È davvero raro incontrare un regista con una vocazione così pura, che non si lascia ammaliare dalla “carriera” da regista, ma che semplicemente fa il regista perché dire qualcosa attraverso le immagini è il modo che gli riesce meglio per raccontare una storia.
Dopo molti cortometraggi e documentari – l’ultimo, Che cos’è l’amore, selezionato ai Nastri d’Argento – Fabio Martina dirige un film di finzione tratto da un fatto di cronaca, L’assoluto presente (che vanta comprimari come Bebo Storti, Marco Foschi e Umberto Galimberti). Il film, ambientato ai giorni nostri, a Milano, racconta la storia di tre ragazzi sui vent’anni, Cosimo, Riccardino e Giovanni che, per ragioni apparentemente del tutto casuali, aggrediscono brutalmente un passante. Ma dall’idea all’uscita in sala sono passati 10 anni. Vogliamo capire perché.
Fabio, tu sei un regista indipendente al 100%. Come riesci a realizzare i tuoi film?
A 17 anni ho deciso che avrei fatto questo lavoro e da allora sono stato irremovibile. Ho iniziato ad autoprodurmi cortometraggi, che non hanno avuto grande successo, se non qualche passaggio nei Festival, fino a che non ho prodotto Clochard si nasce, la storia di un ricco broker assicurativo che per scelta decide di vivere per strada. Il film vinse a Filmmaker nella sezione Giovani Autori, e questo mi ha dato la possibilità di fare Due calci in paradiso, una storia di invidia e gelosia sullo sfondo della periferia di Quarto Oggiaro. Il film fu notato da MTV e andò in onda in prima serata, divenendo così un piccolo caso fra gli indipendenti.
Senza un produttore si è più liberi ma i tempi si allungano. Come è stato il processo produttivo de L’assoluto presente?
Nel 2007 lessi questo caso di cronaca accaduto a Verona, di un ragazzo aggredito in maniera casuale per una sigaretta. Gli aggressori non erano emarginati, non avevano nessun problema. Erano ragazzi normali, che stavano bene. Questa notizia mi colpì molto. Decisi che volevo farci qualcosa. Grazie alla collaborazione di due sceneggiatori, Massimo Donati e Alessandro Leone, abbiamo iniziato a scrivere. Il percorso è stato lentissimo a causa della ricerca dei finanziamenti, i produttori mi dicevano che era un film troppo complicato, che sarebbe stato meglio fare una commedia. Ma ormai per me fare il film era diventata una ragione di vita. Il film lo avrei fatto comunque.
Come hai trovato gli attori?
Non amo i casting, non mi piace avere intermediari, quindi ho seguito il mio metodo: ho fatto dei laboratori di lezioni cinematografiche, per portare i ragazzi non a fare i casting ma e recitare davanti alla videocamera. Dovevano mettersi alla prova e tirare fuori se stessi. Questo processo è durato un anno, ho visto un centinaio di attori e da questo lavoro immenso sono venuti fuori i 4 protagonisti. Inizialmente non ho lavorato sul personaggio, ma ho continuato a scavare nei loro vissuti, a lavorare sulle loro emozioni senza svelare troppo del personaggio, né dalla storia. Volevo che loro diventassero quei personaggi. 10 giorni prima di girare ho dato loro la sceneggiatura, ma solo quella che riguardava il loro personaggio.
L’attrice che interpreta Riccardino è davvero una scoperta. Come hai capito che avrebbe potuto interpretare il ruolo di un ragazzo e, per altro, farlo in un modo così intenso?
Appena l’ho vista ho capito che lei avrebbe fatto parte del film. Bucava lo schermo. Aveva qualcosa di potente, una capacità immediata di raggiungere le emozioni. L’ho messa alla prova fino alla fine e lei mi ha sempre seguito, anche quando le ho proposto di rasarsi e interpretare Riccardino. Anche gli altri due attori hanno messo tanto di loro stessi. Quando l’attore non distingue più il personaggio da se stesso, mi fa un grande dono.
Il modo in cui scegli le persone con cui lavorare è molto interessante, anche per la colonna sonora hai una storia da raccontare.
Alla reception della RAI – con cui collaboro – c’è sempre una ragazza che ho scoperto essere una musicista e cantautrice. Questo mi aveva molto colpito – il fatto che spesso abbiamo delle passioni ma facciamo tutt’altro. Mi mandò pezzi davvero molto belli. Ecco, questo è come lavoro. Io credo che ci siano persone meritevoli che semplicemente non hanno capacità di vendersi.
Che cos’ è per te l’assoluto presente del titolo?
Inizialmente il titolo doveva essere Tre allegri ragazzi. Poi, durante uno studio finanziato dalla Provincia in cui andavo in giro per le scuole ad intervistare adolescenti ed esperti per indagare il mondo di oggi, Umberto Galimberti pronunciò quelle due parole, disse che i giovani d’oggi vivono l’assoluto presente, l’insignificanza sociale e la precarietà, e non sono minimamente interessati al passato e al futuro. Per me l’assoluto presente è il male di oggi.
Com’è andata la distribuzione?
Per tutto quello che è successo dopo devo ringraziare Lo Scrittorio, che ha seguito la distribuzione del film, e la Cineteca di Milano, che ci ha creduto fin da subito e ha selezionato il film per il Concorso Rivelazioni del festival Piccolo Grande Cinema. Il successo è stato grande, intenso, tanto che la Cineteca ha deciso di tenerlo in programmazione. Poi ha fatto qualche passaggio a Roma, e adesso stiamo cercando di farlo vedere anche in altre città.