Futures Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 23 Oct 2024 14:23:48 +0000 it-IT hourly 1 Dalla SIC 39 il talento di Innocenti, Talarico e Manzato. Giovani, ribelli, digitali https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/dalla-sic-39-il-talento-di-innocenti-talarico-e-manzato-giovani-ribelli-digitali/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/dalla-sic-39-il-talento-di-innocenti-talarico-e-manzato-giovani-ribelli-digitali/#respond Mon, 07 Oct 2024 08:05:57 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19385 Conviene sempre ragionare con calma sui corti vincitori della Settimana Internazionale della Critica veneziana (SIC 39), che l’anno prossimo compirà appunto i suoi primi 40 anni. Nella selezione lungometraggi sette sono stati i film in concorso, tra i quali l’unico italiano Anywhere Anytime, di Milad Tangshir, di cui abbiamo parlato durante la kermesse, risultato vincitore […]

L'articolo Dalla SIC 39 il talento di Innocenti, Talarico e Manzato. Giovani, ribelli, digitali proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
Conviene sempre ragionare con calma sui corti vincitori della Settimana Internazionale della Critica veneziana (SIC 39), che l’anno prossimo compirà appunto i suoi primi 40 anni. Nella selezione lungometraggi sette sono stati i film in concorso, tra i quali l’unico italiano Anywhere Anytime, di Milad Tangshir, di cui abbiamo parlato durante la kermesse, risultato vincitore del Premio Luciano Sovena alla Miglior produzione indipendente, e poi volato al Toronto Film Festival. In più sono passati su questa sponda del Lido due titoli fuori concorso, come eventi di apertura e chiusura.

Per il cinema breve alla sezione Sic Short Italian Cinema partecipavano soltanto opere di produzione italiana. Ci sono stati due corti d’apertura, sette in concorso e un titolo di chiusura. Mentre la giuria era composta da: Giulia Achilli, giovane producer con l’Orso d’Argento per Disco Boy nel curriculum; l’eclettico regista Simone Bozzelli, vincitore dell’MTV Music Award 2022 per il videoclip I wanna be your slave dei Måneskin, e del quale già parlammo riguardo alla sua opera prima Patagonia; e infine Elena Ciofalo, project manager dell’associazione AIACE per le attività del Centro Nazionale del Cortometraggio.

Il Premio al Miglior cortometraggio – Frame by Frame è andato a Things That My Best Friend Lost, di Marta Innocenti. Sono messaggi whatsapp quelli che ascoltiamo mentre la regista ci srotola immagini di rave, backstage e soprattutto post party. Le parla un suo amico che li organizza e la invita affettuosamente a tornare ad ogni nuova data. Questo flusso telefonico di coscienza è l’incipit per marcare sul cosiddetto Decreto Rave, diventato legge a fine 2022. Il senso si fa politico passando per un atto che spostava l’attenzione dall’utilizzo e determinazione della proprietà privata in disuso alle feste illegali a base di sostanze psicotrope altrettanto illegali. Il linguaggio utilizzato da Innocenti morde un documentarismo di presenza digitale con voce fuoricampo, una ricostruzione apparentemente elementare che a volte ha sembianze da storia Instagram. Ritmi forsennati ma nei toni morbidi, quasi giocosi di questo amico toscano che messaggia, e tra le spire di suoni aggressivi dalle casse si nasconde invece un naturale bisogno d’aggregazione giovanile, quella stessa voglia di libertà generazionale, cooperazione, ricerca di sé, di liberazione e scarico d’energia che a livello mediatico c’insegnò nel novecento la lezione di Woodstock.

In un certo senso si spinge negli stessi territori formalmente liminali At List I Will Be 8 294 400 Pixel, ma calcando di più la mano. Il corto di Marco Talarico è la soggettiva con la voce di una ragazza. Tutto ciò che vediamo viene da filmati manipolati tramite l’intelligenza artificiale da un ragazzo solitario e nostalgico che fa un viaggio in Georgia, rimodulandoci sopra i ricordi di una realtà su misura. Sembra la prova tecnica per un ideale prequel spin-off di Her, il film di Spike Jonze dove un ramingo cuore solitario s’innamorava della voce del suo sistema operativo.  At List I Will Be 8 294 400 Pixel è stato premiato per il Miglior contributo tecnico – Fondazione Fare Cinema. Enigmatico fino al midollo, lungi dall’immediata comprensione senza doverose spiegazioni, e nonostante tutto, persistentemente nebuloso quanto un cyberpunk della prim’ora, risulta oggi più una forma di cinema da laboratorio ancor prima che sperimentale. Quasi un’opera allucinatoria prima che di un lavoro in AI. Una sorta di officina aperta dove lo sguardo si muove come fosse un corpo in piena autopsia. Il piccolo viaggio audiovisivo concettuale si distacca anche dalle raffigurazioni in videoarte, le più sguinzagliate dalle grammatiche di montaggio e messa in scena. Formalmente di potenziale interesse ma dal contenuto scarno e inconcludente. Men che meno andrebbe considerata opera filmica in tre atti o quantomeno legata al raggiungimento di un classico climax. Ma si accomuna con il primo corto per l’utilizzo visivo di soggettive spiazzanti e degli storytelling più da reel sui social che propriamente da racconto cinematografico.

E se il cinema stesse iniziando a rivedere sé stesso unendo la iper-soggettività dello sguardo social alle nuove possibilità di manipolazione offerte dall’AI? Sembrano porci questa domanda i corti premiati alla Settimana della Critica di Venezia. Però a questo proposito, dal punto di vista narrativo risulta più completa l’opera d’apertura e fuori concorso di Andrea Gatopoulos, perché si presenta con una drammaturgia più chiara e lineare. The Eggregores’ Theory percorre l’esplosione distopica di un virus che cambia il mondo contagiandolo attraverso le parole scambiate. Oltre alla tagliente metafora su un’incomunicabilità globale, con il suo corto il regista mette in montaggio immagini ferme in bianco e nero a metà strada tra fotografia e disegno, dove i ritocchi vanno ben oltre il photoshop ma rivelano mutazioni grafiche e morfologiche da AI appunto. Un ottimo utilizzo per scavallare gli altrimenti costosissimi effetti visivi dell’oramai dominante computer graphic e al tempo stesso mantenendo una confezione che potremmo definire digital artigianale.

Dopo questa breve divagazione su un fuori concorso che forse un premio lo avrebbe meritato, concludiamo il nostro percorso Sic tra le avanguardie del cinema breve italiano con l’ultimo dei premiati, Nero Argento, vincitore per la Miglior regia – Stadion Video. Quattro giovani writers vivacchiano tra i binari di una grande stazione e la fitta boscaglia che li ospita insieme a fagiani che rischiano pallini dai cacciatori. Siamo sempre ai bordi della legalità, una condizione squatter vissuta con purezza e ingenuità quasi infantili di questi adolescenti che si aggirano come folletti ribelli con le loro anime anarchiche. Da una storia tutto sommato sempliciotta Francesco Manzato mette insieme un piccolo film di finzione che sembra un documentario low budget, di quelli d’assalto. Quasi tutto è in presa diretta e girato con tante soggettive con il telefono. E anche qui l’immediatezza e la malleabilità di questo stile di ripresa, anche partendo dal grande schermo, ci sbatte nel mondo fuori dalla sala, senza più filtri e con nuovi codici. Come un social.

 

 

L'articolo Dalla SIC 39 il talento di Innocenti, Talarico e Manzato. Giovani, ribelli, digitali proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/dalla-sic-39-il-talento-di-innocenti-talarico-e-manzato-giovani-ribelli-digitali/feed/ 0
Alice Ambrogi e il suo cinema militante: “il corpo è politico” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/alice-ambrogi-e-il-suo-cinema-militante-il-corpo-e-politico/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/alice-ambrogi-e-il-suo-cinema-militante-il-corpo-e-politico/#respond Wed, 31 Jul 2024 09:27:32 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19244 Alice Ambrogi, 24 anni, pensa che il cinema debba essere politico oggi più che mai, e se racconta storie a volte grottesche ed esasperate è per far capire a tutti che la realtà spesso è diversa da quello che sembra. Ha firmato la regia e la sceneggiatura di Farfalle nello stomaco, un cortometraggio grottesco che […]

L'articolo Alice Ambrogi e il suo cinema militante: “il corpo è politico” proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
Alice Ambrogi, 24 anni, pensa che il cinema debba essere politico oggi più che mai, e se racconta storie a volte grottesche ed esasperate è per far capire a tutti che la realtà spesso è diversa da quello che sembra. Ha firmato la regia e la sceneggiatura di Farfalle nello stomaco, un cortometraggio grottesco che vede come protagonista Marcello FonteSPOGLIATI, documentario che narra le vicende della Kiki House of Windowsen e lo scenario della Ballroom italiana. Baby Moon Park, il suo lavoro finale alla RUFA, è distribuito da Première Film ed è stato selezionato in numerosi festival tra i quali il Giffoni Film Festival e Visioni Italiane.

Hai trovato nell’estetica grottesca la tua dimensione: quale percorso hai seguito per arrivarci?

L’idea per Farfalle nello stomaco è nata da un connubio insolito: da un lato avevo visto da poco Il pasto nudo di Cronenberg, dall’altro ero affascinata da una leggenda orientale che riguardava il mondo delle farfalle. Baby Moon Park invece è un progetto molto più personale, ho voluto raccontare qualcosa di me e delle persone a me care insieme a qualcosa di creato solo dalla mia immaginazione. Ho così dato vita a un mosaico di storie che, seppur esagerato, risultasse reale e credibile. In generale, il mio processo creativo inizia immaginando un personaggio, che poi studio a fondo per diventarne amica e conoscere tutto di lui: le abitudini, le fissazioni, le paure, i segreti, i sogni e i desideri, soprattutto quelli di cui si vergogna. Solo dopo averlo compreso appieno metto a fuoco la storia. Esaspero la realtà per renderla visibile agli occhi più distratti e annoiati. Questa esagerazione mi permette di catturare l’attenzione del pubblico, talvolta anche disturbandolo, svelando così aspetti della condizione umana attraverso una lente deformante che, paradossalmente, li rende più autentici.

SPOGLIATI è un documentario che narra le vicende della Kiki House of Windowsen e lo scenario della Ballroom italiana tra il 2021 e il 2023, spaziando tra Roma, Napoli e Milano. Cosa ti ha portato da Gian, Morgan, Sasha e Concetta e perché hai deciso di raccontare le loro storie?

Aver avuto la possibilità di girare un documentario che pone al centro le vite, le difficoltà di affermazione e posizionamento sociale della comunità LGBTQIA+, non è stato solo necessario ma doveroso. Ha significato poter fornire una testimonianza di come la conquista dei diritti non si attui solo attraverso lo schermo di un telefono, ma la si faccia camminando, performando, mettendo in scena un mondo parallelo in cui la lotta è forse superata, ma resta fondamentale come memoria storica e sociale. Non solo, con SPOGLIATI ho voluto evidenziare l’urgenza di rivendicare la proprietà che ognuno ha del proprio corpo inteso come strumento politico, performativo, fluido e indipendente con il quale si possono sovvertire le regole imposte da una società patriarcale ed eteronormativa che non è più possibile accettare. Le storie di Gian, Morgan, Sasha e Concetta sono l’emblema di questa urgenza. Ognun* di loro ha una storia complessa alle spalle, ognun* di loro è stat* vittima di hate crimes, ognun* di loro ha lottato incessantemente senza mai mollare, ognun* di loro ha trovato una rinascita e un senso di rivalsa all’interno della Ballroom, scoprendo una comunità forte e accogliente. Chi meglio di loro, allora, per raccontare questa storia?

Alice Ambrogi
Alice Ambrogi.

Preferisci creare un legame o mantieni una certa distanza dai soggetti dei tuoi lavori?

In quanto regista, ritengo essenziale sviluppare sempre un rapporto di amicizia basato sulla totale fiducia reciproca con i protagonisti delle storie che racconto. Per narrare una storia in maniera autentica e credibile è fondamentale che i soggetti si sentano a loro agio davanti alla telecamera. Prima di iniziare le riprese di un documentario occorre trascorrere del tempo con i propri soggetti, senza camere né troupe, imparando a conoscersi e sviluppando un rapporto intimo. Bisogna raccontarsi gradualmente e io devo a mia volta dare qualcosa: per guadagnare la loro fiducia devo aprirmi io per prima, mostrandomi vulnerabile e sincera. Solo così si può ottenere un dialogo trasparente e autentico quando le telecamere poi si accendono. Con i/le ragazz* della Kiki House of Windowsen non è stato difficile, ci siamo compresi fin dal primo momento in cui abbiamo iniziato a parlare. Credo che quello che ci legato di più è stato condividere lo stesso obiettivo, ma anche la stessa rabbia e sete di rivalsa. Avevamo tutt* il desiderio di urlare: “Siamo qui e non ce ne andiamo. Guardateci, notateci, rispettateci!”.

Ti senti più a tuo agio con la fiction o la non fiction?

È una domanda che ultimamente mi sono posta spesso. Devo ammettere, non senza vergogna, che quando ho iniziato il mio percorso non avrei mai immaginato di appassionarmi al documentario, che ritenevo un valido ripiego solo nell’eventualità di un fallimento nel cinema di finzione. Ero convinta che l’unica “essenza” del documentario fosse quella informativa ed educativa, ignoravo l’esistenza di una potente componente artistica, poetica e simbolica. Dire che mi sono ricreduta sarebbe riduttivo: barcollavo nella totale ignoranza di un luogo così ricco d’inventiva, così libero da ogni schema prestabilito, un mondo fluido e accogliente nel quale poter riversare la mia creatività.

Baby Moon Park è la storia di Violante, una giovane donna che lavora in un parco giochi e vive una crisi in seguito a un aborto. Ne racconti le varie le contraddizioni, il trauma e soprattutto le scelte. Pochissimi corti affrontano questo tema, soprattutto con il clima politico attuale che preferisce una narrazione a senso unico.

Quando ho iniziato a scrivere la storia di Violante, non sapevo ancora che avrei raccontato la storia di un aborto. La mia priorità era creare una narrazione che ingannasse lo spettatore, costringendolo a contraddirsi e a riflettere sui suoi pregiudizi. Volevo dar vita a un personaggio che al principio venisse etichettato come un mostro, qualcosa contro natura. Perciò dovevo trovare un espediente narrativo che portasse ogni mente benpensante a concordare con un giudizio così estremo. Viviamo in una società che ha un forte pregiudizio nei confronti delle donne che scelgono di non avere figli: quando una donna decide di non averne, viene spesso considerata incompleta o egoista poiché si allontana dall’idea convenzionale della femminilità. Così, ho deciso di creare Violante, una donna che odia suo figlio, o almeno questo è ciò che sembra. Con il progredire del corto, però, il pubblico si ritrova inevitabilmente a empatizzare con la stessa donna che pochi minuti prima aveva disprezzato, scoprendo che la realtà è più complessa. Alla fine si svela che Violante non ha mai avuto un figlio. A causa di una scelta molto difficile, ha perso il controllo e – forse per proteggersi da un dolore troppo profondo – si è distaccata dalla realtà. In questo modo conduco il pubblico a empatizzare ulteriormente con la protagonista: lo spettatore è costretto a rivalutare la propria opinione, trasformando colei che all’inizio sembrava un mostro nella vittima di una società giudicante e selettiva.

Alice Ambrogi Spogliati
Un’immagine da “Spogliati”.

«Madre è l’anagramma di merda» è una frase che pronuncia Violante parlando con l’amica Sharon.

Io e Clara Greco, l’attrice che interpreta Violante, abbiamo costruito insieme questo personaggio. Siamo partite dalla sceneggiatura per poi cesellare gli ultimi particolari durante le prove precedenti alle riprese. Ho scelto Clara per vari motivi: al tempo aveva poca esperienza sui set cinematografici e un’impostazione più teatrale, ma è comunque riuscita a indossare subito gli abiti di Violante dimostrando un talento sconcertante. Mi ricordo ancora una frase che mi ha detto in uno dei nostri primi incontri: «i figli non sono una proprietà, sono qualcosa di autonomo e distinto, a sé stante».  Ho capito che Clara era Violante e che la mia ricerca era finita.

Violante indossa una t-shirt che recita: Are you in a film or in reality? Citi Godard, un po’ è uno scherzo e un po’ è metacinema?

La scelta della maglietta è avvenuta quasi per caso. La costumista me l’ha proposta e io ho accettato, l’ho trovata buffa e adatta. Solo dopo, a corto non solo girato ma anche post-prodotto, mi sono resa conto del significato simbolico della scritta. Violante sta male, persa in un delirio che non le permette di distinguere la realtà dalla finzione. Quale maglietta poteva essere più appropriata per esprimere un concetto simile? L’obiettivo del corto è proprio quello di invitare lo spettatore a essere più clemente e paziente nell’esprimere un’opinione, perché spesso la realtà non è come sembra. E poi, cos’è la realtà? Quali sono i parametri per riconoscerla?

Il tuo lavoro sembra essere soprattutto politico, militante: parli di aborto, dell’abolizione del Ddl Zan, di salute mentale, di diritti. Credi che sia possibile fare cinema politico oggi?

Ho sempre considerato il cinema non solo come un mezzo di intrattenimento, ma anche e soprattutto come uno strumento di espressione accessibile a tutti, indipendentemente dall’estrazione sociale e dal livello di istruzione. Il cinema offre la possibilità di condividere pensieri e idee, dunque quale strumento migliore per parlare di diritti? Credo che oggi più che mai sia non solo possibile ma necessario fare un cinema militante, affrontare temi legati all’urgenza di un cambiamento politico e sociale. Credo sia più facile farlo in un contesto indipendente, dove non ci sono vincoli e si è liberi di esprimere le proprie idee senza scendere a compromessi. Molti registi hanno paura di compromettere la propria carriera e, da un punto di vista meramente egoistico, è sicuramente più facile chinare la testa e restare in silenzio. Non nego che un po’ invidio chi riesce a farlo e a essere in pace con sé stesso, è qualcosa che io non sono mai riuscita fare.

Hai collaborato spesso con Luca Martella, mostrando grande attenzione verso la musica. Quanto è importante l’originalità per te?

Per me la musica e il suono in generale sono la colonna portante del cinema. Rappresentano quell’elemento senza il quale il cervello umano faticherebbe a dissociarsi dal mondo reale e lasciarsi trasportare in un nuovo universo. L’importanza dell’originalità della colonna sonora dipende dalle esigenze narrative del progetto su cui sto lavorando: ad esempio in SPOGLIATI, trattandosi di un documentario che racconta di una comunità, sarebbe stato fuori luogo alterare le musiche che hanno contribuito a formarne la cultura. Ho collaborato con Luca come sound designer su ogni mio progetto e in Baby Moon Park si è occupato anche della creazione delle musiche originali. Abbiamo lavorato a lungo su questo aspetto: inizialmente faticavamo a trovare il giusto equilibrio tra le mie influenze post punk e le esigenze narrative del corto che richiedevano invece qualcosa di più mistico e trascendente, capace di guidare il pubblico attraverso l’arco narrativo della storia. Il compromesso è stata la traccia con cui il corto si chiude, fortemente ispirata a Inno del perdersi dei Verdena. In generale, credo che la parola chiave in una collaborazione artistica sia proprio questa: empatia. Senza, è impossible lavorare insieme in modo efficace.

Quando lavori ai tuoi progetti hai un target preciso in mente?

Il pubblico che preferisco raggiungere e con cui ho un riscontro più significativo sono le persone che incontro per strada, al ristorante, al bar, in piazza, la gente comune. Con SPOGLIATI il mio obiettivo era raggiungere i membri della comunità LGBTQIA+ che sono quotidianamente vittime di oppressione, hate crimes, discriminazione. Volevo raggiungere le persone che hanno bisogno di una comunità per sentirsi accettate e protette e che forse non sanno nemmeno che ne esiste una per loro. Per questo motivo ho proiettato il film in ogni centro sociale e Circolo Arci che si è mostrato interessato, soprattutto per raggiungere i giovani.

Fra poco uscirà il tuo nuovo progetto, un docufilm in collaborazione con il dipartimento di salute mentale dell’ASL Roma 1.

Con il dottor Gianluigi Di Cesare ci siamo posti l’obiettivo di esplorare il delicato tema della salute mentale nei giovani, sfidando i pregiudizi sociali e combattendo le narrazioni erronee che spesso vengono associate all’argomento. Nel film affrontiamo diversi temi: dagli ostacoli che nascono dalla mancanza di comunicazione intergenerazionale alla paura del giudizio sociale e molto altro ancora. A mio avviso, una delle particolarità di questo progetto è che sia stato realizzato interamente da under 30. I protagonisti del film hanno un’età che spazia dai 16 ai 23 anni e la fantastica squadra che ho formato è altrettanto giovane, nessuno di noi supera i 27 anni. La trovo una cosa bellissima.

La versione completa di questo articolo è apparsa su Fabrique du Cinéma n. 44. Abbonati qui per restare sempre aggiornato sulle novità del cinema italiano. 

L'articolo Alice Ambrogi e il suo cinema militante: “il corpo è politico” proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/alice-ambrogi-e-il-suo-cinema-militante-il-corpo-e-politico/feed/ 0
Silvia Clo Di Gregorio, dall’indie romano (che non esiste più) al Love Club https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/silvia-clo-di-gregorio-dallindie-romano-che-non-esiste-piu-al-love-club/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/silvia-clo-di-gregorio-dallindie-romano-che-non-esiste-piu-al-love-club/#respond Mon, 23 Oct 2023 15:22:25 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18765 Si è distinta nell’ambito della fotografia analogica, nell’arte contemporanea, nei video musicali e nella pubblicità. Silvia Clo Di Gregorio è nata a Verbania tra le Alpi e il Lago Maggiore, si è laureata in Arti e Scienze dello Spettacolo alla Sapienza di Roma, ha frequentato la Summer School in Filmaking alla Btk University di Berlino […]

L'articolo Silvia Clo Di Gregorio, dall’indie romano (che non esiste più) al Love Club proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
Si è distinta nell’ambito della fotografia analogica, nell’arte contemporanea, nei video musicali e nella pubblicità. Silvia Clo Di Gregorio è nata a Verbania tra le Alpi e il Lago Maggiore, si è laureata in Arti e Scienze dello Spettacolo alla Sapienza di Roma, ha frequentato la Summer School in Filmaking alla Btk University di Berlino e un master in Advanced Cinematography a Milano, ma continua a studiare.

Spicca come regista nella scena videomusicale indipendente e l’abbiamo vista tutti sorridere e ballare nell’iconico videoclip Oroscopo di Calcutta, diretto da Francesco Lettieri. In qualità di sceneggiatrice, con Bex Gunther e Denise Santoro insieme a Veronica Galli e Tommaso Triolo ha creato Love Club, la serie in quattro episodi diretta da Mario Piredda e disponibile su Prime Video.

Parlami del tuo rapporto con la forma videoclip, che ha caratterizzato l’inizio del tuo percorso.

La musica è sempre stata familiare per me, a casa si suonava e si cantava sempre. Suonicchiavo anche io, non tanto bene, ma sapevo le basi. Inserirmi nel mondo del videoclip è stata una sfida continua, riuscire a creare con poco budget delle piccole storie, con scenografie fatte in casa, un approccio “do it yourself” che ha settato anche il mio stile. Anche se dovessi avere milioni di euro per il mio primo film [ride ndr], la scenografia sarebbe artigianale, legata a un mondo indie che mi appartiene, che mi ricorda un po’ il realismo magico di Julio Cortàzar e l’immaginario infantile che non mi ha mai abbandonato.

Di te si dice che fai parte di quella manciata di persone che hanno inventato la scena romana indipendente. A distanza di qualche anno, come è cambiata quella scena?

Alle Mura organizzavo Margarina, un evento mensile dove si esibivano donne musiciste, tra cui Laila Al Habash, Chiara Monaldi, Iruna, In.versione Clotinsky e tante altre. Vivevo a San Lorenzo e c’era davvero un bel giro tra lì e il quartiere Pigneto. Sapevo che era un momento florido per la musica e quindi anche per i videoclip, si respirava tanta libertà nella creazione artistica, e lo si può vedere sia dagli album usciti negli anni 2016-2017 sia nella regia dei videoclip di quel periodo. C’era una bellissima atmosfera, io facevo ancora gavetta per i più “grandi” come Motta, Thegiornalisti e iniziavo a fare regia o fotografia per i più “piccoli”, all’epoca i Pinguini Tattici Nucleari, Giorgio Poi e Frah Quintale, e c’erano amici e nuove voci come Galeffi, Vanbasten, Canova, Gazzelle, I Cani e tanti altri. La scena indie non esiste più, è stato un periodo molto breve, e lo dico non solo perché la maggior parte di loro lavorano con le major, chi come artista chi come autore o entrambe le cose, ma anche perché anche a livello di locali hanno chiuso davvero la maggior parte dei magici luoghi dove si suonava (e questo non vale solo per Roma, ma anche per Milano e altre città d’Italia).

Pollo all’ananas ’98 è il tuo primo cortometraggio: perché hai scelto di raccontare proprio una storia di immigrazione ambientata in un ristorante cinese di provincia?

Pollo all’ananas ’98 l’ho scritto a 25 anni, durante la pandemia. L’abbiamo girato a giugno 2022 in due giorni e mezzo a Torino, è stato prodotto da Cattive Produzioni e Spicy Storm Production con il finanziamento del Mic e della Piemonte Torino Film Commission. In realtà deve ancora uscire, siamo alla ricerca dell’anteprima per i festival. Come ogni primo corto, non è perfetto, ma quando lo guardo mi dà una gioia immensa. Anche questa storia è ispirata alla mia infanzia: siamo nel 1998 e i miei genitori, immigrati dal centro-sud al nord, sono tra i pochi che frequentano il ristorante cinese di Verbania. Per festeggiare la promozione di mia sorella siamo andati a mangiare cinese, insieme ai miei nonni. Questo ricordo è ovviamente solo l’ispirazione iniziale del corto, che prende una piega molto diversa, spingendosi verso un finale grottesco, ironico e artigianale, proprio nel mio stile.

Quale tabù ti piacerebbe infrangere sul grande schermo?

Immagino che per molti già Love Club è pieno di tabù che abbiamo infranto, nonostante non ci fosse nessun intento di sconvolgere. Sono convinta che i corpi di molte persone e le loro scelte di vita sono di per sé un tabù per tanti. Mi piacciono le storie contraddittorie, che non riflettono quello che ti aspetti, che ti risvegliano in qualche modo. Mi accorgo, soprattutto nei libri scritti da voci incredibili come La cronologia dell’acqua, La breve favolosa vita di Oscar Wao, L’interprete dei malanni o Denti bianchi (sono letteralmente gli ultimi libri che ho letto e che mi sono piaciuti), che hanno un fil rouge di autenticità e di arguzia, con storie vicine agli scrittori, spesso le loro, frutto di traumi e ferite.

Quanto credi che i trend, i social e le mode del momento influenzino il tuo lavoro e la tua estetica?

Ci sono dei trend che mi influenzano, ma allo stesso tempo mi distacco dal mondo social perché sono ossessionata da storie e personaggi che non hanno nulla a che fare con quello che va di moda. Da Bridget Jones a Pedro Infante passando per i mormoni e l’immigrazione cinese in Italia. Sono molto umorale e iperattiva, vado a fondo nelle storie, potrei starci anni. Mi piace riprendere quel baule dei travestimenti di quando ero piccola ed essere fluida anche nel mio modo di vestire, di essere, in base a quello che provo.

Com’è stato co-scrivere Love Club?

Quando Denise Santoro nel gennaio 2021 ha detto a me e a Bex Gunther che forse era arrivato il momento di metterci a scrivere una storia sulla nostra comunità, è stato tutto molto spontaneo, come se fosse ovvio, giusto e naturale. Vivevo in una mansarda a Bee, sopra il Lago Maggiore, in attesa che finisse la pandemia e con Bex ci incontravamo online una o due volte a settimana a scrivere. Abbiamo lavorato tantissimo sull’immaginario di ogni personaggio e del quinto protagonista che è il Love Club stesso, a livello visuale con moodboard, booklet, stili, gusti personali, ma anche sulla musica (c’è la playlist di Love Club su Spotify). Poi quando il progetto si è strutturato con Prime e Tempesta, abbiamo creato noi tre, insieme a Veronica Galli e Tommaso Triolo, una writer’s room meravigliosa. Ci hanno capito subito, e ci hanno aiutato a strutturare al meglio la serie in così poco tempo. In nove mesi abbiamo creato Love Club

Una cosa che si capisce dai tuoi lavori è che non imponi una visione ma ti poni in posizione di ascolto e poi guidi la visione che ti restituiscono le persone: in questo modo quello che crei risulta autentico. Cosa possono fare le nuove generazioni di creativi per restare fedeli al reale?

Hai centrato il punto. Non impongo la mia visione, ci arrivo e guido gli altri. Shi Yang Shi mi ha scritto un messaggio molto bello dopo il lavoro insieme su Pollo all’ananas ’98, ringraziandomi per la mia “morbida determinazione”. Questo per me è oro, creare delle connessioni tra regia e cast, capirsi, comunicare. Riguardo alle nuove generazioni, quello che dico sempre è di studiare tanto, c’è molto da apprendere e tantissimo da fare. Quindi bisogna partire da lì, io non ho mai smesso di studiare, vorrò farlo sempre. Ora sto prendendo un’altra laurea tra la mediologia e il cinema, approfondendo l’immaginario collettivo del cinema messicano.

Nei primi sei minuti della serie compaiono due scene di sesso. So che sul set c’erano degli intimacy coordinators: cosa pensi di queste figure, le userai sui tuoi set in futuro?

Abbiamo spesso ribadito con Bex e Denise quanto fosse importante avere un approccio autentico alla vita amorosa e sessuale della comunità. Abbiamo voluto presentare una coppia lesbica diversa dallo stereotipo delle butch, mostrare che le lesbiche fanno sesso e che va fatto vedere tanto quanto il sesso eterosessuale (lì legato al tema del consenso – nel terzo episodio). Gli intimacy coordinators sono essenziali, mi è capitato come assistente alla regia di finire tra turbini di imbarazzo, poca comunicazione e colpe assurde date alle costumiste (sono loro che forniscono le protezioni e i famosi “sacchetti”), perché mancava una persona che coordinasse. Per me il miglior modo di lavorare è la trasparenza, la comunicazione, il consenso.

Ti senti pronta per realizzare un lungometraggio o vuoi continuare il tuo percorso nella serialità?

Sto scrivendo il mio primo film, una sorta di rom-com molto indie e autoriale sulla storia di un uomo trans, dal titolo Golden Trans Boy. C’è anche qui molto di personale e molta ironia.

L’ARTICOLO COMPLETO È DISPONIBILE SOLO PER GLI ABBONATI DI FABRIQUE, CLICCA QUI PER ABBONARTI

L'articolo Silvia Clo Di Gregorio, dall’indie romano (che non esiste più) al Love Club proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/silvia-clo-di-gregorio-dallindie-romano-che-non-esiste-piu-al-love-club/feed/ 0
L’allaccio di Daniele Morelli: c’è Rossellini al telefono https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/lallaccio-di-daniele-morelli-ce-rossellini-al-telefono/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/lallaccio-di-daniele-morelli-ce-rossellini-al-telefono/#respond Wed, 10 May 2023 09:48:16 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18433 Daniele Morelli, classe 1994, è uno degli sceneggiatori più interessanti della nuova serialità italiana e attualmente lavora a Roma con diverse case di produzione, tra cui Lotus Production, Publispei e Minerva Pictures. Morelli è laureato in Beni Culturali, Musicali e dello Spettacolo all’Università di Tor Vergata, ha frequentato il Centro Sperimentale, il Master di Fiction […]

L'articolo L’allaccio di Daniele Morelli: c’è Rossellini al telefono proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
Daniele Morelli, classe 1994, è uno degli sceneggiatori più interessanti della nuova serialità italiana e attualmente lavora a Roma con diverse case di produzione, tra cui Lotus Production, Publispei e Minerva Pictures. Morelli è laureato in Beni Culturali, Musicali e dello Spettacolo all’Università di Tor Vergata, ha frequentato il Centro Sperimentale, il Master di Fiction e scrittura seriale della Rai e il programma Biennale College di Venezia. In seguito ha lavorato come assistente alla regia per il film Loro di Paolo Sorrentino e ha diretto vari cortometraggi che si sono distinti per la una regia evocativa ma pulita.

Il suo ultimo corto è L’allaccio (prodotto da Necos Film), miglior cortometraggio e miglior sceneggiatura al Roma Film Corto 2022, una piccola storia vera dal valore universale che racconta il lutto profondissimo di Roberto Rossellini e cosa significa essere figli e padri. Votato al genere giallo, poliziesco e noir, Morelli ha dato prova di una scrittura camaleontica ma sempre profonda, che punta al cuore pulsante delle storie e soprattutto dei personaggi che si fanno carico di raccontarle.

Hai partecipato a due dei più prestigiosi corsi di cinema e fiction in Italia e ti sei formato costantemente in vari workshop e masterclass, mostrando una forte attitudine allo studio della scrittura e del cinema.

Ciò che più mi appassiona e che mi ha spinto ad avvicinarmi a questo mestiere è restituire le emozioni che ho provato vedendo alcuni film e leggendo alcuni libri quando ero più piccolo. Tra i film mi vengono in mente quelli che vedevo con mio nonno, da Batman al Padrino fino alla serie Romanzo criminale, che mi ha fatto amare la serialità. Da lì in poi ho iniziato a documentarmi e a vedere i film e le serie in un’ottica diversa, più chirurgica. Durante il periodo del corso propedeutico del CSC in regia ho avuto la fortuna di avere come docente Piero Messina, da cui ho imparato tanto soprattutto sulla direzione degli attori. Il master Rai, invece, è stato decisivo per la mia formazione professionale come sceneggiatore: ho appreso da vicino gli strumenti necessari per costruire un racconto seriale. Ho imparato molto soprattutto da Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli, sceneggiatori eccezionali che hanno firmato grandi serie come Gomorra, Zero Zero Zero e il più recente Django.

Su quale aspetto ti concentri quando scrivi una sceneggiatura?

Spesso parto dall’osservazione della realtà, da chi mi circonda, da quello che mi accade. La maggior parte delle volte faccio ricerche, leggo giornali, articoli, saggi, mi documento molto su cronaca nera e attualità; spesso le idee nascono proprio dall’incontro tra la realtà e il modo in cui uno la osserva e la reinterpreta. Ma credo che la chiave di questo lavoro sia restituire onestamente la complessità dell’essere umano, di come ogni persona reagisce di fronte a tutto ciò che, nel bene e nel male, offre la vita. Una volta individuata l’idea che mi appassiona, cerco di svilupparla da solo o sempre più spesso in coppia o in gruppi da tre: tra i miei colleghi abituali ci sono Chiara Zago e Edoardo Carboni. Trovo che la fase di scrittura può risultare davvero proficua quando ci si circonda delle persone giuste. E poi mi interrogo molto sul tema del racconto e sui personaggi, ne definisco fragilità, speranze, obiettivi, segreti. E una volta fatto questo, mentre sviluppo la trama, cerco di affidarmi a loro, per far sì che sia la verità di quei personaggi a indicarmi la strada giusta.

La tua regia, così come la tua scrittura, mi sembra molto centrata sui personaggi; inoltre nei tuoi lavori sono ricorrenti i temi della morte e del lutto. Cosa ti interessa indagare?

Per me i personaggi sono il motore pulsante di una storia, sia da sceneggiatore che da regista. Voglio vivere con loro, osservarli da vicino, farmi sorprendere, tentare di costruire un rapporto profondo con loro, con la speranza che tutti i sentimenti che ho provato vengano restituiti con forza allo spettatore. Questa, ad esempio, è stata l’intenzione alla base de L’allaccio. Per convincermi a girare una storia ci devono essere vari fattori in gioco: devo sentire qualcosa a livello istintivo, un collegamento emotivo. Devono esserci temi a cui tengo, l’opportunità di raccontarli in maniera inedita, attraverso una diversa chiave di lettura, un’atmosfera specifica, magari un genere. Qualcosa che mi faccia sentire profondamente mia quella storia.

La storia del telefono di Rossellini è una grande parabola – reale – sul lutto. Conoscevi già questo aneddoto?

Mentre frequentavo il corso propedeutico del Centro Sperimentale lessi la sceneggiatura di Edoardo Carboni e mi innamorai dell’idea. Non conoscevo la storia del telefono di Rossellini e mi colpì subito la situazione paradossale di un uomo che, forse devastato dai sensi di colpa per non essere stato vicino a suo figlio, quando lo perde si auto-rinchiude in una specie di limbo – appunto il cimitero del Verano – e decide che non si muoverà da lì, chiedendo di farsi installare un telefono per poter continuare a lavorare a distanza con i suoi colleghi a Berlino.  L’opportunità di esplorare un tema come l’elaborazione del lutto in una chiave diversa, in un’atmosfera così particolare come quella degli anni ’40 nella mia città, è stata la scintilla che mi ha spinto a voler girare il corto. Da lì in p

oi ho collaborato a una nuova versione della sceneggiatura assieme a Edoardo e abbiamo pensato che potesse essere molto potente raccontare la storia di un incontro: da una parte un padre – Rossellini – che non può più parlare con suo figlio e dall’altra un figlio – Francesco, il telefonista – che non vuole parlare più con il suo di padre per una colpa del passato. Un chiasmo emotivo dove il regista e il telefonista, grazie alla conoscenza dell’altro, si donano qualcosa, riuscendo entrambi ad affrontare i propri demoni personali.

 Parlami del lavoro che hai fatto con Acquaroli e Majorana: com’è il tuo rapporto con gli attori?

Amo lavorare con gli attori, mi piace molto confrontarmi con loro sia prima delle riprese che sul set. Insieme agli attori puoi mettere alla prova la tua sceneggiatura, osservarla da più punti di vista, scoprire sempre cose nuove. Finora ho avuto la fortuna di collaborare con attori molto bravi, da Angelo Spagnoletti e Guglielmo Favilla in Deformazione professionale, fino a Francesco Acquaroli e Federico Majorana ne L’allaccio. Con Acquaroli e Majorana ci siamo confrontati molto sulle intenzioni e gli stati emotivi dei personaggi di Rossellini e di Francesco, il giovane telefonista. Un lavoro che credo sia stato decisivo affinché potessi realizzare il film per come lo immaginavo.

Daniele Morelli L'allaccio

Cosa ti piace scrivere e cosa ami vedere al cinema?

Sono un grande appassionato di cinema di genere. Crime, noir e thriller occupano di sicuro il primo posto tra i generi che più apprezzo e su cui mi sto concentrando di più a livello professionale: l’indagine su un caso ti permette una profonda analisi della complessità dell’animo umano. Oltre ai titoli che ho citato, tra i miei riferimenti ci sono sicuramente True Detective e Mindhunter per le serie, il cinema di David Fincher, fino al Joker di Todd Phillips e Parasite di Bong Joon-Ho.  Allo stesso tempo sono un grande estimatore della commedia all’italiana, come Lo scopone scientifico, che ritengo il proto-Parasite, o di film più intimi come Her, American Beauty, La strada. Diciamo che sono uno spettatore onnivoro. Anche sul lavoro mi piace spaziare tra i generi: dal noir investigativo fino alla commedia dai risvolti amari o al racconto storico o distopico. Perché, in fondo, ogni storia, a prescindere dal genere, parla di persone.

Nel 2017 sei stato assistente alla regia su Loro di Sorrentino.

È stato molto formativo. Per la prima volta ho visto dall’interno gli ingranaggi di una macchina enorme e complessa, manovrata con maestria da un regista che ho sempre stimato e apprezzato. Io ho collaborato attivamente nel reparto AOSM e mi sono occupato di individuare in fase di preparazione, attraverso street casting una serie di volti giusti per il film.  Un’esperienza totalizzante che modifica la tua percezione di vedere il mondo: anche quando sei in giro, al di fuori del lavoro, cominci a escludere ogni volto che non ti sembra interessante. Sul set invece, assieme ad altri collaboratori, mi sono occupato delle figurazioni e del loro coordinamento prima e durante le scene. Un giorno feci partire un pullman con un centinaio di comparse a bordo per dirigerli dal campo base al set: peccato che sul set stavano ancora girando e fortunatamente fermai il pullman in tempo. Per poco non mi sono preso la più grande “cazziata” della mia vita. 

So che stai lavorando a una serie period-crime, di che si tratta?

Attualmente sto lavorando alla scrittura di più progetti di serie con varie società di produzione e in ognuno al centro c’è un’indagine. Uno tra questi, sì, è una serie period-crime ispirata a una storia vera, incentrata sul lato noir del periodo della Dolce vita, che dietro alla superficie glamour che tutti conosciamo nascondeva un lato profondamente oscuro. Per quanto riguarda i film, invece, ho in cantiere un’opera prima incentrata su una storia d’amicizia tra due donne rinchiuse nel manicomio di Teramo ai primi del Novecento e sto lavorando alla scrittura del film Il mondo fuori, del regista abruzzese Lorenzo Pallotta, progetto selezionato tra gli otto finalisti di Biennale College 2022.

L’ARTICOLO COMPLETO È DISPONIBILE SOLO PER GLI ABBONATI, CLICCA QUI PER ABBONARTI A FABRIQUE

L'articolo L’allaccio di Daniele Morelli: c’è Rossellini al telefono proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/lallaccio-di-daniele-morelli-ce-rossellini-al-telefono/feed/ 0
Maundy: il sapore amaro dell’infanzia perduta https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/maundy-il-sapore-amaro-dellinfanzia-perduta/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/maundy-il-sapore-amaro-dellinfanzia-perduta/#respond Mon, 13 Mar 2023 09:13:36 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18267 All’ultima edizione dei Fabrique du Cinéma Awards è la giovane regista canadese Adriana Marchand ad aggiudicarsi il premio per il Miglior cortometraggio internazionale con Maundy, debutto cinematografico della Marchand come sceneggiatrice, regista, produttrice e montatrice. Ambientato in un’atmosfera estiva, il cortometraggio racconta la storia di un ragazzo che osserva lo scorrere della vita attraverso la finestra […]

L'articolo Maundy: il sapore amaro dell’infanzia perduta proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
All’ultima edizione dei Fabrique du Cinéma Awards è la giovane regista canadese Adriana Marchand ad aggiudicarsi il premio per il Miglior cortometraggio internazionale con Maundy, debutto cinematografico della Marchand come sceneggiatrice, regista, produttrice e montatrice. Ambientato in un’atmosfera estiva, il cortometraggio racconta la storia di un ragazzo che osserva lo scorrere della vita attraverso la finestra della lavanderia a gettoni di famiglia. Un giorno alcuni bambini irruenti interromperanno il suo immobilismo, costringendolo ad affrontare i ricordi del passato.

La nostra intervista ad Adriana Marchand ci svela la storia della realizzazione del suo cortometraggio e il suo profondo desiderio di creare un’arte che metta in luce i talenti delle persone che la circondano.

Vincitrice all’ultima edizione dei Fabrique du Cinéma Awards, congratulazioni nuovamente! Sei rimasta sorpresa?

Non mi aspettavo di vincere quella sera, è stato pazzesco. Ho pensato che fosse una bella opportunità per andare in Italia perché è quello che ho sempre voluto, ed è stato fantastico!

Puoi descriverci il tuo percorso per diventare regista?

Ho iniziato con il teatro, perché ritenevo che la strada per entrare in questo mondo fosse la recitazione: come donna, quando si è giovani sembra che l’unica strada percorribile sia diventare un’attrice. Ho studiato recitazione per molto tempo, ma sono sempre tornata al cinema. Ero una cinefila fin da piccola, ricordo che organizzavo dei pigiama party e sceglievo film come La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock. Sono sempre stata molto interessata al design, alla scenografia, alla scultura e alla creazione di spazi. Quando ho capito che potevano interagire con il suono, la scrittura, il dialogo e il movimento, tutto ha avuto senso.

MaundyMaundy è il tuo primo cortometraggio. Sei anche sceneggiatrice, da dove nasce l’idea?

Da una commedia che ho scritto alla scuola di teatro. Avevo in mente una persona che lavorava in una lavanderia a gettoni e che scopriva particolari riguardanti la vita dei suoi clienti attraverso i vestiti che portavano in lavanderia. I protagonisti, Jessie Irving (Mini Maundy) e Rryla McIntosh (Claire), sono i miei migliori amici. Eravamo seduti in salotto e stavamo parlando di idee e opere teatrali. Jessie ha detto che la mia commedia gli sembrava incredibile e qualcosa è scattato.

Parlaci della tua visione registica…

Abbiamo girato a Vancouver, ma c’era un’atmosfera americana. In passato ho sempre lavorato nel campo della moda e dei costumi e gran parte della mia regia deriva anche dal production design, così mi sono assicurata che ci fosse un filo conduttore tra gli abiti, lo spazio e i colori. Molto dipende anche dall’empatia. Ho fatto questo film non per me stessa, ma perché sentivo che molti di noi avevano così tanto da dire e da mostrare come artisti, ma non avevamo mai avuto l’opportunità di farlo nei ruoli assegnati qui a Vancouver. Desideravo dare risalto alle persone di talento che mi circondavano.

La nostalgia dell’infanzia è la linea tematica del suo film. I colori e i sapori richiamano un mondo in cui tutti ci riconosciamo. Ci sono anche ricordi personali?

Certo. Il ragazzo che interpreta Roy, Bradley Mah, mi assomigliava quando ero bambina. Inoltre, sono una persona che ama il cibo, e forse questa diventerà la mia caratteristica come regista: si vede sempre qualcuno che mangia. Abbiamo fatto il tutto esaurito alla prima qui a Vancouver e mi sono assicurata che tutti gli spettatori avessero delle patatine all’aceto e sale. C’è una scena in cui Maundy si siede fuori dalla lavanderia e apre il suo pacchetto di patatine e tutti hanno aperto il loro nello stesso momento. Quest’uomo è molto depresso e mi sono chiesta: “Qual è il cibo più doloroso?”. La Diet Coke, il sale e l’aceto rappresentano il dolore per me, e guardando il film puoi sentirne il sapore.

Quali registi sta seguendo adesso?

Sto guardando molti film di Kelly Reichardt. Di recente ho anche apprezzato My Own Private Idaho di Gus Van Sant. Anche Guy Maddin mi ispira. Per questo film in particolare ho guardato Punch-Drunk Love di Paul Thomas Anderson, Synecdoche, New York di Charlie Kaufman, Gummo di Harmony Korine e molte interpretazioni di Philip Seymour Hoffman.

 

L'articolo Maundy: il sapore amaro dell’infanzia perduta proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/maundy-il-sapore-amaro-dellinfanzia-perduta/feed/ 0
Il rimbalzo del gatto morto: ricominciare dopo la fine di un amore https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/il-rimbalzo-del-gatto-morto-ricominciare-dopo-la-fine-di-un-amore/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/il-rimbalzo-del-gatto-morto-ricominciare-dopo-la-fine-di-un-amore/#respond Mon, 27 Feb 2023 13:43:28 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18217 Presentato in anteprima all’ultima Alice nella Città, Il rimbalzo del gatto morto (prodotto da Oki Doki Film e Lampo TV) è una storia che trova il suo posto nel “mezzo”: c’è un prima e c’è un dopo, tra il ricordo di un passato felice e il “lutto” e l’incertezza di un futuro tutto da riscrivere. […]

L'articolo Il rimbalzo del gatto morto: ricominciare dopo la fine di un amore proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
Presentato in anteprima all’ultima Alice nella Città, Il rimbalzo del gatto morto (prodotto da Oki Doki Film e Lampo TV) è una storia che trova il suo posto nel “mezzo”: c’è un prima e c’è un dopo, tra il ricordo di un passato felice e il “lutto” e l’incertezza di un futuro tutto da riscrivere. Antonino Valvo alla regia del corto, sceneggiato da Luca Jankovic, ci ha raccontato di come la storia di Giulia gli abbia parlato da subito per il suo profondo bisogno di sentirsi amata, un bisogno destinato però a rimanere disatteso.

«Volevo da tempo mettermi alla prova. Non ho metodo e forse neanche la voglia di sceneggiare, sono uno molto più visivo, ma mi piace leggere le sceneggiature, analizzarle e cercare di capire cosa funziona e cosa no. L’idea era di mettermi su un progetto non mio e, leggendo questo, ho trovato subito qualcosa che mi parlava e che spero sia arrivato anche agli altri, ovvero il bisogno e il tormento amoroso del personaggio. Sperare che quella persona risponda con un messaggio che invece non arriva», conclude, «è capitato spesso anche a me».

L’idea nasce da Luca Jankovic, amico e collega, che per il titolo prende in prestito una metafora dal mondo della finanza. Il rimbalzo del gatto morto” infatti è un modo di dire che si riferisce a un crollo finanziario che, prima di piombare giù in picchiata, registra una lieve ripresa, nella flebile speranza di poter ritornare a salire. È ciò che in effetti succede a Giulia che, durante una notte tormentata, ripensa alla sua relazione con Samu conclusa con le riaperture post Covid. Il film mostra come la fine del lockdown può essere stata la fine anche di qualcosa di bello e, se tante persone sono state in grado di tornare alla vita di tutti i giorni, Giulia sembra rimasta bloccata nel tempo e nello spazio – quello del suo appartamento – tra messaggi non inviati e la compagnia di un gatto. «Per lei la quarantena non è ancora finita, perché è rimasta incastrata in quel periodo di felicità», spiega il regista.

In un appartamento con un’estetica decisamente kawaii, tra luci al neon, giochi d’ombra, costumi e scenografia vivaci si riflettono la mente e il cuore di Giulia, interpretata da Claudia Marsicano (Mi chiedo quanto ti mancherò?, Noi) : un personaggio intenso, sicuro quanto fragile. «Una persona che si dispera nella sua camera la immagino in un ambiente buio, molto in controluce. Il tormento del personaggio è molto altalenante, raggiunge picchi di felicità e picchi di depressione, azzarda molto e così anche noi abbiamo deciso di azzardare con l’estetica sotto tutti i punti di vista, per divertirci e fare qualcosa di inconsueto. E per aiutare lo spettatore a capire che, per quanto la messa in scena sia verosimile, non è realistica, suggerendo che si tratta di un luogo della mente, o del cuore».

il rimbalzo del gatto morto

È però nelle mani di Antonino e grazie alla bravura dell’interprete che Giulia riesce a prendere vita: «Il dialogo con gli attori è qualcosa che sto ancora approfondendo e non smetto di studiare. È fondamentale capire come entrare in contatto con il processo creativo degli attori: il regista deve dare delle direzioni e non dire come fare le cose. Ognuno ha la propria idea sul personaggio, ma questa prima di tutto deve arrivare dal testo. E l’ascolto è prioritario con chiunque sul set. Le due costumiste, per esempio, Cristina Maiorano e Valentina Carcupino, hanno preso parte alla costruzione del personaggio collaborando con Claudia per capire la strada giusta». Riguardo alla protagonista, racconta ancora Valvo: «L’idea di Claudia è nata con lo sceneggiatore, io non la conoscevo. Le abbiamo mandato lo script e lei si è da subito riconosciuta. Claudia è un’attrice fenomenale. Il regista è un timoniere che si deve circondare di persone stimolanti, cercando di mettere in scena tutto ciò che di bello nasce dal confronto».

Una menzione speciale a Il rimbalzo del gatto morto va anche per la scelta di aver mostrato un corpo femminile non conforme e soprattutto non aver relegato il personaggio di Giulia ai ritriti temi dell’insicurezza estetica e della salute. Giulia non è il suo corpo, ribadisce il regista, è un personaggio vivo, complesso, di cui il corpo è solo una componente.

Dopo interminabili messaggi e pensieri labirintici tutto si risolve nel momento finale, quando Giulia, assalita nuovamente dallo sconforto e dalla rabbia, prende il gatto tra le mani, decisa a lasciarlo cadere nel vuoto. La speranza si dice sia l’ultima a morire, anche se a volte è necessario perderla per poterne trovare di nuove. Si dice anche che i gatti abbiano sette vite, per fortuna Giulia ha saputo resistere alla tentazione di scoprirlo.

Il film avrà la sua prossima proiezione al Los Angeles Film Fashion and Art Festival che si terrà tra il 5 e l’ 11 marzo 2023. Intanto Antonino sta già lavorando a tanti altri progetti tra cui un lavoro sull’Amleto dove indaga il rapporto con l’attore tra – ci dice lui – l’onirico e il documentaristico, e un nuovo film dal titolo Ossamare ispirato agli spaccapietre.

L'articolo Il rimbalzo del gatto morto: ricominciare dopo la fine di un amore proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/il-rimbalzo-del-gatto-morto-ricominciare-dopo-la-fine-di-un-amore/feed/ 0
Valerio Ferrara: bisogna tornare a prendere la commedia sul serio https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/valerio-ferrara-bisogna-tornare-a-prendere-la-commedia-sul-serio/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/valerio-ferrara-bisogna-tornare-a-prendere-la-commedia-sul-serio/#respond Wed, 12 Oct 2022 15:07:32 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17796 Ha presentato il primo corto Notte romana a Venezia nel 2021 e, quest’anno, ha vinto La Cinef di Cannes con Il barbiere complottista, ora in première italiana ad Alice nella Città. Appena diplomato dal Centro Sperimentale di Cinematografia, Valerio Ferrara è già una promessa. L’abbiamo incontrato per parlare di futuro ma, soprattutto, di presente. Valerio, […]

L'articolo Valerio Ferrara: bisogna tornare a prendere la commedia sul serio proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
Ha presentato il primo corto Notte romana a Venezia nel 2021 e, quest’anno, ha vinto La Cinef di Cannes con Il barbiere complottista, ora in première italiana ad Alice nella Città. Appena diplomato dal Centro Sperimentale di Cinematografia, Valerio Ferrara è già una promessa. L’abbiamo incontrato per parlare di futuro ma, soprattutto, di presente.

Valerio, classe ’96, ha un sorriso ampio e accompagna la conversazione via zoom a grandi gesti: è pieno di quell’energia, che, dalla partecipazione di Notte romana alla Settimana Internazionale della Critica (SIC) della 78a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, l’ha portato alla vittoria nella sezione Jeune Cinéma/La Cinef del festival di Cannes, ribalta dei migliori corti provenienti dalle scuole di cinema di tutto il mondo. È il suo lavoro di diploma del Centro Sperimentale di Cinematografia, Il barbiere complottista, a trionfare davanti ai colleghi di Cina e Ucraina. La motivazione della giuria, unanime: non c’è strada migliore per raccontare le minacce al nostro presente, le insidie del futuro, che mettere in primo piano il complottismo e le sue conseguenze ormai inestricabili dai pensieri di tutti i giorni. Anche se il racconto del fenomeno giunge ben calato e radicato in una Roma comune, di quartiere, contemporanea, dove chiunque potrebbe, tra un colpo di rasoio e l’altro, ricevere succosi scoop sui rettiliani da parte del proprio barbiere di fiducia. Anche – anzi, soprattutto – visto che Il barbiere complottista è una commedia, l’unica inserita nella rosa della selezione.

«Che poi certo, parlando di generi, Il barbiere è di sicuro una commedia, ma una commedia che non si ferma al sorriso di superficie. A Lucio (Patané, interprete del protagonista Antonio Calabrò) continuavo a ripeterlo: non deve far ridere. Piuttosto, deve essere assurdo». E l’assurdo, ne Il barbiere complottista, arriva subito, molto vicino. Si comincia dall’ossessione di Antonio per il lampeggiare dei lampioni della città, codice morse alieno; dal campo-controcampo tra Patané e il PC su cui il barbiere compila ossessivamente, interlocuzione allucinata, il suo blog complottista. Si continua con un raid della Digos a casa di Antonio: gli devono confiscare il computer, deve seguirli in centrale, è proprio lui il signor Calabrò? La legittimazione, per il barbiere, non è mai stata così dolce, così agognata: i dati raccolti sono allora importanti, possono davvero imbarazzare nomi potenti ai ranghi alti del complotto, e invece no, tutto si scioglie nello svelamento di un attacco hacker, pericolo ben più reale di Bill Gates e microchip. E i lampioni? Be’, risponde il comandante di centrale, è semplice, il Comune non ha i soldi per tenerli sempre accesi e deve interrompere la corrente. Ma è al ritorno a casa del battuto Antonio che la commedia rivela tutta la sua forza tragica: l’arresto ha dato una motivazione ad amici e famigliari per credere, infine, alle teorie del barbiere, e lui non si è mai sentito così forte.

Valerio Ferrara Notte romana
“Notte romana” il primo corto di Valerio Ferrara.

«Vedi, secondo me bisognerebbe tornare a prendere la commedia sul serio, non come quella cosa che usi per spegnere il cervello e fare soldi al botteghino. Il cinema italiano ha una tradizione senza paragoni nella commedia, ma oggi, se guardo i film fatti per far ridere, parecchi sono vuoti, senza una direzione, non vanno oltre la battuta. Chissà in che guaio mi sto cacciando a dirlo, ma, per me, ridare corpo e sfaccettatura alla commedia è una questione di responsabilità». Gli chiedo di più. «Monicelli, Risi, De Sica, Comencini, i maestri della nostra commedia avevano capito come fare una cosa, ovvero lasciar parlare la realtà. Prendi Il vedovo (1959) di Dino Risi. Ecco, Il vedovo altro non è che un fatto di cronaca, il film si ispira al caso Fenaroli. Quindi la mia responsabilità girando e scrivendo Il barbiere è stata documentarmi scrupolosamente su tutto quello che mettevo sullo schermo, dando forma sia alla vena comica che a quella seria. Quando arriva la Digos, per esempio, dovevo sapere come effettivamente la Digos avrebbe potuto presentarsi a casa di un sospettato, quindi sono andato in centrale a indagare. Se Antonio fosse stato solo ammanettato e portato via, avrei tradito la realtà, e non volevo espedienti facili, di ilarità facile. Lo stesso per tante altre dinamiche sia de Il barbiere che di Notte romana».

Per Valerio, il tempo, storico e no, è una cosa seria, lo si nota dalla qualità dei suoi lavori. «Mi piace l’idea che le persone si siedano in sala e abbiano la possibilità di entrare gradualmente nello spirito del film. Poi c’è anche una motivazione più triviale, perché io al cinema sono sempre arrivato in ritardo e puntualmente mi perdo l’informazione fondamentale nei primi due minuti. Così ho deciso che non metterò mai le informazioni fondamentali nei primi uno o due minuti di film».

Anticipazioni? «Ancora non c’è nulla sul piatto, ma posso dire che mi sono innamorato del complottismo, e voglio capirlo ancora più a fondo. Credo che, per il momento, proverò a lavorare su quello. Probabilmente con un lungometraggio». Niente panico, quindi, se vedremo Valerio inquadrato in qualche raduno di terrapiattisti sul TG nazionale. «Per preparare Il barbiere sono stato a vari raduni, ho letto e imparato molto sul tema. Credo di aver capito che esistono vari livelli di complottismo: vanno da quelli che non farebbero male a una mosca a quelli che sarebbero pronti ad aprire il fuoco. C’è poi un’altra cosa che mi spaventa e quindi mi interessa del complottismo: oggi, a mio avviso, è l’unica ideologia che ancora resiste nel mondo occidentalizzato. Se c’è qualcuno che sta costruendo mondi paralleli, questi non sono sicuramente i registi o gli scrittori, ma i complottisti. Poi mai dire mai, magari la prossima volta che ci vedremo avrò fondato la mia personale ideologia complottista a favore della rinascita della commedia italiana. Magari c’entreranno le luci dei lampioni».

L’ARTICOLO COMPLETO È DISPONIBILE SOLO PER GLI ABBONATI, CLICCA QUI PER ABBONARTI A FABRIQUE 

 

 

L'articolo Valerio Ferrara: bisogna tornare a prendere la commedia sul serio proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/valerio-ferrara-bisogna-tornare-a-prendere-la-commedia-sul-serio/feed/ 0
L’ultimo spegne la luce: crisi di coppia sul pianerottolo https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/lultimo-spegne-la-luce-scene-di-crisi-di-coppia-sul-pianerottolo/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/lultimo-spegne-la-luce-scene-di-crisi-di-coppia-sul-pianerottolo/#respond Tue, 28 Jun 2022 07:02:52 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17310 L’ultimo spegne la luce è un moderno racconto da camera (o meglio da pianerottolo…), girato in una Milano post lockdown, con il quale il 30enne regista Tommaso Santambrogio viviseziona una crisi di coppia. Presentato in concorso alla SIC, il corto è fresco di menzione speciale del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani al Figari Film Fest.  […]

L'articolo L’ultimo spegne la luce: crisi di coppia sul pianerottolo proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
L’ultimo spegne la luce è un moderno racconto da camera (o meglio da pianerottolo…), girato in una Milano post lockdown, con il quale il 30enne regista Tommaso Santambrogio viviseziona una crisi di coppia. Presentato in concorso alla SIC, il corto è fresco di menzione speciale del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani al Figari Film Fest. 

Hai un curriculum che spazia fra più continenti: qual è stata la tua formazione artistica?

La mia formazione artistica la definisco “originale”. Ho iniziato a lavorare come giornalista e come assistente alla regia. Ma soprattutto ho cominciato a viaggiare e a conoscere persone che avevano ognuna uno sguardo diverso rispetto al cinema. Per esempio, ho partecipato a un workshop con Werner Herzog in Amazzonia dove ho girato un cortometraggio che è andato ai I LOVE GAI a Venezia nel 2018. Ho seguito corsi a Parigi, Londra, Milano, Roma, fino ad arrivare a Cuba dove ho girato il mio corto precedente Los Océanos. Queste esperienze mi sono servite a capire quale sarebbe stata la mia dimensione artistica.

L’ultimo spegne la luce parla di due giovani che, al rientro da una serata con gli amici, rimangono fuori casa e si ritrovano a litigare sul loro rapporto.  Com’è nata l’idea?

La sceneggiatura risale a tre anni fa ed è nata da vari spunti. Sicuramente dal fatto che io non ho mai avuto una grande relazioni con le chiavi: qualche anno fa mi è capitato davvero di rimanere chiuso fuori casa senza una vera ragione… E poi da una scena de L’angelo sterminatore di Luis Buñuel, quando i due protagonisti, al rientro da una serata in teatro, si trovano in soggiorno e non riescono più a uscire dalla stanza. Con il tempo mi è venuta l’idea di un escamotage che permettesse di raccontare la condizione in cui, quando una relazione è agli sgoccioli senza una motivazione chiara – come un tradimento – ma semplicemente le cose non vanno più, basta una “goccia” per far crollare tutto.

È molto eloquente il finale in cui finalmente la porta si apre: il problema è stato risolto ma lei se ne è andata. Forse il destino ha voluto trattenere lì i due ragazzi perché avessero quella discussione. Che messaggio volevi dare?

La mia idea era quella di ricreare l’incapacità di rientrare nella dimensione di coppia. Come dicevo prima, quando le cose non funzionano tra due persone alcune volte non c’è niente di logico, come la chiave che non gira nella serratura. E quindi l’idea di tornare a casa, che è il luogo connesso alla protezione e all’intimità (e, durante la pandemia, dove si era in salvo) diventa inconcepibile. In questo senso è stato importante per me lavorare con i movimenti di camera: la camera si avvicina su di loro in maniera quasi impercettibile, mentre la coppia emotivamente si allontana sempre più.

L’ultimo spegne la luceI due attori, Valentina Bellè e Yuri Casagrande Conti, hanno dimostrato grande sintonia, com’è stato lavorare con loro?

 C’è stata fin da subito grande condivisione e collaborazione con tutta la troupe. Ognuno ha dato davvero il meglio di sé, senza riserve. Con Valentina e Yuri prima di tutto abbiamo passato molto tempo insieme, dall’andare fuori a cena a passeggiare per creare un rapporto di fiducia che andava oltre il film. Abbiamo lavorato insieme anche sulla scrittura a livello di cambi e di ritmo, con l’intento di creare un lavoro che fosse veramente di tutti.

A livello registico, quali sono le tue ispirazioni cinematografiche?

 I registi che mi hanno influenzato profondamente sono Andrej Tarkovskij, Chris Marker, Abbas Kiarostami e Béla Tarr. Tarkovskij per il suo modo di fare poesia attraverso il cinema e per aver espresso con il cinema qualcosa che non sarebbe stato possibile esprimere con nessun altro mezzo. Oppure la prima volta che ho visto La jetée di Marker è stato uno shock e mi son detto “ah! ma allora si può fare questa cosa, esiste questo tipo di cinema”. Kiarostami per la capacità di trascendere finzione e realtà: non per niente Godard diceva «il cinema inizia con Griffith e finisce con Kiarostami».  Poi ovviamente i miei maestri, Werner Herzog e Lav Diaz. Ma credo sia importante ogni esperienza che viviamo perché, in qualche modo, tu sei il risultato di quello che ami e di quello che hai vissuto. E il bello è che alcune volte non ne sei nemmeno consapevole, ma solo una volta che l’hai espresso lo riesci a vedere.

Cosa consigli a quei giovani desiderano intraprendere una carriera registica?

Di preoccuparsi poco di quello che dicono gli altri su quelle che sembrano le strade più giuste da seguire. Credo che per fare cinema, per fare arte, non ci sia una strada giusta o un sentiero predefinito. E quindi il mio consiglio è di seguire sempre il proprio istinto. Quello che a me ha aiutato è stato proprio il mettermi in gioco, essere curioso e buttarmi su qualsiasi cosa mi veniva proposta. Al giorno d’oggi per girare un cortometraggio non servono grandi macchine o chissà che troupe. I miei primi corti gli ho girati interamente da solo, come Los Océanos del 2019. Quindi se una persona ha qualcosa da dire deve lasciarsi andare e dirla. Credo inoltre che le scuole di cinema in Italia dovrebbero tutelare la creatività e la visione individuale, invece accade spesso che ti diano delle linee guida che per forza devi seguire ma che magari a te stanno strette e ciò rischia di ingabbiarti.

L’ARTICOLO COMPLETO È APPARSO SUL N. 34 DI FABRIQUE DU CINÉMA: ABBONATI QUI PER RICEVERE IL NUOVO NUMERO ED ESSERE SEMPRE AGGIORNATO SUI NUOVI TALENTI DEL CINEMA!

L'articolo L’ultimo spegne la luce: crisi di coppia sul pianerottolo proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/lultimo-spegne-la-luce-scene-di-crisi-di-coppia-sul-pianerottolo/feed/ 0
Acqua che scorre non porta veleno: quando finisce un amore https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/acqua-che-scorre-non-porta-veleno-quando-finisce-un-amore/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/acqua-che-scorre-non-porta-veleno-quando-finisce-un-amore/#respond Wed, 22 Jun 2022 07:30:47 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17300 Regista e produttrice appena 25enne, Letizia Zatti ha studiato alla Luchino Visconti di Milano e si è fatta notare al RIFF con la storia di una donna che si introduce di nascosto nella casa del suo ex compagno, quella che un tempo era stata di entrambi. Nel corto Acqua che scorre non porta veleno, Matilde soffre […]

L'articolo Acqua che scorre non porta veleno: quando finisce un amore proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
Regista e produttrice appena 25enne, Letizia Zatti ha studiato alla Luchino Visconti di Milano e si è fatta notare al RIFF con la storia di una donna che si introduce di nascosto nella casa del suo ex compagno, quella che un tempo era stata di entrambi. Nel corto Acqua che scorre non porta veleno, Matilde soffre per l’amore perduto e Zatti cuce sulla protagonista una regia intima e sensoriale, utilizza palette di colore e spazi come strumenti narrativi realizzando un equilibrio perfetto tra estetica e contenuto.

Nonostante la vocazione registica hai studiato produzione alla Luchino Visconti di Milano. Perché questo percorso?

Sono stata presa alla Visconti a 19 anni, subito dopo il liceo. Ero piccola e quindi ho scelto produzione perché in me convivono creatività e pragmaticità. Col senno di poi è stata la scelta più giusta: mi ha permesso di lavorare su set pubblicitari e cinematografici. L’incontro fondamentale è avvenuto con l’aiuto regista Miguel Lombardi, che venne a farci un corso di aiuto regia. A lui devo praticamente tutta la mia esperienza sui set, è stato il mio maestro. Poi, in realtà, non ho mai avuto il mito della regia. La vocazione registica mi si è rivelata set dopo set, è semplicemente il ruolo in cui più mi sento me stessa. Senza aver studiato produzione però, probabilmente sarebbe stato tutto più improvvisato.

 

In Acqua che scorre non porta veleno Matilde ripercorre gli stessi spazi, annusa l’odore dell’ex dalla sua camicia e si immerge nella vasca piena d’acqua, dove un tempo facevano il bagno insieme. La casa-nido è quasi un terzo personaggio. Che tipo di lavoro hai fatto sugli spazi e con l’attrice protagonista?

È proprio così. La storia narra la fine di una relazione, ma ancora di più narra un legame profondo con la casa. Era questo il tema che volevo approfondire. Ognuno di noi vive la propria casa in modo diverso: c’è chi la considera solo un tetto sotto cui dormire e c’è chi invece cura ogni dettaglio. C’è chi di case ne ha cambiate trenta e chi invece vive tutta la vita nello stesso posto in cui è nato e cresciuto. Io ho vissuto in dodici case diverse nell’arco di 24 anni e quella che si vede nel corto è stata la prima casa che ho veramente sentito mia. L’ho fotografata spesso, per cui scegliere le inquadrature è stato abbastanza facile, la scelta della macchina fissa voleva restituire proprio questo terzo punto di vista, quello delle mura della casa. L’acqua poi è un elemento subdolo: si insinua, penetra lentamente e rovina un’abitazione facendola marcire in profondità. Ma ha anche un alto contenuto simbolico: lenisce, lava, cura. Emilia [Emilia Scarpati Fanetti, l’attrice protagonista] ha da subito capito cosa volevo raccontare, era un tema che sentiva vicino perché aveva vissuto un’esperienza simile. Ho voluto fare tutte le prove in casa, anche quella costumi con gli attori, in modo che avessero familiarità con il luogo.

Acqua che scorre non porta velenoLe cose che ci passano per la mente sono quasi sempre inconfessabili, il voyeurismo di Matilde, la sua difficoltà nel lasciar andare, ci mettono di fronte alla sua ferita. Il tuo è un cinema intimista, fatto di sentimenti quotidiani e cose minuscole. Cosa aspiri a raccontare e in quale forma?

Il cinema che voglio fare è un cinema intimo, ricco di un sottotesto che rende onore più ai volti e alle piccole emozioni che alle grandi gesta. Sono affascinata dalle dinamiche psicologiche che si creano dietro le relazioni umane e ossessionata dal perché le persone diventano ciò che sono. Per ora sento che questa è la mia via: storie semplici ma con un universo dietro, un punto di vista chiaro e una forma estetizzante ma mai fine a se stessa. Ogni giorno che passa cambiamo e ci evolviamo, quindi chissà, un giorno potrei cambiare del tutto approccio.

Cosa ti auguri per il cinema post-pandemico?

Non ho particolari storie che vorrei vedere, tutto è già stato scritto, tutto è già stato detto. Vorrei vedere film che più che focalizzarsi sul cosa raccontare, si concentrino sul come farlo. Spero vivamente che la visione in sala riesca a sopravvivere nella sua essenza popolare e che non diventi solo per un pubblico d’élite. Fare i film per un’élite non mi interessa, la mia missione è quella di arrivare a tutti.

L’ARTICOLO COMPLETO È DISPONIBILE SOLO PER GLI ABBONATI, CLICCA QUI PER ABBONARTI A FABRIQUE 

 

L'articolo Acqua che scorre non porta veleno: quando finisce un amore proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/acqua-che-scorre-non-porta-veleno-quando-finisce-un-amore/feed/ 0
Le ninfe dark di Isabella Torre https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/le-ninfe-dark-di-isabella-torre/ Mon, 04 Apr 2022 12:27:12 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17024 Classe 1994, Isabella Torre ha attirato l’attenzione degli addetti ai lavori con i due corti Ninfe (2018) e Luna piena (2021), presentati a Venezia, e ora sta lavorando alla sua opera prima tratta proprio da Ninfe, Basileia, scritta al prestigioso Sundance Lab e in produzione con Stayblack e RAI Cinema. Attrice e produttrice, Isabella Torre […]

L'articolo Le ninfe dark di Isabella Torre proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
Classe 1994, Isabella Torre ha attirato l’attenzione degli addetti ai lavori con i due corti Ninfe (2018) e Luna piena (2021), presentati a Venezia, e ora sta lavorando alla sua opera prima tratta proprio da Ninfe, Basileia, scritta al prestigioso Sundance Lab e in produzione con Stayblack e RAI Cinema. Attrice e produttrice, Isabella Torre ha nel suo carnet anche la collaborazione alla trilogia di Jonas Carpignano (Mediterranea, A Ciambra e A Chiara, fresco di ben 6 candidature ai David di Donatello 2022).

Hai sempre lavorato davanti e dietro lo schermo: regia, produzione e recitazione. Sei alla ricerca della tua dimensione o l’hai trovata nel movimento fluido tra i vari ruoli?

Mi sento di dire di esserci quasi “nata e cresciuta” sul set. Mia madre, costumista di cinema, mi ha portato alle riprese di tutti i suoi film fin da piccolissima ed è per questo che ho sempre ritenuto il set cinematografico un po’ come casa, anche più di quanto non lo fosse la mia casa reale. Per quanto riguarda Ninfe recitare, oltre che dirigere, è stata una necessità quasi pratica (essendo un corto molto sperimentale, girato per sondare il terreno per un lungometraggio sullo stesso soggetto) e interpretare le ninfe è stato un lavoro molto duro: dalla nudità nel gelo di febbraio, alle lunghe notti nel fango e nella terra… non avrei voluto mettere nessun altro in quelle condizioni terribili se non me stessa. In Luna piena invece la necessità era un po’ diversa, più che altro catartica. Questo cortometraggio è molto personale, ispirato a quello che ci è successo mentre giravamo A Chiara di Jonas Carpignano e tutto è cambiato a causa della pandemia. Il bagaglio emotivo che ho affidato a Lina era più che altro il mio, per me aveva senso affrontare questa avventura in prima persona. In futuro deciderò istintivamente come ho fatto sino a ora se sarà il caso di interpretare oltre che dirigere, ma per la versione lungo di Ninfe penso che mi dedicherò unicamente alla regia.

C’è stato un momento decisivo nella tua carriera? Qualcosa che ti ha fatto capire di essere sulla strada giusta?

Vari momenti, direi. Innanzitutto quando ho realizzato che il gruppo di collaboratori che abbiamo creato in questi anni girando i film di Jonas (con cui ho lavorato per tutta la trilogia) è come una vera e propria famiglia. D’altra parte come dicevo prima, il set per me è la mia tana, collaborare con qualcuno con cui ti senti affine e sentire di essere parte di un’operazione comune dà senso a tutto. Un altro momento illuminante è stato mentre giravo Ninfe. C’erano stati dei problemi in un magazzino e tutta la pellicola che avevamo girato era rovinata. L’indomani tornammo per rigirare le scene in quel piccolo villaggio abitato unicamente da una famiglia pastori. Era l’alba e mi aspettavo che ci mandassero a quel paese, invece ci hanno accolto incredibilmente contenti e calorosi; d’improvviso il cielo si fece tutto rosa e l’aria profumava di montagna, girammo in una sorta di idillio. Pensai: “Questa è la magia del cinema”.

Ninfe di Isabella Torre
“Ninfe”, di Isabella Torre.

Come funziona il tuo processo creativo?

Di solito è tutta colpa o merito del mio inconscio. Sono una persona piuttosto inquieta da sempre, il mio mondo interiore può essere sovrastante, se non lo libero rischio davvero e questo è il mio modo per farlo. Poi naturalmente le persone sono l’altra faccia della medaglia: sono piena di personaggi nella mia testa ispirati alle persone che mi capita di conoscere, anche quelli vanno liberati ogni tanto per evitare “assembramenti”.

Ninfe mostra la terra d’Aspromonte come un luogo mistico, incantato e a tratti spaventoso. L’archeologo e i suoi due uomini sono lì per disseppellire un tesoro, ma dal terreno finisce per venir fuori molto di più, tra la nebbia emergono tre ninfe che causano una serie di misteriosi avvenimenti.

L’Aspromonte è un luogo unico. Una terra fatta di contrasti, con atmosfere che ti rapiscono e la nebbia… la nebbia è un’entità a sé. Sono arrivata in Calabria sette anni fa e ho sempre frequentato l’Aspromonte, eppure non c’è una volta che abbia vissuto un’esperienza simile all’altra lassù. La verità è che la potenza della natura di quel posto ha influenzato anche la gente che lo abita, che ne ha assunto le stesse contraddizioni e la stessa unicità. La componente surreale del film è il mio modo per indagare anche a livello sociale e culturale questa terra.

Sia Luna piena che Ninfe hanno in comune una forte simbologia naturale, una forza misteriosa ma reale che ristabilisce l’ordine e riprende il controllo su tutte le cose in modo implacabile.

Anche qui viene tutto dal mio inconscio: il mondo in cui viviamo e le dinamiche che regolano la nostra vita sono motivo di grande ansia per me. Sono profondamente convinta che dovremmo tutti ritornare alla terra, allo scandire del tempo dettato dalla natura. È l’unica vera bussola che potrebbe aiutarci a riprendere le redini delle nostre vite. Mentre giravamo Ninfe ci ritrovammo ad aspettare che la famiglia del villaggio si svegliasse per iniziare a girare: il giorno prima ci avevano detto a che si sarebbero svegliati, ma invece dormivano ancora tutti. Ecco più, tardi risolvemmo l’arcano: loro non cambiano mai l’orologio a seconda dell’ora legale o solare, hanno un unico riferimento per dare inizio alla loro giornata, ovvero, come dicono loro, “le bestie”. Quando si svegliano le capre, inizia la giornata. Non c’è altra convenzionalità a regolare il giorno e la notte. Lo trovo magnifico

L’ARTICOLO COMPLETO È DISPONIBILE SOLO PER GLI ABBONATI, PER ABBONARTI CLICCA QUI

L'articolo Le ninfe dark di Isabella Torre proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>