulizia, la perfezione distorta a cui questa malattia ti porta. Volevo anche che l’animazione fosse sensuale e tangibile, ricordando il tipo di seduzione che alcuni provano in situazioni elettrizzanti, a volte collegate alle paure. Al sound design hanno lavorato Amos Cappuccio, che non usa mai il suono in maniera scontata, e Andrea Martignoni che ha tantissima esperienza e una grande sensibilità. Delle musiche si sono occupati Amos e la performer danese Sofie Birch, gli ho chiesto di ascoltare i Nine Inch Nails a ripetizione, mi piaceva il lavoro fatto su The Social Network di David Fincher, volevo profondità, texture, dolcezza e paura nelle musiche per il film. Hanno fatto un gran lavoro.
A cosa stai lavorando adesso?
Ho vari progetti nel cassetto: un paio di nuovi cortometraggi che raccontano altre storie di donne e una collezione di corti animati incentrati su alcuni processi penali a esseri non-umani intitolata The fiction of truth and the truth of fiction, che è forse un’occasione per commentare l’assurdità della nostra realtà. Tutte storie vere. Poi sto scrivendo un lungometraggio, un’opera animata che sarà musicata e cantata dal vivo: Psychomachia – A total failure with a slight sense of success. È vagamente ispirata al poema latino Psychomachia di Prudenzio; mischia la tradizione classica a un umorismo scuro e contorto, tipicamente scandinavo, che riflette bene il tempo e il luogo in cui mi trovo ora. Si tratta di un bizzarro tributo ai molti volti della nostra personalità, un film eccentrico che celebra il successo e il fallimento di chi cerca di essere qualcosa a tutti i costi. Sarà un grandioso mix di bugie e illusioni. Ho ottenuto in Danimarca i primi finanziamenti per la scrittura ma non mi dispiacerebbe avere un co-produttore italiano, essendo un’opera in musica.