Acqua che scorre non porta veleno: quando finisce un amore

Acqua che scorre non porta veleno
Emilia Scarpati Fanetti in "Acqua che scorre non porta veleno".

Regista e produttrice appena 25enne, Letizia Zatti ha studiato alla Luchino Visconti di Milano e si è fatta notare al RIFF con la storia di una donna che si introduce di nascosto nella casa del suo ex compagno, quella che un tempo era stata di entrambi. Nel corto Acqua che scorre non porta veleno, Matilde soffre per l’amore perduto e Zatti cuce sulla protagonista una regia intima e sensoriale, utilizza palette di colore e spazi come strumenti narrativi realizzando un equilibrio perfetto tra estetica e contenuto.

Nonostante la vocazione registica hai studiato produzione alla Luchino Visconti di Milano. Perché questo percorso?

Sono stata presa alla Visconti a 19 anni, subito dopo il liceo. Ero piccola e quindi ho scelto produzione perché in me convivono creatività e pragmaticità. Col senno di poi è stata la scelta più giusta: mi ha permesso di lavorare su set pubblicitari e cinematografici. L’incontro fondamentale è avvenuto con l’aiuto regista Miguel Lombardi, che venne a farci un corso di aiuto regia. A lui devo praticamente tutta la mia esperienza sui set, è stato il mio maestro. Poi, in realtà, non ho mai avuto il mito della regia. La vocazione registica mi si è rivelata set dopo set, è semplicemente il ruolo in cui più mi sento me stessa. Senza aver studiato produzione però, probabilmente sarebbe stato tutto più improvvisato.

 

In Acqua che scorre non porta veleno Matilde ripercorre gli stessi spazi, annusa l’odore dell’ex dalla sua camicia e si immerge nella vasca piena d’acqua, dove un tempo facevano il bagno insieme. La casa-nido è quasi un terzo personaggio. Che tipo di lavoro hai fatto sugli spazi e con l’attrice protagonista?

È proprio così. La storia narra la fine di una relazione, ma ancora di più narra un legame profondo con la casa. Era questo il tema che volevo approfondire. Ognuno di noi vive la propria casa in modo diverso: c’è chi la considera solo un tetto sotto cui dormire e c’è chi invece cura ogni dettaglio. C’è chi di case ne ha cambiate trenta e chi invece vive tutta la vita nello stesso posto in cui è nato e cresciuto. Io ho vissuto in dodici case diverse nell’arco di 24 anni e quella che si vede nel corto è stata la prima casa che ho veramente sentito mia. L’ho fotografata spesso, per cui scegliere le inquadrature è stato abbastanza facile, la scelta della macchina fissa voleva restituire proprio questo terzo punto di vista, quello delle mura della casa. L’acqua poi è un elemento subdolo: si insinua, penetra lentamente e rovina un’abitazione facendola marcire in profondità. Ma ha anche un alto contenuto simbolico: lenisce, lava, cura. Emilia [Emilia Scarpati Fanetti, l’attrice protagonista] ha da subito capito cosa volevo raccontare, era un tema che sentiva vicino perché aveva vissuto un’esperienza simile. Ho voluto fare tutte le prove in casa, anche quella costumi con gli attori, in modo che avessero familiarità con il luogo.

Acqua che scorre non porta velenoLe cose che ci passano per la mente sono quasi sempre inconfessabili, il voyeurismo di Matilde, la sua difficoltà nel lasciar andare, ci mettono di fronte alla sua ferita. Il tuo è un cinema intimista, fatto di sentimenti quotidiani e cose minuscole. Cosa aspiri a raccontare e in quale forma?

Il cinema che voglio fare è un cinema intimo, ricco di un sottotesto che rende onore più ai volti e alle piccole emozioni che alle grandi gesta. Sono affascinata dalle dinamiche psicologiche che si creano dietro le relazioni umane e ossessionata dal perché le persone diventano ciò che sono. Per ora sento che questa è la mia via: storie semplici ma con un universo dietro, un punto di vista chiaro e una forma estetizzante ma mai fine a se stessa. Ogni giorno che passa cambiamo e ci evolviamo, quindi chissà, un giorno potrei cambiare del tutto approccio.

Cosa ti auguri per il cinema post-pandemico?

Non ho particolari storie che vorrei vedere, tutto è già stato scritto, tutto è già stato detto. Vorrei vedere film che più che focalizzarsi sul cosa raccontare, si concentrino sul come farlo. Spero vivamente che la visione in sala riesca a sopravvivere nella sua essenza popolare e che non diventi solo per un pubblico d’élite. Fare i film per un’élite non mi interessa, la mia missione è quella di arrivare a tutti.

L’ARTICOLO COMPLETO È DISPONIBILE SOLO PER GLI ABBONATI, CLICCA QUI PER ABBONARTI A FABRIQUE