In principio fu la fotografia. Ma a soli 32 anni Elisa ha goà attraversato anche cinema e letteratura. Oggi sta per fare il grande salto dal documentario ai film di finzione, tra l’Italia e la Polonia.
di Giovanna Maria Branca foto Andrea di Lorenzo
Elisa Amoruso, classe 1981, ci aspetta nella sede della Tangram Film di Carolina Levi a Trastevere. È la casa di produzione che ha partecipato alla realizzazione del suo primo film, molto applaudito allo scorso Festival di Roma nella sezione Prospettive Doc Italia: Fuoristrada. Lo vedremo presto nelle sale italiane, distribuito dall’Istituto Luce, e da Fandango International all’estero. Elisa è una sceneggiatrice, tra gli altri film Passione sinistra di Marco Ponti, uscito nel 2013; una scrittrice, il suo primo romanzo Buongiorno amore è anch’esso del 2013; una fotografa. E ora anche una regista.
Tra queste forme di espressione quale ti rappresenta meglio?
La scrittura è sicuramente la mia base di partenza, ma tutto è iniziato dalla fotografia, che ha poi aiutato il passaggio dalla scrittura alla regia. Mio padre commercia in macchine fotografiche, quindi ci sono cresciuta in mezzo. Ho iniziato a fare la fotografa di scena per i cortometraggi degli amici e poi per tutta la seconda serie di Boris. In precedenza, nel 2005, mentre frequentavo il primo anno del corso di sceneggiatura al Centro Sperimentale, ho iniziato la collaborazione con Claudio Noce per cui ho sceneggiato il corto Aria, che ha vinto tantissimi premi anche ai David di Donatello e ai Nastri D’argento. Poi la nostra collaborazione è continuata con il mediometraggio Adil e Yusuf (2008), che è stato a Venezia e che è servito da studio per il nostro primo lungometraggio: Good Morning Aman (2009). Per Claudio Noce ho anche scritto la sceneggiatura di La foresta di ghiaccio, con Emir Kusturica protagonista.
Poi sei passata al documentario: un genere in cui non è la finzione, ma la realtà a parlare.
È stata una scelta naturale. Ho trascorso un anno e mezzo con i “personaggi” di Fuoristrada: quello che accadeva era così forte che la storia mi è arrivata nel suo farsi, il mio sguardo era orientato su ciò che mi dettava la vicenda, tutto in presa diretta, nel massimo rispetto della realtà di queste persone. Senza forzature, costruzioni o prese di posizione. Ho seguito semplicemente il modo in cui vive questa famiglia composta da Beatrice, Marianna e il loro figlio. Beatrice prima si chiamava Pino, faceva e fa ancora la meccanica nella sua officina a San Giovanni ed è una campionessa di rally. Il suo ambiente quindi è quasi del tutto composto da uomini, che però la stimano e la rispettano dato che è bravissima nel suo mestiere. Anche se, come ci si poteva aspettare, ha perso almeno metà della clientela dopo il cambiamento di sesso. Il titolo è nato dalla storia stessa, quella di un meccanico che guida nei rally: Fuoristrada, una metafora che racconta un po’ tutta la vicenda di vita di Beatrice, della sua famiglia fuori dai canoni e dell’amore che la unisce a Marianna.
In qualità di giovane autrice qual è la tua prospettiva sul cinema italiano? Quali le limitazioni e gli ostacoli che hai incontrato e quali invece gli aspetti positivi?
Con tutti i miei progetti ho sempre fatto domanda al Ministero, ma non avendo nomi di rilievo nel cast né l’appoggio di grandi distribuzioni sono stati tutti rifiutati. Almeno fino all’ultimo film cui sto lavorando, come sceneggiatrice e regista: Se Dio vuole – Insha’Allah.
Per Fuoristrada però volevamo almeno ottenere il riconoscimento dell’interesse culturale, e per fortuna ci siamo riusciti. Se Dio vuole invece è una coproduzione Italia/Polonia con il 40% di produzione polacca. La Opus Film ha fatto richiesta per il finanziamento al Polish Film Institute, che dovrebbe darci 400.000 euro. Abbiamo incontrato a Cannes il direttore del PFI che è un grande sostenitore del film: ci ha addirittura detto che gli dispiace poter offrire “solo” questa cifra, che per l’Italia ormai è un’enormità. Però dobbiamo riuscire a raccogliere il restante 60%: il Ministero italiano ci darà 150.000 euro, bisogna ancora trovare il resto dei soldi.
Credo che gli autori della nostra generazione non abbiano una resistenza a priori nello spendere energie, tempo e denaro in un progetto, anche se non c’è nessuno che lo finanzia. La nostra generazione non è affermata e sostenuta come quella precedente, ma questo è anche un aspetto positivo: ci dà maggiore libertà dalle influenze esterne, maggiore possibilità di sperimentare svincolati da pressioni. Insomma, mi pare che anche se ci mettono sulla strada veramente tanti ostacoli, questo non basta a fermarci. E anche un giornale come Fabrique, con tutti i giovani talenti del nostro cinema, lo dimostra: è l’esempio concreto di come nonostante tutto noi comunque andiamo avanti.
Puoi dirci qualcosa in più sul tuo prossimo film Se Dio vuole e in generale sui tuoi progetti futuri?
Il soggetto di Se Dio vuole l’avevo scritto addirittura quando frequentavo ancora il Centro Sperimentale, è rimasto nel cassetto per tanti anni. Quando poi abbiamo presentato il progetto in Polonia, dato che all’epoca frequentavo un master alla scuola di cinema di Andrzej Wajda, è piaciuto così tanto che abbiamo iniziato a sviluppare la sceneggiatura: Wajda, scherzosamente, mi disse che avrebbe voluto averla lui l’idea. È un noir ambientato tra l’Italia e la Polonia, che indaga l’identità di una donna alle prese con due storie d’amore: una nel presente, a Varsavia, con l’uomo che ha sposato, e l’altra nel passato, con un algerino, quando era una giovane immigrata polacca a Roma. Abbiamo già due dei protagonisti: Kasia Smutniak e Robert Wieckiewicz, un attore molto famoso in Polonia, mentre resta aperto il casting per l’algerino.
L’altro progetto cui sto lavorando è il mio secondo libro. Buongiorno amore, che avevo iniziato solo per sentirmi in contatto con l’Italia mentre vivevo in Polonia, è andato inaspettatamente benissimo. Così tanto che Newton Compton me ne ha “commissionato” un altro. Insomma, tra la scrittura del romanzo e il film… se mi proponessero qualcos’altro dovrei inventarmi una seconda me!