Finalista nella sezione cortometraggi agli ultimi Fabrique Awards con L’oro di famiglia, Emanuele Pisano è un giovane regista che conta già importanti collaborazioni con artisti come Briga e Ultimo, e che sogna un giorno di poter distribuire film con la sua Pathos Distribution.
Come hai cominciato a fare cinema?
È stato osservando il lavoro di compositore di mio zio Paolo Buonvino che credo di aver capito come il cinema potesse rappresentare il veicolo migliore per esprimermi. Quando ho iniziato a fare i primi cortometraggi nei corridoi di casa con una handycam, Gabriele Muccino e Paolo Sorrentino erano i miei riferimenti più importanti. Il primo aveva appena stravolto le regole della commedia italiana con L’ultimo bacio; il secondo iniziava a diventare autore con Le conseguenze dell’amore. Ricordo che realizzavo i primissimi corti ascoltando una colonna sonora e immaginando scene, dialoghi, e ipotizzando di dirigere i grandi attori. Non so dire quanto valore abbia avuto questo approccio atipico ˗ non amavo Kubrick, conoscevo poco Scorsese per esempio ˗ però credo che abbia influenzato molto il mio modo di fare cinema.
Sbirciando qua e là in rete, ho scoperto i moltissimi videoclip musicali che hai diretto. I videoclip possono essere una buona palestra cinematografica? Com’è lavorare con artisti come Ultimo, Briga?
Jacopo La Vecchia (CEO di Honiro Label) cercava dei videomaker che potessero girare con poco budget dei videoclip prodotti dalla sua casa discografica. Io all’epoca facevo il classico lavoro da assistente di regia sul set, ma dato che avevo un gran voglia di mettermi in gioco, mi sono buttato. Ho iniziato con videoclip a bassissimo budget e questo mi ha permesso di esercitarmi sulla creazione di idee che rispettassero i costi ma fossero comunque di qualità; ero alla continua ricerca di possibili escamotage narrativi e visivi. Questa graduale evoluzione mi ha aiutato a modellare un mio personale modo di girare che mi è servito tantissimo per i corti. Lavorare con grandi artisti è prima di tutto un incentivo a dare qualcosa di tuo. Sia con Briga che con Ultimo ho sempre goduto di molta libertà. Non ho mai avuto delle regole da seguire, anche perché un videoclip arriva spesso da una visione, da un pensiero ispirato da un libro o un articolo di giornale. Poi, crescendo artisticamente, Ultimo ha capito che il videoclip può essere un mezzo per far conoscere di più il suo pensiero e quindi i concept narrativi partivano da lui.
Quanto credi sia importante il legame tra musica e cinema?
L’imprinting musicale è tutt’ora molto presente in ciò che faccio. Perfino quando dirigo gli attori faccio provare loro le scene con in sottofondo delle musiche che ritengo stimolanti. Credo che la musica abbia il potere di accompagnare lo spettatore verso delle aree emotive altrimenti insondabili. E per musica intendo anche e soprattutto il paesaggio sonoro naturale.
Arriviamo a L’oro di famiglia, finalista ai Fabrique Awards. Ho letto che hai definito Rec Stop & Play, il corto che ti ha fatto conoscere, come «una forma di scippo soggettivo». Il tema del furto mi riporta a L’oro di famiglia. C’è un filo rosso che collega questi due cortometraggi?
Devo confessarti che non ci avevo mai riflettuto, ma la tua domanda mi porta a pensare che sicuramente ci siano dei temi che mi attirano, e che, in forme diverse, trasformo e modello con il tempo. Per quanto riguarda L’oro di famiglia, il corto nasce dall’esigenza di raccontare il legame viscerale che lega l’uomo al passato. Nonostante i cambiamenti, la nostalgia verso ciò che si è stati è una sorta di maledizione.
Cos’è per te L’oro di famiglia?
Credo sia il racconto di un tormento personale. Il protagonista galleggia nella speranza che un ricordo scolorito dal tempo possa riemergere da una semplice fotografia. Il corto nasce anche da una riflessione sul tema della fotografia: negli ultimi cinquant’anni il digitale ha spodestato l’analogico in modo definitivo. Nel mondo si scattano ogni anno 2,5 trilioni di immagini che sono per lo più archiviate su dispositivi digitali. Solo una percentuale minuscola è stampata e conservata in formato analogico. Io amo chiamare le fotografie stampate “memorie tangibili”, perché la fotografia va anche vissuta, come accade per il protagonista del corto.
Qual è la relazione tra L’oro di famiglia e il ricordo?
L’esigenza del protagonista è quella di rivivere un’istantanea del passato. C’è un impulso che lo spinge a dover conservare l’elemento più prezioso che ogni famiglia possiede, ossia il ricordo, l’unica cosa che non può essere rubata. In questo senso, ho cercato di approfondire uno stile di regia che cercasse di sottolineare l’imprevedibilità delle scelte del protagonista in relazione al passato. Per questa ragione, la macchina spia, ma non anticipa mai i movimenti del protagonista, limitandosi ad attendere le sue decisioni.
Domanda finale d’obbligo: progetti futuri?
Nell’ultimo anno e mezzo insieme a Maurizio Ravallese, Roberto Urbani e Rocco Buonvino ho creato una distribuzione di corti e short-documentary, Pathos Distribution, con l’obiettivo di valorizzare e diffondere sguardi autoriali che altrimenti rimarrebbero nascosti; il sogno è quello un giorno di poter distribuire una pellicola. Inoltre, negli ultimi anni ho avuto la fortuna di poter dirigere delle serie per Disney [Sara e Marti – #LaNostraStoria] e Rai Gulp. Forse continuerò con queste tipo di serialità, nel frattempo, dopo L’oro di famiglia, assieme a Francesco Garritano e Angelo Benvenuto, ho girato uno short documentary a tema green che è attualmente in fase di montaggio. Spero di potertene parlare nella prossima intervista!