Damiano Giacomelli, filmmaker lontanto dalle mode
Dopo studi itineranti tra Urbino, Bologna e Parigi Damiano Giacomelli (nato a Tolentino) ha iniziato la sua carriera come sceneggiatore e filmmaker d’inchiesta. Lontano dai centri nevralgici del cinema europeo, ha trovato nelle Marche quel cinema del reale lontano dalle mode e dalle tendenze dell’industria cinematografica. Vincitore del Torino Film Festival e del concorso I love G.A.I. – Giovani Autori Italiani nell’ambito della Mostra del Cinema di Venezia, Damiano Giacomelli si conferma come uno dei maggiori talenti del cinema italiano indipendente e periferico.
Le Marche, terra di frontiera
Possiamo considerare il tuo come un cinema delle origini? Quasi identitario?
Tra i luoghi che ho frequentato, quello in cui abito è forse il più lontano dai centri principali del fare cinema. Così quando lavoro faccio poco riferimento alle tendenze e molto al rapporto con la realtà che mi circonda. La provincia delle aree interne ormai è questione di reduci. Spesso mi trovo a indagare situazioni in cui qualcuno incontra (o si scontra con) le omologazioni della società di massa. Tanto chi resiste, quanto chi aderisce, lo fa spesso in modo sghembo e non allineato. Ne deriva un disadattamento che oggi risuona in tante anonime province dei paesi occidentali.
Le Officine Mattòli sono un progetto un po’ ibrido, come è nato?
Fino al 2010 ho incrociato le prime esperienze professionali con brevi laboratori scolastici a Tolentino (MC). I corti che giravamo coi ragazzi avevano buoni risultati nei festival di settore e così mi hanno proposto un laboratorio extra-scolastico in città. Anziché tenerlo io, ho pensato di coinvolgere professionisti attivi a livello nazionale. Su questi presupposti è nata un’associazione, ancora oggi impegnata nella formazione e nell’organizzazione eventi. Negli anni hanno collaborato come docenti Daniele Gaglianone, Francesco Amato, Stefania De Santis, Daniele Ciprì, Gianluca Arcopinto, Gaetano Bruno, Daniele Orazi, Francesca Inaudi, Andrea Segre e tanti altri. Nel 2014 poi con Eleonora Savi abbiamo creato Officine Mattòli Produzioni, la società che ha prodotto i miei primi lavori.
Con La strada vecchia hai vinto a Venezia il concorso I love G.A.I. Cosa distingue questo corto dagli altri tuoi lavori?
Il corto racconta di un giovane venditore ambulante di patate, che per la prima volta mette in discussione il mestiere esercitato da suo padre e suo nonno prima di lui. È ambientato nella zona di valico tra le Marche e l’Umbria, sulla statale che percorrevo regolarmente per arrivare a Roma. Oggi una nuova superstrada mi fa risparmiare mezz’ora, tagliando però fuori gli ambulanti della strada vecchia. Diversamente dagli altri miei lavori di finzione, qui non partivo da un personaggio, ma da un contesto e una vicenda. Questo mi ha dato maggiore libertà nella costruzione dei personaggi, cui gli attori hanno dato un contributo decisivo, a partire da Fabrizio Falco, Elena Radonicich e Fabrizio Ferracane.
Spera Teresa invece si è aggiudicato la vittoria al Torino Film Festival, sembra collocarsi a metà tra la fiction e il documentario sociale.
L’ho scritto in mezza giornata nell’immediato post-sisma, tra un trasloco e l’altro. Al centro del corto c’è un personaggio, Teresa, costruito sulla sua ottima interprete: Rebecca Liberati. L’altro ingrediente è un nuovo quartiere della mia città, nato tra un magazzino di fallimenti e uno dei più grandi villaggi container in Italia. Avevo iniziato a giocare col mockumentary per promuovere il festival Borgofuturo [di cui è direttore artistico, a Ripe di San Ginesio, ndr]. In Spera Teresa ho ripreso quel linguaggio con maggiore studio e progettazione, cercando però di mantenere l’energia grezza che può veicolare.
I tuoi sono lavori indipendenti, spesso ti occupi della regia ma anche di scrittura e produzione, come ti destreggi tra i vari ruoli?
Al centro ci sono le storie, le altre scelte seguono a cascata. Per questo, anche se può sembrare poco ortodosso, l’attraversamento di più ruoli mi aiuta a dare continuità al processo produttivo e creativo. Ci sono storie che è più indicato mettere in scena tra amici, se non da soli. Per altre è necessario un gruppo più ampio di collaboratori, con competenze più specifiche. L’importante è non perdere contatto con la natura del progetto.
Nel 2019 il documentario Noci sonanti, girato in co-regia con Lorenzo Raponi, ha vinto il premio opera prima al Biografilm di Bologna. Ha richiesto un lungo periodo di lavorazione?
Il film racconta l’estate che Siddhartha trascorre con suo padre, vivendo da uomini liberi nella natura, secondo lo stile di vita radicale dell’uomo… fino all’esame di quarta elementare, unico momento istituzionale della vita del bambino. Stabilito un rapporto di fiducia con i due protagonisti, abbiamo girato per due mesi con due camere. La co-regia con Lorenzo Raponi ha permesso di seguire entrambi con la stessa consapevolezza di racconto. Alla fine, avevamo un girato consistente, che abbiamo montato in due sessioni nell’arco di quasi due anni, con Aline Hervé ed Enrico Giovannone.
A cosa stai lavorando adesso?
Al mio primo film di finzione, ambientato sui Monti Sibillini. Il film ha a che fare con il fenomeno delle fake news, trasportato sulla dimensione di una piccola realtà di paese. Abbiamo già ottenuto un primo fondo dal bando della Marche Film Commission e stiamo lavorando sulla chiusura del budget.