Dopo il successo internazionale di “Mirror”, il 28enne Daniele Barbiero ha dato un’ulteriore prova di saper lavorare con generi diversi, tecniche ed emozioni in Radice di 9, un corto che racconta tutta la voglia di un cambiamento generazionale, mettendo a nudo la verità dei personaggi.
Hai spaziato fra generi molto diversi tra loro: cinema, spot, webserie, videoclip, fashion movie. Credi che questo abbia influito sul modo di pensare il tuo cinema?
Sì e no. È stata una grandissima esperienza di set e di vita, mi ha portato ad avere una forte capacità organizzativa, fino a rendere l’imprevisto un valore aggiunto. Per esempio, in Radice di 9, a causa di un nubifragio, ho perso un intero giorno di lavorazione e me ne rimanevano solo due per girare con tutti gli attori insieme in scena! Non avrei potuto chiudere le inquadrature previste, così ho inventato quel piano sequenza di cinque minuti sul finale. Ho fatto molto aiuto regia, parecchio set e sono così proprio nella vita. Non mi abbatto, tiro fuori nuove idee. Il linguaggio, però, credo di essermelo creato da spettatore. Non ho mai avuto un genere di riferimento, ho sempre amato sentirmi libero.
Il tuo primo vero approccio alla regia cinematografica risale al 2015 con Mirror, vincitore di oltre trenta premi nazionali e internazionali. Un ampio consenso nel circuito festivaliero è un reale trampolino di lancio?
Forse sembrerò cinico e troppo schietto, ma noto un’esaltazione eccessiva nei confronti di questi riconoscimenti, che dovrebbero essere parte di un percorso di crescita più generale. Ho capito con Mirror che i premi non sono mai un punto d’arrivo. Per la prima volta ho affidato tutta la fase di scrittura al mio sceneggiatore, Luca Nicolai, separando i ruoli e cercando di rispettare il testo. Ma poi l’ho sentito talmente mio, mentre lavoravamo con un budget che sfiorava appena i duemila euro e in soli tre giorni di riprese… Avevamo delle idee visive incredibili, tutti insieme con gli altri reparti. È stata una vera associazione, ognuno ha contribuito portando qualcosa sul set. Alla fotografia avevamo Andrea Reitano, appena ventenne, che è stato clamoroso! Mi aspettavo che Mirror sarebbe piaciuto, ma in quell’occasione non ho mai pensato ai premi: è stata un’avventura davvero genuina.
La tua è una regia che tende a riempire l’inquadratura: è una composizione sempre traboccante, ma organizzata con un decoro estetico molto forte.
Ho l’istinto di riempire e sovraccaricare, ma per poi togliere: è così che indago l’evoluzione dei personaggi. Mirror procede per accumulo, finché il protagonista non supera un limite preciso e tutto si svuota: ho rinunciato a qualsiasi vezzo gratuito per mettermi a servizio della storia. Mentre in Radice di 9 ho pensato la regia tutta in funzione degli attori, riflettendo su dove volevo portare i personaggi: ho lavorato per tirare fuori performances piene, affinché ognuno si rivolgesse almeno a uno spettatore e lo toccasse nel profondo.
I tuoi personaggi, a un certo punto, urlano.
Non so se si tratti di una casualità, sicuramente vado incontro a uno scoperchiamento. Da una parte, credo che gli sfoghi più belli siano quelli sussurrati. Ad esempio, tutte le parole chiave di Mirror sono dette a fil di voce. Forse uso le urla come contraltare a momenti più intimi e feroci. Sono una persona estremamente schietta, la cosa che più odio sono le maschere. Quindi mi piace portare i miei personaggi a spogliarsi fino alle conseguenze più radicali. Come Matilde Gioli, la sposa di Radice di 9 che, dopo aver urlato, si butta nel vomito. E io la lascio lì a terra. Non c’è immagine più pesante di una sposa sdraiata nel suo vomito.
Radice di 9 è un esperimento per certi versi estremo, con un cast di livello. È esagerato definirlo preludio del tuo primo lungometraggio?
Sono cresciuto molto l’anno precedente con Mirror, ma Radice di 9 è stato un vero banco di prova che mi ha fatto capire di essere pronto. L’idea è nata dal racconto della nostra sceneggiatrice, che ha ricevuto davvero una proposta di ménage à trois. Avevamo in mente un tema generazionale sui trentenni, che mancava da molto, forse da L’ultimo bacio. Quando ci siamo resi conto che il testo stava avendo una forza maggiore del previsto, ho iniziato a proporlo agli agenti degli attori. Ho concluso la sceneggiatura del corto pensando già a Matilda De Angelis. Dopo averla vista in un’anteprima di Veloce come il vento dovevo lavorare con lei! È stata la prima ad accettare con Matilde Gioli.
Da quel momento è stato più facile chiudere il cast con cui ho cercato una produzione. Per fortuna la Maestro ha creduto in noi: così siamo riusciti ad avere anche Francesco Montanari tra i protagonisti. Ho provato sulla mia pelle cosa significhi lavorare con l’attore, creare insieme i personaggi e farli scontrare tra loro, ognuno con la sua verità. Adesso gli attori credono nelle nuove generazioni di registi, vogliono lasciarsi andare. In Italia si rischia poco ormai, però io sto puntando tutto sull’idea che prima o poi le cose cambieranno. E voglio essere parte di quel cambiamento.
Eppure non hai la preoccupazione di doverti affermare come autore.
A pensarci bene, i film che ho preferito negli ultimi anni sono Drive, Whiplash, Mommy, che in effetti sono film d’autore. È quello che mi piace, ma vorrei cercare di fare un cinema popolare e allo stesso tempo di qualità. Nonostante sia giovane, ho una gran desiderio di girare film come questi: gli autori di Stranger Things sono dei trentenni, Xavier Dolan sta lavorando al suo settimo film! E allo stesso modo Scorsese continua a essere immenso. Bisogna stare attenti alle storie e a come vengono raccontate, è tutto qui.