Per il giovane regista pugliese Saverio Cappiello la provvidenza è la mano che guida sia il cinema che la vita; la camera può solo fermare gli istanti di felicità concessi poco prima che tutto crolli, attimi che si codificano in un linguaggio cinematografico sperimentale ma sempre puro.
Andando a fondo nei suoi lavori come Mia sorella, Jointly Sleeping in Our Own Beds, La vita mia e Celentano non può andare in barca, scopriamo che il nodo nevralgico, il fulcro del suo cinema reale e intimista, sono le relazioni e a volte il loro fallimento. Al centro delle storie c’è sempre una precisa sfumatura di solitudine che accomuna Pauline, Celentano, Vanni, la nonna che scorda (o dice di aver scordato) le atrocità dei campi di concentramento e Saverio stesso.
Qual è stato il tuo primo approccio al cinema?
Sin dai tempi del liceo ho avuto la necessità di scrivere racconti e poesie. Era un’esigenza forte perché la scrittura era un filtro che mi permetteva di trovare la bellezza nella realtà che mi circondava. Man mano che pubblicavo i miei primi testi su riviste ai tempi dell’Università, ho avuto la prima forte urgenza di cambiare mezzo. Il pubblico che ne usufruiva era assai specifico e mi dispiaceva che questa mia ricerca della bellezza in quei luoghi venisse totalmente persa dalle persone che mi avevano ispirato. Non voglio entrare troppo nel merito, ma penso che il cinema abbia avvicinato i protagonisti all’opera.
In Jointly Sleeping in Our Own Beds, i due protagonisti (tu e Pauline) vivono una relazione molto moderna, via chat e Skype. Ci sono varie gradazioni di distanza tra te e lei: la lingua, lo schermo, la posizione geografica, eppure dormire insieme è una vicinanza così intima da annullare di colpo ogni barriera. Più che un film di critica sociale, mi sembra la visione poetica di un discorso amoroso.
Sì, dici bene. Non volevo raccontare niente di più che una storia d’amore. Sono consapevole che la peculiarità della relazione che ho avuto con Pauline possa suscitare riflessioni sulla società e sono sempre contento di sentirmele dire, ma non è quello che ho voluto raccontare. Anzi, ho cercato di dimostrare che la magia della realtà digitale esiste nella stessa misura della realtà fisica. Forse c’è qualcosa di ancora più bello.
Il tuo è un cinema del reale intimistico, caratterizzato da una visione molto personale del presente. Per Pasolini il cinema era un’esplosione del suo amore per la realtà, per Truffaut invece era un tradimento. Tu la realtà la racconti o la tradisci?
I cineasti sono sempre stati ossessionati dalla realtà. Il documentario negli ultimi venti anni – da quando è entrato di prepotenza nei festival e nelle sale – ha mostrato quanto l’idea che avevamo della realtà fosse limitata. In un documentario possono capitare cose impensabili, coincidenze assurde che non potresti mai permetterti di scrivere in un film di finzione perché considerate inverosimili. E la verosimiglianza è un codice che ci siamo costruiti nel cinema per capirci a vicenda agevolmente, ma non ha niente a che fare con ciò che è reale. Siamo ossessionati, come registi, perché tendere alla realtà è come allungare il braccio verso l’infinito. Per me non è raccontabile nella sua interezza ed è presuntuoso pensare di poterla tradire, perché si tradisce già da sola, continuamente.
Ti sei prestato anche come attore per il videoclip di Adesso, brano sanremese di Diodato e Roy Paci che affronta la stessa tematica di Jointly Sleeping, di cui sei tu stesso protagonista. Essere diretto da qualcun altro è un’esperienza che rifaresti?
Non credo di essere un buon attore e nemmeno mi piace particolarmente essere diretto da altri registi, a meno che non mi lascino molta libertà. Le esigenze di quel videoclip però mi avevano dato la possibilità di improvvisare e di lavorare con Sara Mondello. Avevo presentato da pochi mesi Jointly Sleeping a Pesaro ed ero fresco dell’esperienza. Credo, con il videoclip, di aver chiuso il ciclo di ricerche sull’amore a distanza.
Sei co-fondatore del collettivo di registi Santabelva, di che si tratta?
Santabelva è nato quando vivevo a Milano. È un collettivo formato da Niccolò Natali, Henry Albert, Gianvito Cofano, Nikola Lorenzin e me, un patto di sangue dove ci supportiamo sempre, unendo le energie anche sul lavoro, per sentirci meno alienati. Un problema comune quando sei in città come Milano. Con loro ho provato una regia a quattro teste, con il montaggio di un altro Santabelva ad honorem, Alessandro Belotti, su un documentario dal titolo Corpo dei giorni. Il documentario intreccia storie di vari personaggi confinati in un casale sperduto, tra i quali un ex terrorista all’ergastolo.
Mi parli delle esperienze fatte nelle residenze artistiche?
È un’opportunità straordinaria per i giovani autori. Ho realizzato Mia sorella all’interno di una residenza artistica a Enziteto dove, però, giocavo in una zona che conosco molto bene e grazie al quale ho avuto diversi riconoscimenti, tra cui anche la candidatura ai David di Donatello. Una sorpresa, visto che il budget non è mai il forte delle residenze artistiche, ma grazie a questo spirito di adattamento emergono spesso altre qualità dei lavori come la sincerità e l’urgenza. Laguna sud, la residenza artistica di Andrea Segre, è stata un’altra sfida perché andavo in un posto che non conoscevo affatto, Chioggia. Lì ho incontrato Loredano (aka Celentano) che guardava il mare fischiettando un motivo malinconico e in pochi giorni ho creato una storia, girato e montato tutto da solo. Il tutoraggio di Andrea Segre è stato indispensabile, tra l’altro in Celentano non può andare in barca ho lavorato con diversi personaggi comparsi nel suo film Io sono Li.
La Calabria Film Commission insieme a Picture Show e Verso Feature sta producendo la tua opera prima, L’altra via, cosa ci puoi dire di questo progetto?
L’altra via è la storia di un incontro tra un calciatore disilluso di serie C, che entra nel mondo del calcioscommesse per mantenere il suo stile di vita, e un ragazzino che vede in lui un idolo, all’oscuro degli affari con la malavita locale. È un film che ha come sfondo i giorni precedenti all’inizio del mondiale di calcio del 1990, nella periferia di Catanzaro. Mi piacerebbe creare un tempo sospeso tra il passato e il presente, un 1990 con i pezzi dei Gazosa alla radio, e la vecchia poesia del calcio dove l’atmosfera viene retta dalle relazioni umane e sospinta da un vento di realismo magico.
Hai altri film in cantiere?
C’è un film che ho sempre voluto fare ed è sempre stato in cima ai miei pensieri. È una storia che ho scritto dieci anni fa, una stesura molto sofferta. È tuttora sofferto e complesso il suo adattamento cinematografico che stavo realizzando con Martina Di Tommaso, scomparsa recentemente. Lei più di ogni altro ha creduto in questo soggetto. La bella è una fiaba nera sospesa nel tempo. Parla di Laura che vive a Ponto, una città pugliese, con il fratello Tano. Qui persiste un’antica morale che si tramanda di generazione in generazione e che vede di cattivo occhio l’etica moderna, improvvisamente accelerata dall’arrivo di internet. Laura, dunque, che è figlia di questa nuova etica, si trova a scegliere se credere nella magia e accettare l’antica morale, oppure fuggire distante nella favola della modernità, che si dimostra anch’essa malata e feroce.