Daniele Morelli, classe 1994, è uno degli sceneggiatori più interessanti della nuova serialità italiana e attualmente lavora a Roma con diverse case di produzione, tra cui Lotus Production, Publispei e Minerva Pictures. Morelli è laureato in Beni Culturali, Musicali e dello Spettacolo all’Università di Tor Vergata, ha frequentato il Centro Sperimentale, il Master di Fiction e scrittura seriale della Rai e il programma Biennale College di Venezia. In seguito ha lavorato come assistente alla regia per il film Loro di Paolo Sorrentino e ha diretto vari cortometraggi che si sono distinti per la una regia evocativa ma pulita.
Il suo ultimo corto è L’allaccio (prodotto da Necos Film), miglior cortometraggio e miglior sceneggiatura al Roma Film Corto 2022, una piccola storia vera dal valore universale che racconta il lutto profondissimo di Roberto Rossellini e cosa significa essere figli e padri. Votato al genere giallo, poliziesco e noir, Morelli ha dato prova di una scrittura camaleontica ma sempre profonda, che punta al cuore pulsante delle storie e soprattutto dei personaggi che si fanno carico di raccontarle.
Hai partecipato a due dei più prestigiosi corsi di cinema e fiction in Italia e ti sei formato costantemente in vari workshop e masterclass, mostrando una forte attitudine allo studio della scrittura e del cinema.
Ciò che più mi appassiona e che mi ha spinto ad avvicinarmi a questo mestiere è restituire le emozioni che ho provato vedendo alcuni film e leggendo alcuni libri quando ero più piccolo. Tra i film mi vengono in mente quelli che vedevo con mio nonno, da Batman al Padrino fino alla serie Romanzo criminale, che mi ha fatto amare la serialità. Da lì in poi ho iniziato a documentarmi e a vedere i film e le serie in un’ottica diversa, più chirurgica. Durante il periodo del corso propedeutico del CSC in regia ho avuto la fortuna di avere come docente Piero Messina, da cui ho imparato tanto soprattutto sulla direzione degli attori. Il master Rai, invece, è stato decisivo per la mia formazione professionale come sceneggiatore: ho appreso da vicino gli strumenti necessari per costruire un racconto seriale. Ho imparato molto soprattutto da Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli, sceneggiatori eccezionali che hanno firmato grandi serie come Gomorra, Zero Zero Zero e il più recente Django.
Su quale aspetto ti concentri quando scrivi una sceneggiatura?
Spesso parto dall’osservazione della realtà, da chi mi circonda, da quello che mi accade. La maggior parte delle volte faccio ricerche, leggo giornali, articoli, saggi, mi documento molto su cronaca nera e attualità; spesso le idee nascono proprio dall’incontro tra la realtà e il modo in cui uno la osserva e la reinterpreta. Ma credo che la chiave di questo lavoro sia restituire onestamente la complessità dell’essere umano, di come ogni persona reagisce di fronte a tutto ciò che, nel bene e nel male, offre la vita. Una volta individuata l’idea che mi appassiona, cerco di svilupparla da solo o sempre più spesso in coppia o in gruppi da tre: tra i miei colleghi abituali ci sono Chiara Zago e Edoardo Carboni. Trovo che la fase di scrittura può risultare davvero proficua quando ci si circonda delle persone giuste. E poi mi interrogo molto sul tema del racconto e sui personaggi, ne definisco fragilità, speranze, obiettivi, segreti. E una volta fatto questo, mentre sviluppo la trama, cerco di affidarmi a loro, per far sì che sia la verità di quei personaggi a indicarmi la strada giusta.
La tua regia, così come la tua scrittura, mi sembra molto centrata sui personaggi; inoltre nei tuoi lavori sono ricorrenti i temi della morte e del lutto. Cosa ti interessa indagare?
Per me i personaggi sono il motore pulsante di una storia, sia da sceneggiatore che da regista. Voglio vivere con loro, osservarli da vicino, farmi sorprendere, tentare di costruire un rapporto profondo con loro, con la speranza che tutti i sentimenti che ho provato vengano restituiti con forza allo spettatore. Questa, ad esempio, è stata l’intenzione alla base de L’allaccio. Per convincermi a girare una storia ci devono essere vari fattori in gioco: devo sentire qualcosa a livello istintivo, un collegamento emotivo. Devono esserci temi a cui tengo, l’opportunità di raccontarli in maniera inedita, attraverso una diversa chiave di lettura, un’atmosfera specifica, magari un genere. Qualcosa che mi faccia sentire profondamente mia quella storia.
La storia del telefono di Rossellini è una grande parabola – reale – sul lutto. Conoscevi già questo aneddoto?
Mentre frequentavo il corso propedeutico del Centro Sperimentale lessi la sceneggiatura di Edoardo Carboni e mi innamorai dell’idea. Non conoscevo la storia del telefono di Rossellini e mi colpì subito la situazione paradossale di un uomo che, forse devastato dai sensi di colpa per non essere stato vicino a suo figlio, quando lo perde si auto-rinchiude in una specie di limbo – appunto il cimitero del Verano – e decide che non si muoverà da lì, chiedendo di farsi installare un telefono per poter continuare a lavorare a distanza con i suoi colleghi a Berlino. L’opportunità di esplorare un tema come l’elaborazione del lutto in una chiave diversa, in un’atmosfera così particolare come quella degli anni ’40 nella mia città, è stata la scintilla che mi ha spinto a voler girare il corto. Da lì in p
oi ho collaborato a una nuova versione della sceneggiatura assieme a Edoardo e abbiamo pensato che potesse essere molto potente raccontare la storia di un incontro: da una parte un padre – Rossellini – che non può più parlare con suo figlio e dall’altra un figlio – Francesco, il telefonista – che non vuole parlare più con il suo di padre per una colpa del passato. Un chiasmo emotivo dove il regista e il telefonista, grazie alla conoscenza dell’altro, si donano qualcosa, riuscendo entrambi ad affrontare i propri demoni personali.
Parlami del lavoro che hai fatto con Acquaroli e Majorana: com’è il tuo rapporto con gli attori?
Amo lavorare con gli attori, mi piace molto confrontarmi con loro sia prima delle riprese che sul set. Insieme agli attori puoi mettere alla prova la tua sceneggiatura, osservarla da più punti di vista, scoprire sempre cose nuove. Finora ho avuto la fortuna di collaborare con attori molto bravi, da Angelo Spagnoletti e Guglielmo Favilla in Deformazione professionale, fino a Francesco Acquaroli e Federico Majorana ne L’allaccio. Con Acquaroli e Majorana ci siamo confrontati molto sulle intenzioni e gli stati emotivi dei personaggi di Rossellini e di Francesco, il giovane telefonista. Un lavoro che credo sia stato decisivo affinché potessi realizzare il film per come lo immaginavo.
Cosa ti piace scrivere e cosa ami vedere al cinema?
Sono un grande appassionato di cinema di genere. Crime, noir e thriller occupano di sicuro il primo posto tra i generi che più apprezzo e su cui mi sto concentrando di più a livello professionale: l’indagine su un caso ti permette una profonda analisi della complessità dell’animo umano. Oltre ai titoli che ho citato, tra i miei riferimenti ci sono sicuramente True Detective e Mindhunter per le serie, il cinema di David Fincher, fino al Joker di Todd Phillips e Parasite di Bong Joon-Ho. Allo stesso tempo sono un grande estimatore della commedia all’italiana, come Lo scopone scientifico, che ritengo il proto-Parasite, o di film più intimi come Her, American Beauty, La strada. Diciamo che sono uno spettatore onnivoro. Anche sul lavoro mi piace spaziare tra i generi: dal noir investigativo fino alla commedia dai risvolti amari o al racconto storico o distopico. Perché, in fondo, ogni storia, a prescindere dal genere, parla di persone.
Nel 2017 sei stato assistente alla regia su Loro di Sorrentino.
È stato molto formativo. Per la prima volta ho visto dall’interno gli ingranaggi di una macchina enorme e complessa, manovrata con maestria da un regista che ho sempre stimato e apprezzato. Io ho collaborato attivamente nel reparto AOSM e mi sono occupato di individuare in fase di preparazione, attraverso street casting una serie di volti giusti per il film. Un’esperienza totalizzante che modifica la tua percezione di vedere il mondo: anche quando sei in giro, al di fuori del lavoro, cominci a escludere ogni volto che non ti sembra interessante. Sul set invece, assieme ad altri collaboratori, mi sono occupato delle figurazioni e del loro coordinamento prima e durante le scene. Un giorno feci partire un pullman con un centinaio di comparse a bordo per dirigerli dal campo base al set: peccato che sul set stavano ancora girando e fortunatamente fermai il pullman in tempo. Per poco non mi sono preso la più grande “cazziata” della mia vita.
So che stai lavorando a una serie period-crime, di che si tratta?
Attualmente sto lavorando alla scrittura di più progetti di serie con varie società di produzione e in ognuno al centro c’è un’indagine. Uno tra questi, sì, è una serie period-crime ispirata a una storia vera, incentrata sul lato noir del periodo della Dolce vita, che dietro alla superficie glamour che tutti conosciamo nascondeva un lato profondamente oscuro. Per quanto riguarda i film, invece, ho in cantiere un’opera prima incentrata su una storia d’amicizia tra due donne rinchiuse nel manicomio di Teramo ai primi del Novecento e sto lavorando alla scrittura del film Il mondo fuori, del regista abruzzese Lorenzo Pallotta, progetto selezionato tra gli otto finalisti di Biennale College 2022.
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