Aldo Iuliano è entrato da autodidatta nel mondo del fumetto e del cinema. Ora si appresta a fare il grande salto con il primo lungometraggio, con lʼaiuto di una giovane produttrice e dellʼinseparabile fratello sceneggiatore.
Cominciamo con il tuo primo film…
È un passo avanti dopo una quindicina di cortometraggi, dopo cioè molta esperienza che mi ha aiutato a capire cosʼè il cinema e come si fa. Non ho la pretesa di dire che sono un regista, credo che prima occorra aver fatto almeno due o tre film. Quindi dico solo che ho fatto tante cose, perché ne avevo voglia e perché per me è una necessità. Lʼidea del film è nata su una panchina: io e Andrette Lo Conte – la co-fondatrice della mia casa di produzione Freak Factory, nonché bravissima attrice con cui ho sempre lavorato – eravamo seduti di fronte al cinema Adriano. Lei mi ha accennato a uno spunto che aveva in mente, io ho aggiunto unʼimmagine visiva e da lì abbiamo cominciato a costruire tutto. Poi la palla è passata a mio fratello Severino, sceneggiatore professionista: lui ha individuato la chiave della storia, e ci siamo resi conto che avevamo qualcosa che poteva funzionare.
Con i corti mi è piaciuto sperimentare tutti i generi. Non sono dʼaccordo con chi pensa che un regista deve specializzarsi in un genere: poi lo si etichetta sotto quella categoria, una prassi che fa comodo soprattutto allʼindustria. Invece penso che un regista debba essere in grado di usare il genere che meglio si adatta alla sua storia. Nel caso del mio film, che si intitolerà In utero, siamo partiti da un genere drammatico e siamo arrivati a strutturare un thriller con venature quasi horror.
Dei corti che hai realizzato quello che ha avuto più successo e girato di più tra i festival è stato Fulgenzio. Comʼè nato?
Anche in quel caso lʼidea era di fare uno step in più, stavolta di produzione. Eravamo in Spagna sempre io, Severino e Andrette, cercavamo la scintilla per un cortometraggio. Tra le varie proposte mi è piaciuta quella di Fulgenzio perché mi dava la possibilità di affrontare la commedia, genere in Italia ormai abusato, e la sfida era proprio tirar fuori qualcosa di non visto e non sperimentato. Fulgenzio nasce da unʼidea semplice: una sposa allʼaltare decide di non sposarsi più perché il marito ha un secondo nome ridicolo. È una sorta di variazione sul tema dellʼapparenza. Lʼimpianto visivo è western, perché in fondo si tratta una grande sfida tra le parti: marito, moglie, prete, genitori… Il tutto con venature dark. Anche con la colonna sonora abbiamo fatto un bel lavoro, perché lʼabbiamo registrata in una chiesa dellʼOttocento con un organo antico, ed è quindi assolutamente diegetica, in linea con la storia.
Fulgenzio è stato il primo lavoro in cui ci siamo messi a tavolino e abbiamo detto “ok, non giochiamo più, ragioniamo anche di produzione”. Ed è andata molto bene, lʼabbiamo portato in giro per i festival, tra cui quello di Clermont-Ferrand: ma la cosa più interessante è che è stato comprato per il mercato giapponese. Un bel traguardo: in Italia per distribuire un cortometraggio si spendono soldi, invece è bastato portare Fulgenzio allʼestero perché venisse acquistato.
In che modo il tuo background di fumettista dialoga con il cinema? E come mai hai deciso di dedicarti alla regia?
Il fumetto è una grandissima educazione allʼimmagine: quando padroneggi la figura nello spazio, la prospettiva, riesci a inseguire le visioni che hai quando leggi una sceneggiatura. È una questione di controllo, è tenere in un certo senso lʼimmagine con le briglie. Quando disegni sei un poʼ direttore della fotografia, poʼ attore, poʼ regista. Insomma, ti rendi conto di parecchie cose… però sei da solo. Naturalmente ti confronti anche con altri colleghi, con i libri ecc., ma il cinema è stata lʼevoluzione naturale. Cerchi altri strumenti: il suono, lʼimmagine in movimento. Comunque il fumetto non deve invadere il cinema: il cinema è un linguaggio, bisogna conoscerlo per trovare il giusto equilibrio.
Perché un giovane regista come te ha sentito lʼesigenza di fondare una casa di produzione? E come ti rapporti con il mondo produttivo italiano?
Non troppo bene, a dire il vero. Forse il motivo per cui non ho ancora fatto il mio primo film è perché non mi ci sono confrontato come si deve, sono un poʼ polemico in questo. Quindi ho pensato che il primo sforzo avrei dovuto farlo io per cercare di farmi conoscere, senza dover troppo mediare in anticipo. Porto avanti quello che vorrei fare e poi vedo se qualche produttore si può interessare. La casa di produzione è nata perché per In utero abbiamo fatto domanda al Ministero per lo sviluppo sceneggiature, e abbiamo vinto. Questo ci ha permesso di credere ancora di più nellʼidea. Io non sono portato per fare il produttore, quindi lascio tutto in mano ad Andrette: serve avere talento anche in quello. Servono dei produttori giovani che abbiano un approccio coraggioso, e io in lei lʼho trovato.