Una camera da letto infantile, dalle tenui tinte pastello, una bambina bionda dorme toccata dai raggi del sole che filtrano dalle persiane. È questa la prima inquadratura di Lia, il cortometraggio d’esordio di Arianna Del Grosso, trevigiana classe 1992.
Una giovanissima regista il cui talento, con solo due cortometraggi all’attivo, ha già raccolto riconoscimenti importanti, dal Premio Pasinetti della Biennale di Venezia per Lia alle vittorie di Candie Boy, prodotto da Première Film, a Maremetraggio e Visioni Italiane.
Quando inizia a raccontare la sua storia scopre subito le carte: «La mia è una formazione di spettatrice, fin da bambina passavo le giornate a guardare film, spesso gli stessi: La storia infinita e Labyrinth in particolare hanno segnato la mia infanzia e anche il mio immaginario, probabilmente». Questi pilastri del cinema per ragazzi degli anni Ottanta sono titoli che dicono tanto della giovane regista. I suoi due corti infatti condividono un filo conduttore tematico evidente: l’attenzione all’infanzia e in particolare a quei momenti liminali in cui il bambino si affaccia sulla soglia del suo futuro, in cui per la prima volta intravede l’ingresso nell’adolescenza.
La protagonista di Lia è una bambina colta nel momento sconvolgente della prima mestruazione, Arianna lo ha definito nelle sue note di regia «la nascita della donna, attraverso l’inconsapevolezza, come sguardo dolceamaro sul mondo».
Come nasce quindi una regista?
«A 12 anni ho preso per la prima volta in mano una macchina fotografica, la mia passione nasce da lì, dallo studio della luce. Mi sono trasferita a Roma per capire come funzionasse il lavoro nel cinema perché non avevo idea da che parte cominciare, vedevo il mestiere del regista come qualcosa d’inarrivabile. All’università mi hanno consigliato di iscrivermi a un laboratorio di recitazione: non ho mai pensato di fare l’attrice, ma è stato fondamentale». Parallelamente ho iniziato a lavorare come fotografa.
Arrivare presto a risultati di rilievo, come firmare cortometraggi applauditi in festival importanti, non significa per forza avere bruciato le tappe. Ripercorrendo la sua formazione, Arianna rivendica la scelta di coltivare le sue esigenze espressive in maniera graduale.
«Ho girato Lia per le selezioni del Centro Sperimentale, dopo la laurea. Sono contenta di essermi data questi tre anni di ricerca, ho rispetto per la regia e penso sia anche questione di maturità, ho deciso di iniziare solo quando ho capito che cosa volevo raccontare. Devo molto a Sebastiano Riso [regista di Più buio di mezzanotte, presentato a Cannes 2014, ndr], è stato per me un punto di riferimento in un momento in cui ero spaventata dal dovermi confrontare per la prima volta direttamente con il mio sogno. Lui mi ha consigliato di raccontare quello che conosco, ed è quello che mi ripeto tutti i giorni. Non essendo ancora abbastanza distante dall’adolescenza mi sono rivolta all’infanzia, perché è un’età a cui posso guardare con sufficiente distacco. Scegliere di raccontare in maniera ironica un tema – trattato sempre in maniera cupa o ignorato – come l’arrivo delle mestruazioni è stata la chiave che ha reso semplice e spontaneo scrivere il corto».
In Candie Boy intorno al bambino compaiono gli adulti, i genitori. È un altro cortometraggio che in pochi minuti riesce a raccontare una storia concisa, immediata, che compie alla perfezione il suo arco. Ritorna la spinta della crescita, una spinta la cui ambiguità sconcerta e preoccupa gli adulti, fino a un finale che ribalta con grazia e ironia i (pre)giudizi degli spettatori intorno al suo piccolo protagonista. Un passo avanti, da un corto di situazione e di linguaggio, di messa in scena, a uno in cui entra l’apporto decisivo degli attori: «Credo tantissimo nella centralità dell’attore nel mio modo di fare regia. Mentre Lia era più una dichiarazione d’intenti, di condivisione di quella che vorrebbe essere la mia poetica, in Candie Boy ho dato tanto spazio ai personaggi e ai loro interpreti».
Da spettatrice bulimica, Arianna cresce regista che segue suggestioni senza riconoscersi in scuole o in miti: «Mi rendo conto che mi porto dietro una sorta di contrasto tra la delicatezza stilistica e la sostanza contenutistica, sono attratta da atmosfere pastello, forse perché mi porto dietro le mattine passate a Venezia per saltare scuola. Tra i miei feticci c’è Xavier Dolan, ma io non ho lo “schiaffo” che ha lui, mi piacciono i Dardenne e mi sento vicina al loro modo di affrontare i personaggi».
Ti senti pronta per l’esordio al lungometraggio?
«Ho un soggetto, non ancora una sceneggiatura. Al momento sono proiettata sul film, anche l’esterno mi sta spingendo verso questa direzione, non voglio fare un passo indietro. Sto centellinando le esperienze perché per muovermi devo sentire un’esigenza espressiva reale. Per fare il passo verso il lungometraggio ho bisogno di un produttore che non sia solo qualcuno che trova i soldi, ma una figura con cui instaurare un sodalizio artistico, di fiducia e condivisione profonda, e non è affatto facile».
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