Dopo il successo de Il Pesce Toro, selezionato nella sezione Percorsi del Molise Film Festival, abbiamo intervistato il giovane regista Alberto Palmiero. Un regista, come racconta, nato un po’ per caso: “Il mio approdo al cinema non era inizialmente certo: mi sono iscritto contemporanea sia al corso di regia al Centro sperimentale, sia alla laurea magistrale in informatica. Il destino ha voluto che il corto con cui mi presentai alla selezione – Saddafà – sia piaciuto alla commissione e così sono entrato in questo mondo, lasciando da parte l’informatica.”
Il Pesce Toro è il tuo ultimo corto. Perché questo titolo?
Tutto nasce dalla cicatrice che porto sul pollice. Ogni volta che qualcuno mi chiede cosa ho fatto, racconto la storia (inventata) che ho combattuto con un enorme pesce, e parlandone con la co-sceneggiatrice abbiamo deciso di inserirla nel cortometraggio. Tuttavia, quello che volevo raccontare con questo corto era un sentimento libertà. Infatti, nella scrittura del cortometraggio sono partito dalla fine per costruire poi gli eventi pregressi. Quest’immagine dei due ragazzi che vestiti si buttano in mare mi affascinava. Come, parallelamente, il mare per me rappresenta un elemento di evasione a cui sono molto legato.
La libertà sembra però contrapposta anche al suo contrario: la reclusione.
Esattamente. Volevo trasporre sullo schermo lo stato d’animo di claustrofobia che vivevo al tempo in cui ho scritto il film, e l’idea di inserire nella prima parte i due personaggi in uno spazio chiuso, invalicabile, mi permetteva di accentuare la contrapposizione con la scena finale, giocata appunto sulla libertà. Allo stesso modo, i due protagonisti rappresentano la medesima ambiguità: il ragazzo napoletano, quello più irrisolto dei due, un po’ spaccone, è la chiave per scardinare la chiusura del ragazzo toscano.
Il Pesce Toro è quindi anche una storia d’amicizia.
Nel cortometraggio ho voluto sovrapporre il sentimento di libertà con quello di amicizia. Sono legatissimo ai miei amici e ho provato a rappresentare la potenza salvifica che il legame con gli altri può avere. Il senso è quello secondo cui, a volte, solo tramite l’amicizia con qualcuno riesci ad avere la consapevolezza della situazione in cui sei.
Il finale del cortometraggio si presta a più letture, qual è quella che senti più tua?
Molti hanno letto il finale come un vero e proprio suicidio, ed è una lettura validissima. L’ambiguità porta anche a questo. Tuttavia, la mia idea contemplava anzitutto la rappresentazione della fuga come ricerca, e non come scappatoia da se stessi. In questo senso il titolo ha un suo valore specifico: non è altro che una bugia bianca che permette una via di fuga. E, come ho detto, spesso è proprio la relazione con qualcun altro a permetterti di vederla e percorrerla.
Quali sono gli autori a cui ti sei ispirato?
Un autore che amo molto, anche se appartiene al campo della letteratura, è Camilleri, perché è abile in quello che vorrei fare io: sapersi innestare su un genere, rendendolo personale. Dal cinema, cito invece un grande del passato: Ettore Scola. Il suo modo di indagare le relazioni umane mi affascina.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Come ti ho detto, amo il mare e infatti sto lavorando a un corto dal titolo Amarena, che tratterà dell’incontro di due coniugi in un porto. Ammetto però che il cortometraggio è un formato che mi sta strettissimo, anche se è un’eccellente palestra. Sono un grande amante dei tempi lunghi, sia come spettatore che come autore, quindi spero di dedicarmici in futuro.