Si può creare un prodotto audiovisivo che affronti una tematica sociale però contornandola con alcuni stilemi di genere? Secondo Giuliano Giacomelli e Lorenzo Giovenga sì, coppia di giovani registi che collabora da oltre dieci anni e che in passato ha firmato l’horror indipendente La progenie del diavolo e il cortometraggio Gemme di maggio con Franco Nero. Così nasce Intolerance (qui il trailer), storia in bianco e nero su un barbone sordo che vive in una città indifferente dove forse risiede ancora un pizzico di inaspettata magia. Ne abbiamo parlato proprio con Giacomelli e Giovenga.
Il vostro corto inizia con queste due frasi sovraimpresse: «Il silenzio è la forma più alta di parola. Comprenderlo è la forma più alta dell’essere umano». Cosa significano e come si legano alla necessità di raccontare Intolerance?
Lorenzo Giovenga: Questo progetto ha un’origine lontanissima. Quando io e Giuliano facevamo l’università ci è venuta in mente l’idea di un sordo che voleva far diventare tutti sordi. Poi la storia è rimasta dormiente per circa sei o sette anni, forse anche di più. Ci è tornata in mente la notte degli Oscar (2019) quando ha vinto Roma di Alfonso Cuarón e ci siamo detti, ironicamente, che facendo un film in bianco e nero e anche muto i soldi li ottieni in un attimo. Dopo questa battuta e con l’uscita del bando Nuovo IMAIE ci siamo detti di provare e vedere come andava. E infatti abbiamo vinto il bando. Quello che era nato inizialmente come un gioco, una volta ottenuti i fondi, è diventato qualcosa di molto più interessante che ci ha messo di fronte a tutte le dinamiche e le difficoltà produttive del caso, come quelle del lavoro sulla lingua dei segni, sul silenzio, sugli effetti visivi. La frase iniziale si allaccia alla volontà di introdurre il discorso non tanto della sordità ma più che altro del silenzio. Il film non solo ha come protagonista una persona sorda, ma è effettivamente muto per tutti e il punto di vista è quello del sordo. Volevamo giocare sul fatto che la visione è senza parole e se lo capisci denota un intento di comprensione alto e nobile, che va oltre la parola.
Giuliano Giacomelli: Ciò su cui il corto vuole andare a riflettere, dietro anche a un finale che può sembrare più o meno cinico, è l’uso sbagliato che si può fare della parola. Viviamo in un sistema di iperstimolazione di linguaggio, di informazioni su informazioni e spesso si finisce per parlare a caso, soprattutto sui social, dove tutti si sentono in diritto di dire tutto.
La città del corto è uno spazio quasi metafisico, alieno. Una sensazione esaltata dalla splendida fotografia in bianco e nero di Daniele Trani. Sembra quasi l’Eur nel finale de L’eclisse di Antonioni.
GG: Per il discorso sulla città siamo partiti da un primissimo presupposto, ovvero raccontare una Roma dal respiro internazionale, cercando di distanziarci da una “Roma da cartolina” fuggendo gli scorci più facilmente riconoscibili e stereotipati. Allo stesso tempo non volevamo nemmeno raccontare la Roma di periferia dei crime movie che in Italia si stanno diffondendo molto nell’ultimo periodo. Volevamo creare un non-luogo che è Roma ma potrebbe essere ovunque.
LG: L’eclisse è uno dei miei film preferiti di Antonioni, ma questa è la prima volta che ci rifletto… Quello di creare uno spazio non precisato è un discorso che stanno facendo moltissimi registi della nostra generazione che cercano di prendere la città da un punto di vista non strettamente riconoscibile. Abbiamo asciugato molto anche in fase di montaggio, perché inizialmente volevamo dare un respiro ancora più internazionale, ad esempio con cartelli in inglese. La città è comunque importante, perché con la sua struttura geometrica aiuta a creare il dramma.
Agli Oscar 2021 uno dei film che ha ottenuto più candidature è Sound of Metal, dove la resa sonora è fondamentale per delineare il discorso sulla sordità. Anche Intolerance fa leva sul lavoro di sound design ed editing.
GG: È stata la cosa più difficile, ma anche la più stimolante e divertente. Quando abbiamo iniziato a lavorare per presentare il film al Nuovo IMAIE abbiamo sottovalutato molti degli aspetti che poi ci saremmo ritrovati ad affrontare, poi abbiamo capito di dover venire a patti con molte cose. Per prima cosa dovevamo incontrare la comunità dei sordi per evitare di cadere in facili errori e durante la fase di preparazione siamo entrati in contatto con la FIAS (Federazione Italiana Associazione Sordi) e la sua presidentessa Laura Santarelli. È stato un processo molto stimolante perché abbiamo provato a capire come effettivamente sentono i sordi. Infatti non è che le persone sorde non sentono, hanno un proprio mondo sonoro a seconda del loro grado di sordità. Una di queste persone ci faceva l’esempio che una suoneria per lei risultava come un petardo che esplode. È un codice sonoro totalmente diverso. Quello che abbiamo provato a fare con il sound design assieme a Leonardo Paoletti, Jacopo Lattanzio ed Enrico Roselli è stato ricreare il paesaggio sonoro e reinventare totalmente certi suoni. E Sound of Metal è interessante anche perché riporta molti dettagli che quando entri a contatto con la comunità dei sordi finisci per ritrovare. Ad esempio come hanno un gesto che equivale al nome di una persona, oppure come anche loro abbiano la musica e la fruiscano captando le vibrazioni.
LG: Quello che mi ha colpito è come le persone sorde immaginino i suoni in una maniera totalmente differente da come li concepiamo noi. Abbiamo fatto del lavoro da foley artist, da rumorista, costruito con microfoni a contatto, che funzionano con il tocco e non tramite vibrazioni di aria. Abbiamo costruito un ambiente sonoro che si può percepire adeguatamente solamente al cinema e che nasconde tonalità davvero interessanti. Inoltre c’è un intero mondo da scoprire nella comunità dei sordi, sono fieri di esserlo e non si considerano disabili. Eravamo terrorizzati che potessero prendere in modo sbagliato la sceneggiatura del corto, perché loro hanno il proprio mondo e gli piace stare nel loro mondo. La scelta compiuta dal protagonista nel finale per noi era un twist narrativo dai contorni quasi negativi, mentre per loro cattura la vera essenza dell’essere sordi e assume una prospettiva differente, molto sfaccettata.
Strettamente collegato a questo è quindi anche il lavoro fatto con gli attori e la lingua dei segni.
LG: il training con gli attori è stato molto particolare. Una delle prime cose che ci è stata chiesta è perché non abbiamo preso degli attori sordi. C’erano alcune direttive da seguire nel bando che abbiamo vinto, ma soprattutto avevamo iniziato un percorso creativo con gli attori scelti ancora prima di partecipare. Per il protagonista Marco Marchese è stato un processo più complesso e talvolta capitava che confondesse alcuni piccoli gesti che finivano per significare altro rispetto a quello che doveva dire, creando delle situazioni anche comiche. Quello di Marial Bajma Riva è stato invece un approccio interessante. Essendo lei anche una ballerina ha interpretato il lavoro da fare con la lingua dei segni quasi come se fosse una danza. Una cosa che ci ha fatto molto piacere è come la nostra tutor abbia notato che nel risultato finale il barbone sembra avere un modo più grezzo e sporco di esprimersi nella lingua dei segni, mentre la ragazza pare avere una “dizione” più pulita ed elegante.
GG: La cosa difficile è mantenere la posizione non solo della mano, ma anche delle dita e del braccio che tutte assieme, nel complesso, vanno a formulare un discorso mimico ben preciso. È stato molto interessante vedere come il carattere dei personaggi, alla fine, sia stato in qualche modo trasmesso anche sulla lingua.
È insolito che un prodotto audiovisivo italiano possa contare su effetti visivi di alto livello, soprattutto se è un cortometraggio. Nel caso di Intolerance, però, vi siete avvalsi del lavoro di Nicola Sganga, David di Donatello per Il racconto dei racconti.
LG: Una cosa che ho capito con questo corto è che in Italia non mancano gli effettisti, ma mancano i produttori e i registi. È il tempo di preparazione degli effetti che crea la qualità dell’effetto finale. Prima di girare abbiamo trascorso un paio di mesi di pre-produzione durante i quali ci siamo occupati della scansione del torace in 3D, degli storyboard, delle preview. Sul set abbiamo girato con tre telecamere, necessarie per la rotazione del corpo e per captare i marker. Se qualcosa finiva per uscire male sarebbe stato molto difficile rimediare in seguito, ma la stretta sinergia con Nicola Sganga ha permesso di creare un effetto visivo di qualità con una relativa facilità.
Prossimamente Intolerance arriverà su RAI Play in occasione di una campagna di sensibilizzazione sulla lingua dei segni.
GG: Sono molto soddisfatto del percorso che sta facendo Intolerance, nonostante il periodo non certo dei migliori. RAI Play è sicuramente una vetrina molto importante e siamo riusciti a fare un corto che affronta una tematica sociale come la sordità della quale si sa poco, però allo stesso tempo contaminandola con il cinema di genere.
LG: Voglio ricordare che il corto è stato prodotto da Daitona, di cui sono socio insieme a Lorenzo Lazzarini e Valentina Signorelli, casa di produzione under 35 che crede nei prodotti giovani. Abbiamo finito le riprese a ridosso dell’inizio della quarantena dello scorso anno e anche nella fase di post-produzione a distanza è stata fondamentale la volontà di lavorare tutti assieme.
Quali sono i vostri progetti futuri? Tornerete a collaborare insieme?
LG: Io e Giuliano abbiamo iniziato questo percorso insieme sui banchi dell’università, lavoriamo insieme perché è un valore aggiunto e ci troviamo bene. Abbiamo in cantiere un lungometraggio di genere alla Ari Aster o alla Robert Eggers, per il quale siamo in dialogo con alcune importanti case di produzione. E per Intolerance si è aperta inoltre la possibilità di un discorso seriale.
GG: La volontà è quella di alzare l’asticella della difficoltà per far diventare il corto una serie, che è un’idea sette volte più folle. Quindi la risposta è sì, torneremo di certo a lavorare insieme.