Alessandro Tamburini si racconta a Fabrique, tra i successi del suo cortometraggio e i progetti più ambiziosi: «Le difficoltà si superano solo con l’entusiasmo e la determinazione».
Se un regista sceglie l’Eur, il “Colosseo quadrato” e la geometria architettonica di Piazza Marconi a Roma per fare una chiacchierata ci si potrebbe fare un’idea del suo cinema anche senza averlo visto. Nel caso di Alessandro Tamburini però si arriverebbe alle conclusioni sbagliate.
Al contrario dello spigoloso quartiere romano il suo cinema è morbido e rotondo, è un viaggio sorridente e malinconico nella provincia, nei suoi ricordi e nelle sue storie attuali, con un occhio di riguardo per gli anziani: elementi che da quando ha avuto in mano un video 8 sono una costante del suo lavoro.
Nato a Faenza nel 1984, Tamburini è un regista e attore che ha cominciato a farsi notare da chi frequenta i festival e il mondo dei cortometraggi con Ci vuole un fisico, storia di un amore causale nato tra due ragazzi non proprio perfetti, con cui ha vinto decine di premi in giro per l’Italia, tra cui il Cortinametraggio e il premio Pasinetti a Venezia, ed è passato da poco sul canale Diva Universal della piattaforma Sky. La passione per il cinema risale, come da copione, all’infanzia: «Ho cominciato ad avere il tarlo delle immagini fin da piccolo, quando mi hanno regalato la prima telecamerina, riprendevo fiori. Poi quando ho scoperto lo zoom è stata la fine…».
Cortese e rilassato come il suo cinema, che dagli inizi semi-amatoriali fatti di campagna, zie e nonne, di ricordi autoriali tra Olmi e Pupi Avati («a cui ho inviato uno dei miei primi film, La fine, e che mi ha dato precisi consigli su cosa fare e come farlo») è arrivato a una forma sempre più matura e compiuta, dalle parti della commedia d’autore, autobiografica e agrodolce, assumendo quasi i tratti di un Woody Allen romagnolo.
Chiave di volta della sua carriera ovviamente il Centro Sperimentale di Cinematografia: «Lì non solo ho imparato le basi tecniche e artistiche del mio lavoro, ma soprattutto ho capito la fatica del set: prima, lavorando da solo con parenti e amici, avevo l’impressone di giocare e divertirmi. Al Centro ho capito cosa significa la professionalità del set e di tutti coloro che stanno intorno al regista, gestire le loro esigenze, risolvere i problemi».
Non sono però solo vantaggi quelli che vengono dall’incontro con il set e dalla prospettiva di un salto di qualità: «Capisci infatti anche che ci sono dei limiti, degli schemi da seguire, dei modi di realizzazione e produzione che possono ingabbiarti e rendere meno appagante e creativo il tuo lavoro». Per questo con i suoi compagni nel corso di regia del Csc ha cercato di creare un gruppo, di fare una squadra per potersi supportare: l’importante, parola di Tamburini, è non smarrirsi, capire quali progetti e quali idee sono efficaci e quali rischiano di farti perdere il contatto con la realtà e con un mondo della produzione cinematografica che in Italia rischia di essere una trappola ben più rischiosa di quella che dà il titolo al film amatoriale del 2007 con cui il nostro si è presentato al Centro, apprezzato in commissione da nomi come Nicola Giuliano e Paolo Sorrentino.
Dopo aver raccontato la provincia e la campagna, la terza età in varie sfumature, da quelle esistenziali a quelle sessuali nel documentario Mai senza (in concorso al Riff), Tamburini sta cercando ora di affrontare il cinema con un occhio più “urbano”, raccontando la città, le sue notti, i suoi rapporti con i personaggi, proprio come in Ci vuole un fisico, che adesso si appresta a tramutare in un lungometraggio.
E proprio in questo auspicabile approdo a un cinema di più ampia visibilità sta il nodo della questione per molti registi emergenti: si può fare bel cinema in Italia conservando la propria indipendenza? «Certo che si può fare, sono molto fiducioso nei registi della mia età, come Claudio Cupellini o Pasquale Marino. Si può essere indipendenti sapendo che non si deve perdere tempo, che occorre concentrarsi su ciò che è meglio per il film e affrontare le difficoltà. Per esempio, io vorrei sempre con me Anna Ferraioli Ravel, la mia attrice e musa, bravissima e molto comunicativa; vorrei fosse lei la protagonista del mio primo lungo, ma siccome non è una bellezza classica e non è ancora famosa, in molti storcono il naso. Se si superano impasse come queste, allora si può realizzare ciò che si vuole e si può cambiare il cinema italiano».
Anche se poi il cinema internazionale è sempre un richiamo irresistibile: «Lavorare con un attore internazionale sarebbe bellissimo, ma qui in Italia, anzi in Romagna. Ho capito che mi sono allontanato dalla mia terra solo momentaneamente, per ritornarci a un certo punto della carriera, come fanno tutti gli “espatriati”».