Nel mondo del teatro il nome di Emanuele Aldrovandi è già noto, tanto da essere considerato uno degli autori più talentuosi della drammaturgia italiana contemporanea under 35. Un talento, il suo, decisamente eclettico, che lo ha portato ad avvicinarsi anche al mondo del cinema con buoni risultati: Un tipico nome da bambino povero è il suo secondo cortometraggio, in concorso all’ultima edizione del Giffoni Film Festival. Sempre attento alle dinamiche sociali, Aldrovandi racconta di un padre che decide di portare in vacanza con la famiglia un bambino povero come esempio per insegnare ai figli quanto siano fortunati a vivere “dalla parte bella della disuguaglianza”.
[questionIcon] Qual è stata l’ispirazione alla base del cortometraggio?
[answerIcon] L’ispirazione è stata prima di tutto intima e personale, legata in un certo qual modo al senso di colpa di trovarmi ‒ senza nessun merito o motivo particolare che riguardi veramente me ‒ dalla parte fortunata della disparità economica mondiale. La spinta iniziale è stata quindi un’esigenza personale forte che ho poi deciso di rappresentare in modo estremizzato per farne uscire le contraddizioni, come sempre deve fare secondo me l’arte, che sia teatro o cinema.
[questionIcon] Il corto affronta tematiche importanti: identità, privilegio, divario. In particolare, uno dei protagonisti parla di “parte bella della disuguaglianza”, che è quasi un paradosso. Che tipo di messaggio hai voluto dare?
[answerIcon] Io sono contrario ai messaggi didascalici, credo invece che la forza delle narrazioni sia quella di aprire degli spiragli di riflessione e di permettere a chi guarda di pensare qualcosa in modo diverso, magari sradicando dei luoghi comuni. In questo caso, ho deciso di trattare questi temi non in maniera pedante ma in modo paradossale, mettendo in bocca a un padre un pensiero educativo che può anche essere giusto, ma che viene messo in pratica in maniera così eccessiva da risultare alla fine assurda e controproducente.
[questionIcon] Domanda scontata: la scrittura teatrale ha influenzato il tuo modo di fare cinema?
[answerIcon] Forse sì, anche se io cerco di tenere separate le due cose. Il fatto di partire dall’assunto che non ci siano buoni e cattivi e che la messa in scena di qualcosa serva come strumento dialettico per farsi delle domande è una cosa che considero ovvia ma che deriva dalla lunga frequentazione con il teatro. Quello che può avermi influenzato è la facilità nel creare storie, personaggi, conflitti, visto che sono dieci anni che lo faccio per il teatro. Come sceneggiatore parto dunque in un certo senso avvantaggiato, poi però come regista cerco di fare tabula rasa del teatro e di ragionare in maniera differente perché è un linguaggio diverso. Anche il modo in cui si racconta un personaggio cambia completamente. Al momento ad esempio sto adattando un testo teatrale che ho scritto, La donna più grassa del mondo, come sceneggiatura per un lungo. Ho mantenuto il nucleo di base ma lo sto riscrivendo completamente nel linguaggio del cinema. Quando ho deciso di cominciare a fare cinema mi sono dato la regola di non fare teatro filmato.
[questionIcon] Quindi pensi che continuerai a fare cinema?
[answerIcon] Sì, assolutamente. È una cosa su cui sto investendo tempo ed energie ed in cui credo molto. Oltre al lungometraggio, con Mike Pagliarulo e la sua Big Nose Production ‒ con cui è iniziato il mio percorso nel cinema ‒ abbiamo in progetto di realizzare altri corti. Continuerò a fare teatro, il cinema però non lo vedo come un passatempo ma come un altro obiettivo. E alla fine ho capito che, quando si hanno gli obiettivi chiari, con l’impegno, le idee e la forza della perseveranza le cose si riescono a fare.