L’ultimo spegne la luce è un moderno racconto da camera (o meglio da pianerottolo…), girato in una Milano post lockdown, con il quale il 30enne regista Tommaso Santambrogio viviseziona una crisi di coppia. Presentato in concorso alla SIC, il corto è fresco di menzione speciale del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani al Figari Film Fest.
Hai un curriculum che spazia fra più continenti: qual è stata la tua formazione artistica?
La mia formazione artistica la definisco “originale”. Ho iniziato a lavorare come giornalista e come assistente alla regia. Ma soprattutto ho cominciato a viaggiare e a conoscere persone che avevano ognuna uno sguardo diverso rispetto al cinema. Per esempio, ho partecipato a un workshop con Werner Herzog in Amazzonia dove ho girato un cortometraggio che è andato ai I LOVE GAI a Venezia nel 2018. Ho seguito corsi a Parigi, Londra, Milano, Roma, fino ad arrivare a Cuba dove ho girato il mio corto precedente Los Océanos. Queste esperienze mi sono servite a capire quale sarebbe stata la mia dimensione artistica.
L’ultimo spegne la luce parla di due giovani che, al rientro da una serata con gli amici, rimangono fuori casa e si ritrovano a litigare sul loro rapporto. Com’è nata l’idea?
La sceneggiatura risale a tre anni fa ed è nata da vari spunti. Sicuramente dal fatto che io non ho mai avuto una grande relazioni con le chiavi: qualche anno fa mi è capitato davvero di rimanere chiuso fuori casa senza una vera ragione… E poi da una scena de L’angelo sterminatore di Luis Buñuel, quando i due protagonisti, al rientro da una serata in teatro, si trovano in soggiorno e non riescono più a uscire dalla stanza. Con il tempo mi è venuta l’idea di un escamotage che permettesse di raccontare la condizione in cui, quando una relazione è agli sgoccioli senza una motivazione chiara – come un tradimento – ma semplicemente le cose non vanno più, basta una “goccia” per far crollare tutto.
È molto eloquente il finale in cui finalmente la porta si apre: il problema è stato risolto ma lei se ne è andata. Forse il destino ha voluto trattenere lì i due ragazzi perché avessero quella discussione. Che messaggio volevi dare?
La mia idea era quella di ricreare l’incapacità di rientrare nella dimensione di coppia. Come dicevo prima, quando le cose non funzionano tra due persone alcune volte non c’è niente di logico, come la chiave che non gira nella serratura. E quindi l’idea di tornare a casa, che è il luogo connesso alla protezione e all’intimità (e, durante la pandemia, dove si era in salvo) diventa inconcepibile. In questo senso è stato importante per me lavorare con i movimenti di camera: la camera si avvicina su di loro in maniera quasi impercettibile, mentre la coppia emotivamente si allontana sempre più.
I due attori, Valentina Bellè e Yuri Casagrande Conti, hanno dimostrato grande sintonia, com’è stato lavorare con loro?
C’è stata fin da subito grande condivisione e collaborazione con tutta la troupe. Ognuno ha dato davvero il meglio di sé, senza riserve. Con Valentina e Yuri prima di tutto abbiamo passato molto tempo insieme, dall’andare fuori a cena a passeggiare per creare un rapporto di fiducia che andava oltre il film. Abbiamo lavorato insieme anche sulla scrittura a livello di cambi e di ritmo, con l’intento di creare un lavoro che fosse veramente di tutti.
A livello registico, quali sono le tue ispirazioni cinematografiche?
I registi che mi hanno influenzato profondamente sono Andrej Tarkovskij, Chris Marker, Abbas Kiarostami e Béla Tarr. Tarkovskij per il suo modo di fare poesia attraverso il cinema e per aver espresso con il cinema qualcosa che non sarebbe stato possibile esprimere con nessun altro mezzo. Oppure la prima volta che ho visto La jetée di Marker è stato uno shock e mi son detto “ah! ma allora si può fare questa cosa, esiste questo tipo di cinema”. Kiarostami per la capacità di trascendere finzione e realtà: non per niente Godard diceva «il cinema inizia con Griffith e finisce con Kiarostami». Poi ovviamente i miei maestri, Werner Herzog e Lav Diaz. Ma credo sia importante ogni esperienza che viviamo perché, in qualche modo, tu sei il risultato di quello che ami e di quello che hai vissuto. E il bello è che alcune volte non ne sei nemmeno consapevole, ma solo una volta che l’hai espresso lo riesci a vedere.
Cosa consigli a quei giovani desiderano intraprendere una carriera registica?
Di preoccuparsi poco di quello che dicono gli altri su quelle che sembrano le strade più giuste da seguire. Credo che per fare cinema, per fare arte, non ci sia una strada giusta o un sentiero predefinito. E quindi il mio consiglio è di seguire sempre il proprio istinto. Quello che a me ha aiutato è stato proprio il mettermi in gioco, essere curioso e buttarmi su qualsiasi cosa mi veniva proposta. Al giorno d’oggi per girare un cortometraggio non servono grandi macchine o chissà che troupe. I miei primi corti gli ho girati interamente da solo, come Los Océanos del 2019. Quindi se una persona ha qualcosa da dire deve lasciarsi andare e dirla. Credo inoltre che le scuole di cinema in Italia dovrebbero tutelare la creatività e la visione individuale, invece accade spesso che ti diano delle linee guida che per forza devi seguire ma che magari a te stanno strette e ciò rischia di ingabbiarti.
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