Essere testimoni del nostro tempo attraverso opere che nascono come fusione tra linguaggi diversi, con uno stile in evoluzione continua. Così il regista Alain Parroni (24 anni), presente all’ultima Settimana della Critica con il suo ultimo corto Adavede, ci descrive la sua visione del cinema, un lavoro di squadra che gioca con le arti tra passato e futuro per lasciare memoria di sé.
[questionIcon]In IOV hai ricostruito il Polo Nord, con Macaroni hai rivisitato il furto della Gioconda per mano di Vincenzo Peruggia: due regie devote all’estetica per poi arrivare a Drudo e Adavede, in cui tutto è giocato su drammaturgia e recitazione. Come mai questa profonda differenza di approccio?
[answerIcon]Quando scrivo una storia inizio contemporaneamente anche a disegnare, sempre con tecniche diverse. È così che prendono forma le mie inquadrature. Ho disegnato Adavede a carboncino, usando solo schizzi grezzi, perché era una storia di graffiti e segni. Al contrario Macaroni ha uno storyboard dettagliatissimo, perché volevo fare “il cinema dei grandi” in una sorta di teatro di posa. La regia è quella, ma lo stile credo debba cambiare in ogni opera. È come per i testi: a volte scrivi una poesia, altre una lettera o un romanzo. Non a caso ogni cortometraggio è stato un atto d’amore nei confronti di una persona, e questo ha richiesto forme d’espressione diverse.
[questionIcon]I tuoi lavori nascono da una curiosa fusione di linguaggi: scultura, pittura, grafica, animazione. Stai definendo ancora la tua strada o sogni una sorta di rivoluzione dell’audiovisivo?
[answerIcon]Inizialmente ero accecato, come tutti, dall’amore per il cinema dei maestri. Quindi provavo a fare quello che avevo sempre visto fare agli altri. Poi con Adavede si è accesa la consapevolezza di essere nel Duemila, e in fondo c’è motivo di esistere anche nel 2017: devo dare un senso a questo. Giacometti voleva fare una scultura solo per sotterrarla e lasciarla trovare ai posteri, come testimonianza di un’epoca. Anche io avrò un tempo limitato per definire quello che ho attorno. Quindi sì, è la ricerca e insieme il bisogno di essere testimone del nostro tempo, del nostro cinema. La rivoluzione devi farla per forza.
[questionIcon]La tua idea di set è particolare: come lavori con la tua squadra? Pensi possa funzionare anche con realtà produttive più grandi?
[answerIcon]Con Macaroni ho iniziato occupandomi anche della fotografia, dei costumi, della scenografia. Ma ero circondato da assistenti e ho notato subito che tutti davano una pennellata indispensabile al quadro. Ho voluto mettere nei titoli di testa di Adavede le firme scritte di tutta la troupe: le persone con cui lavoro mi sono accanto già dalle prime allucinazioni; capita addirittura di andare a fare sopralluoghi per qualcosa che nemmeno ho scritto, e magari dalla foto del sopralluogo nasce una scena. Parliamo tantissimo di qualsiasi idea: a volte rimane solo il tormentone di una settimana, altre diventa una sceneggiatura. Herzog è stato un pilastro per me e per i miei colleghi della RUFA, ci ha ispirato nel portare avanti questo modo zingaro di impostare il set. Come adatterò tutto questo al cinema che c’è fuori? È una domanda ricorrente oggi, che mi pongono anche alcuni produttori. Spero di poter coinvolgere il mio team, ma comunque questo è il mio modo di lavorare, non potrei rinunciare al confronto. Se non riuscissi a far innamorare delle mie idee per primo il direttore della fotografia o lo scenografo, come potrei riuscirci con gli spettatori in sala?
[questionIcon]Tu nasci come disegnatore per poi scoprire la regia. Qual è stato il percorso verso il cinema?
[answerIcon]All’istituto d’arte ho studiato fotografia, grafica e stampa, come incisione su lastra e linoleum. Grazie a un corso di animazione ho scoperto lo storyboard e il montaggio: piano piano ho capito che con tecniche miste potevo fare animazione anche con degli oggetti. Utilizzando una piccola compact ho iniziato a sperimentare e a creare degli ibridi, accorgendomi che mentre disegnavo ero anche costumista, direttore della fotografia, davo voce ai personaggi. Soprattutto la tecnologia mi permetteva di inserire dell’audiovisivo e ottenere effetti più realistici. Questa formula mi faceva impazzire… e all’istituto hanno iniziato a dirmi che quello era cinema.
[questionIcon]Nei tuoi lavori ci sono due motivi ricorrenti: lo “storicamente falso”, con cui ti appropri aggressivamente di grandi icone, e il fascino per l’immagine di repertorio.
[answerIcon]Bataille parla di una parete, nelle grotte di Lascaux, su cui gli uomini hanno disegnato per millenni. Io cerco di fare la stessa cosa, di mettere il mio segno sul muro. Per Macaroni sono riuscito a trovare i contatti dei pronipoti di Peruggia, ho letto tutta la sua corrispondenza con l’Italia. Per IOV ho studiato il materiale conservato nel Museo dell’Aereonautica di Vigna di Valle, una storia epica ma ignorata dai più. Come ognuno di noi, nascendo irrompo nella storia: così, partendo dalla documentazione, a un certo punto inizio a metterci me stesso. Se fossi stato analfabeta e alcolista nel 1900, di fronte a quell’immagine di donna rappresentata dalla Monna Lisa non mi sarei innamorato? Probabilmente sì. Ho sempre avuto il bisogno di proseguire il disegno sulla grotta e tenere vivo il dialogo con la storia.
[questionIcon]Come hai fatto con il tuo progetto di VR, Anywhere at home, presentato nel 2016 al designer canadese Karim Rashid.
[answerIcon]La differenza tra video e foto mi ha sempre messo in discussione. Non ho mai saputo scegliere tra queste due macchine del tempo: tra la potenza della memoria viva e l’altra immobile, fissata per sempre. Poi ho pensato che c’è una tecnologia, la VR, che mi permette di unire la fotografia al cinema, il mezzo più immersivo che esista. Così ho preso delle foto della mia famiglia, a partire da mia madre sedicenne nella sua camera da adolescente. E ancora, mio padre da ragazzo. Fino al loro incontro e alla mia nascita. Sono andato negli stessi luoghi in cui erano state scattate quelle fotografie, realizzandone delle altre a 360 con una situazione di messa in scena che mi aiutasse poi a ricostruire l’ambiente in 3D. Infine ho creato un visore di ceramica, un oggetto di design che si ispirasse alle nostre antiche culture, come contenitore di radici pesante e insieme fragile. Da quando ho visto La jetée ho capito che parlando di cinema parliamo davvero di memoria.
[questionIcon]Per i tuoi prossimi progetti ti stai muovendo in questa direzione?
[answerIcon]Sto scrivendo due lungometraggi per il cinema. Uno sfrutta la VR utilizzando pellicola e tecniche di animazione sperimentale. Stavolta sarà un atto d’amore nei confronti dell’immagine. Quando ho provato la VR per la prima volta è stato spontaneo aggrapparmi alla sedia, tant’era la suggestione di fronte al nuovo mezzo. Penso di aver capito la reazione del pubblico all’arrivo del treno dei Lumière: anche noi ora siamo nella fase dell’intrattenimento, dello stupore. L’altro progetto è pensato per il set: sarà un lavoro collettivo, quel “circo” che tanto mi diverte. Nasce da tutto quello che ho visto finora, un linguaggio iconico e pop, con un’estetica sporca e aggressiva. Vorrei che avesse l’eco di un proiettile audiovisivo.
[questionIcon]E da quale disegno nasce una storia così pop?
[answerIcon]Ho iniziato disegnando un’immagine sacra, poi mi sono accorto che era diventata una macchina scrostata dalla salsedine, con un rossetto rosso sul sedile e dentro Alex, Brenda e Kevin.